Quale unità culturale difendere e perché

L’unità della Repubblica è anche unità culturale e la sua difesa – e quindi il pericolo di disgregazione – passano anche attraverso questo aspetto.

Tuttavia è necessario prima di tutto chiarire il campo nel quale ci situiamo. 

L’idea della destra di “nazione” e di “identità culturale” è infatti un’idea che tende a escludere, a erigere barriere, a preservarci dalle contaminazioni. L’affermazione secondo la quale il nostro Paese rischierebbe di perdere la sua identità, le sue tradizioni, a causa dell’arrivo dei migranti, è già in sé un’idea che non può appartenerci. Contiene i germi del razzismo, nel senso che ci si deve proteggere dal diverso, dal pericolo del nuovo, da ciò che potrebbe modificare lo stato delle cose. 

La cultura è invece evoluzione continua, le tradizioni anche, le lingue, le identità. Questa evoluzione è parte della storia dell’umanità, a volte più indolore, a volte più drammaticamente violenta. Non ci deve spaventare quindi l’idea che anche la nostra cultura, le nostre tradizioni, i credo, la lingua stessa evolvano. E non ci deve spaventare se questo avviene per contaminazione con altri popoli. La cultura italiana, poi, è il frutto di tantissime influenze, rivolgimenti, inserzioni di pezzi di tradizioni in altri, e la ricchezza che ciò ha prodotto dovrebbe farci riflettere sul valore del confronto, dell’apertura, del conoscere “altro”. Etruschi, greci, romani, vandali, longobardi e goti, normanni, saraceni, arabi, spagnoli, francesi, austriaci… 

Perché difendere dunque la cultura “italiana”? Che cosa difendere e da chi? 

Tra i progetti messi avanti in Veneto in nome della “tradizione” vi è per esempio quello di insegnare alcune materie in alcune scuole in lingua veneta. Si tratta di una grossolana deriva della metodologia CLIL, attraverso la quale alcune discipline, in alcuni istituti del Paese, vengono insegnate in inglese. 

Ma in quale tessuto si inserisce una simile proposta per il dialetto veneto? 

Osserviamo innanzitutto che solo per estrema semplificazione si può parlare in Italia di dialetti regionali, in quanto, in realtà, esistono all’interno delle diverse Regioni differenze anche molto grandi tra una zona e l’altra, così come esistono “enclaves” dove si parlano addirittura dialetti di altre parti del Paese. In Calabria, per esempio, c’è una zona dove si parla l’occitano (retaggio di un insediamento dei Valdesi, in fuga perché perseguitati in Piemonte) e un’altra nella quale si parla addirittura albanese (come in Sicilia). Il tabarchino è un dialetto ligure parlato da circa 10.000 persone nell’Arcipelago Sulcitano a sud ovest della Sardegna, a Carloforte, centro dell’isola di San Pietro, e a Calasetta, su Sant’Antioco. Si dovrebbe quindi insegnare in ligure a Carloforte e in sardo a Cagliari?  

Sempre in Veneto, emergono oggi, grazie all’Autonomia Scolastica (che, ricordiamolo, venne varata dal centro-sinistra due anni prima che approvasse la “riforma” del Titolo V, che oggi permette l’Autonomia differenziata) progetti di insegnamento della storia locale che tendono ad osannare un presunto popolo veneto. 

Ciò a cui possiamo essere confrontati con l’Autonomia differenziata è dunque un pericolo di disgregazione, di contrapposizione tra la Regioni, di utilizzo delle tradizioni (peraltro anch’esse ormai molto mescolate) per mettere una zona contro un’altra, per alimentare tensioni, per modificare addirittura la storia. E comunque per rimettere in causa gli elementi unificanti: la lingua italiana, la storia, la letteratura.

Allarmismo? 

Per rispondere dobbiamo partire dal presupposto che l’unità culturale italiana, frutto come abbiamo visto di contaminazioni e contributi svariati nel corso dei secoli, lungi dall’essere la semplice espressione del “popolo di eroi e di grandi inventori” che discende “dagli antichi Romani”, cantato ironicamente da Edoardo Bennato, è in realtà un prodotto della storia decisamente recente e per nulla consolidato. Certo, a questa unità hanno contribuito proprio le contaminazioni più recenti, come l’immigrazione degli anni ’60; ma ricordiamoci, per esempio, che nel momento dell’esplosione dell’ex Jugoslavia i matrimoni tra serbi e croati erano addirittura superiori in percentuale a quelli tra settentrionali e meridionali in Italia. In altri termini: nulla preserva dalla creazione di nuove tensioni, scontri, divisioni. 

Un’unità fragile

Torniamo alla questione della recente unità culturale italiana. 

Dal punto di vista linguistico, i dialetti sono stati superati solo con il Dopoguerra, ma ancora oggi esistono zone del Paese dove prevalgono sull’italiano. Naturalmente una certa unità culturale, anche importante, esiste, attorno alla lingua, alle opere d’arte, alla letteratura, alla musica, allo sport. Ma essa trova fondamento nell’unità storica e politica, in quella legislativa, nelle condizioni materiali ed economiche che unificano il Paese. Proprio queste ultime, con tutte le differenze ancora esistenti non solo tra nord e sud, ma anche all’interno delle stesse Regioni, ci indicano che questa unità è fragile, non compiuta davvero, esposta alla regressione, anche per il modo in cui si è realizzata. 

La questione della scuola si inserisce in questo discorso in modo preoccupante. Esistono già oggi livelli diversi di formazione e di investimento nella scuola, che se anche al nord, per esempio, stanno subendo un attacco, al sud pongono da sempre problemi più grossi. Si pensi all’esistenza e alla diffusione del Tempo Pieno nella scuola primaria (e in parte secondaria di primo grado) al nord, mentre al sud praticamente non esiste. 

Da questo punto di vista, l’Autonomia Scolastica ha già segnato un primo passo preoccupante verso la frantumazione del sistema scolastico, ma anche dell’unità culturale. La fine dei Programmi Nazionali e l’avvento delle “Indicazioni” con i “curricoli d’istituto” ha infatti aperto la porta alla differenziazione dei livelli e dei contenuti dell’insegnamento con conseguenze gravissime in alcuni campi, come la storia, la geografia, la letto-scrittura, la matematica. Lo stesso valore dei titoli di studio ha subito un primo attacco, anche se formalmente resta in piedi. 

La frantumazione del sistema scolastico preconizzata dall’Autonomia differenziata significherebbe non solo portare ad una diversificazione più accentuata tra le Regioni e all’interno di esse (quartieri con scuole più avanzate per i ricchi – magari private – e più “sgarrupate” per gli altri), ma specialmente porterebbe un colpo all’unità della cultura italiana, a “ciò che ci unisce”, da Dante a Manzoni, dalla storia alla lingua, dall’arte alla musica, fino allo sport. Non è fantascienza pensare che si arrivi a studiare Goldoni solo in Veneto e Verga solo in Sicilia.

Verso l’abbandono o la privatizzazione completa 

C’è poi un altro aspetto, non meno importante, che va considerato. La cultura o la sottocultura procedono comunque in una direzione, sia essa di progresso, di valore, di arricchimento o, al contrario, di regresso. Vanno di pari passo con la società, e quindi anche con i finanziamenti che vengono concessi o meno, con la promozione, con gli investimenti per conservare il patrimonio artistico, letterario, paesaggistico, per svilupparlo o meno. La cultura intera – e particolarmente quella scientifica – vive di ricerca, e la ricerca non può che essere pubblica se vuole essere libera e di progresso. 

In questo senso, se intere Regioni – specie al sud – possono vedere un crollo della loro possibilità di mantenere e valorizzare il patrimonio culturale e la ricerca, tutte vedranno comunque un taglio di finanziamenti pubblici, un processo di privatizzazione di musei, siti archeologici, rassegne culturali, enti scientifici pubblici, oppure semplicemente il loro abbandono. 

La cultura popolare, le sagre, i sostegni alle iniziative che animano (già oggi sempre meno) le città e i paesi, dal nord al sud, potrebbero a poco a poco spegnersi. 

Certo, i grandi monumenti possono essere privatizzati anche con un certo profitto. Ma per quelli “minori”, per le culture vive del territorio, per la ricerca artistica che spesso non ha prospettive immediate di guadagno, potrà essere la fine. E in ogni caso, anche per i “grandi” siti, per la grandi manifestazioni, i costi di accesso per i cittadini potrebbero diventare proibitivi. 

La nuova funivia che porta da Cervinia al Piccolo Cervino e da qui a Zermatt, inaugurata da poco, costa 240 euro per un’andata e ritorno. Turismo d’élite, conoscenza d’élite. 

Non parliamo poi della ricerca scientifica: già oggi il suo legame con quella militare è strettissimo, tanto che alcuni sostengono che non esista ricerca se non legata a questo settore. Domani, chi investirà mai in ricerca pura? Chi investirà per le malattie rare? Chi investirà per slegare la medicina dagli interessi delle multinazionali?

Chi ha interesse e chi può difendere l’unità del Paese?

Tutto fa e tutto contribuisce: in un contesto di disgregazione legislativa, di privatizzazione, di liquidazione delle conquiste e dei diritti nazionali (scuola, sanità, contratti nazionali, pensioni, trasporti, politiche ambientali…), lo sfaldamento della cultura italiana, la contrapposizione tra presunte “culture” regionali diverse, può diventare la base per l’esplosione del Paese, in un clima di regressione complessiva che si autoalimenta con tutte le “benzine”: sociali, economiche, legislative, di diritti e anche culturali. 

Ciò che noi difendiamo non è dunque una cultura della nazione come valore assoluto, un’identità italiana contro le altre, chiusa, autocelebrata. Difendiamo invece tutti gli elementi che hanno unito la nazione perché hanno contribuito ad unirne la classe operaia e i lavoratori, a tracciare una via d’emancipazione che non può fermarsi alla “nazione”, ma non può prescindere da essa nel momento in cui la sua rimessa in causa significherebbe divisione, parcellizzazione, promozione del particolare contro il generale, smembramento della sola forza che può preservarci dalle barbarie: appunto la classe operaia e dei lavoratori, con le sue organizzazioni e le sue conquiste. Dopo l’indubbia spinta della borghesia all’unificazione del Paese nel Risorgimento, sono state proprio le lotte dei lavoratori, dal nord al sud, a cominciare a consolidare e sviluppare questa unità. Per tornare all’esempio del Tempo Pieno nella scuola primaria, si tratta di una conquista legata alle esigenze dei lavoratori e ancor più all’emancipazione delle donne. Dietro di essa non c’era solo l’assistenza durante le ore di lavoro, ma l’aspirazione ad un’istruzione qualificata per quanti non avevano i mezzi a casa propria. E sono le lotte dei lavoratori a inizio ‘900 ad imporre i contratti nazionali, così come è la lotta per la Liberazione ad imporre la Repubblica e le conquiste sociali. La perdita di tutto ciò passa anche attraverso la perdita delle conoscenza e della cultura che questi processi hanno generato.  

Se guardiamo i Paesi dove i processi la dislocazione hanno fatto i passi peggiori, aprendo la porta alla guerra, troviamo proprio quelli dove l’unità nazionale ha incontrato storicamente più problemi, in qualunque forma essi si siano presentati: riconoscimenti delle minoranze, processi e unificazioni forzate, prevalenza di una parte su un’altra…). L’Italia non è esente da questi pericoli, per i quali le prime vittime sarebbero proprio i lavoratori e gli sfruttati. 


Lorenzo Varaldo, membro dell’Esecutivo Nazionale dei Comitati per il ritiro di qualunque Autonomia differenziata, fa il dirigente scolastico a Torino. È coordinatore nazionale del “Manifesto dei 500 per la difesa della scuola pubblica”. Nel 2016 ha pubblicato il libro “La scuola rovesciata”. Coordina da vent’anni “Tribuna Libera”, mensile di confronto e informazione tra lavoratori.

11/9/2023 https://www.sulatesta.net

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