Se questo è l’Uomo

La strage di Cutro ci costringe a confrontarci con le paure dei bianchi, la riduzione del migrante a mero oggetto strumentale, inumano

E’ stato ritrovato un altro corpo. È quello di una bambina. Il numero settantaquattro [mentre pubblichiamo questo articolo se ne contano 86, Ndr]. Ci chiedono di voltarci verso il mare, quello stesso mare simbolo di terrore e speranza, dove tutto è nato e dove tutto è finito. Ci chiedono di inginocchiarci. Lo facciamo. In silenzio. Si sente solo l’urlo del vento. La sabbia è umida. Non così tanto da incollarsi addosso, non così poco da scivolare via. Ci chiedono di alzarci. E di continuare ad ascoltare le loro voci. Si alza il canto di una sura per commemorare i martiri. Ci chiedono di ascoltare e di ascoltare ancora. Per una volta ascoltate. 

I superstiti e i parenti della strage razzista di stato hanno preso parola. Siamo sulla spiaggia, di fronte al mare dove tutto poteva essere evitato. Tempo imperfetto, il vero passato, quello irreversibile. Siamo distanti, separati da una parte del corteo che sabato 11 marzo ha attraversato le stradine spettrali di Steccato di Cutro. Siamo lontani dagli sciacalli. Qualcuno ci prova a venirci vicino. Ad affacciarsi per vedere se c’è ancora qualche resto del cadavere da cui cibarsi. Nessun osso da spolpare, nessun brandello di carne. Solo sabbia affogata di lacrime e sangue. Una parte della barca, frantumata su una secca per sfuggire ai lampeggianti delle motovedette della Guardia di Finanza, è ancora lì. Che giace sott’acqua. E forse per sempre. Quanti hanno perso la vita non lo sapremo mai per davvero. I parenti, gli amici, le persone amate aspetteranno una chiamata che non arriverà mai, una lettera mai scritta, un volto mai più visto.

Migranti è una parola ambigua. Che assume diversi significati e porta con sé qualità differenti. Per noi bianchi può indicare una strada per un futuro migliore. Vuole dire, nel bene e nel male, possibilità di una vita diversa. Una vita superiore a quella precedente. I bianchi emigrano per educarsi meglio, per trovare lavori più remunerativi, più soddisfacenti o in linea con i propri desideri, per raggiungere la vita che auspicano per loro stessi. Che siano ricchi, di classe media o poveri è solo il posto in classifica che cambia. Quando si tratta di un bianco, la migrazione assume qualità positive, di riscatto e realizzazione. Se non sei bianco, migrante vuol dire intraprendere un viaggio con la morte. Senza sapere se o quando arriverà il proprio turno. Emigrare significa vivere con l’angoscia della fine. Di non farcela né per sé stessi, né per chi ci si è lasciati alle spalle. 

Ventiseimila morti nel Mediterraneo negli ultimi dieci anni. Sette morti al giorno. Sette. Un numero follemente alto e ampiamente stimato al ribasso. Quando chi a partire non è bianco allora la migrazione assume qualità negative, inferiorizzanti, passivizzanti. Che sia la narrazione dell’invasione e degli interventi di polizia. Che sia la narrazione dei disgraziati che vanno aiutati, dei profughi che scappano dalla guerra, dalla fame o da governi autoritari e liberticidi. I migranti non-bianchi o sono dei parassiti da fumigare o sono dei poveretti verso cui esprimere la nostra pietas. Ma chi distrugge le loro città e le loro case con la guerra? Chi sterilizza le loro terre con tecnologie estrattive? Chi avvelena con i propri scarti i loro laghi e i loro fiumi? Chi affama le loro economie? Chi crea sistemi di corruzione nelle loro istituzioni? Dobbiamo dirci le cose come stanno, se vogliamo superare questo nostro puritanesimo ideologico. 

Cosa ha generato l’indignazione dell’opinione pubblica per la strage di Steccato di Cutro? Il numero dei morti? La presenza di decine di minori? Il non averli salvati? Il razzismo espresso nel modo più volgare da parte degli esponenti del governo? Il 3 ottobre prossimo saranno dieci anni dalla strage di Lampedusa; trecentosessantotto vite spezzate. Nulla è cambiato. Si sono succeduti governi di tutti i colori, ma il risultato è sempre quello. Sette morti al giorno negli ultimi dieci anni. Uno ogni tre ore e mezza. Qualcuno, adesso, mentre leggete starà morendo in mare. Come è possibile tutto questo? Come possiamo accettare che tutto ciò continui? C’è qualcosa che possiamo fare? Cosa non abbiamo fatto per impedirlo? Migranti è una parola ambigua, barrata dalla linea del colore.

È il colore che fa la differenza. La pelle ne è il messaggero. Di cosa abbiamo paura, noi bianchi? Tra i più sensibili ci diciamo che le vittime di queste stragi sono causate dai confini e dall’odio per l’altro, per il diverso, per lo straniero. Altro da chi? Diverso da cosa? Straniero per chi? Finiamo per porci sempre al centro di tutto, noi bianchi. Perché ci nascondiamo dietro parole o elaborati concetti sociologici? Cosa sono il regime dei confini e la xenofobia? Dove vengono esternalizzati i nostri confini e a quale scopo? Quale straniero è il nostro oggetto fobico, se non quello in «pelle nera»? Anche queste rischiano di essere parole ambigue, parole che noi bianchi, perfino quelli solidali, usiamo per nascondere la brutalità del privilegio che indossiamo. Perché abbiamo paura di dirci antirazzisti e ci professiamo contro la xenofobia? Perché le nostre coscienze vengono urtate da certe parole come razza e razzismo? Già è alta la voce di chi, indignato, potrebbe dire «Non tutti i bianchi sono razzisti!». Ma è davvero così? Non possiamo essere noi a stabilirlo aprioristicamente. Eppure, volenti o nolenti, contribuiamo simbolicamente, con la nostra cultura, e materialmente, con le nostre (in)azioni, alla riproduzione di un sistema che accumula ricchezza attraverso politiche di morte razziste e coloniali, di cui confini, respingimenti, naufragi, lager ne sono solo un’espressione. Quella più evidente e brutale. Quella che fa più male alle nostre coscienze. Perché ne traiamo beneficio. Perché ci mostra cosa siamo. 

La verità è che queste morti ci servono. Ci servono affinché chi sopravvive continui a esistere come uno zombie, come un morto vivente, il cui unico scopo è la continuazione delle proprie funzioni biologiche. Ci servono affinché le nostre pensioni siano pagate da qualcuno. Ci servono per finanziare i sussidi per i nostri poveri. Ci servono per la nostra demografia. È qualcosa di più viscerale delle nostre budella. Qualcosa di più intimo dei nostri segreti inconfessabili. Cosa accade a chi riesce a mettere i piedi sulla terraferma? Che destino gli aspetta una volta che viene accolto? Attesa infinita per un documento stabile. Lavoro senza contratto, senza garanzie, logorante, quasi gratuito. Case indecenti, degradate, sovraffollate. Affetti limitati, oppressi, umiliati. Sguardi di disgusto, stupore, disprezzo.

Ci diciamo spesso di «restare umani», invochiamo spesso «umanità». Ma cosa significa essere umani? Chi ha definito nella storia cosa è l’Uomo? Chi ne ha determinato il carattere universale? Chi stabilisce i confini di ciò che è umano e ciò che non lo è? Da quale posizione possiamo dirci di restare umani, se l’umanità che abbiamo finora prodotto è quella del traffico di almeno quindici milioni di schiavi africani. Quella dei quindici milioni di morti in Congo. Quella dei sessantamila in Cirenaica. Quella delle migliaia di quintali di bombe all’iprite in Etiopia. Quella dei quarantamila minori che scavano a mani nude nella roccia, alla ricerca di coltan e cobalto che compongono i nostri dispositivi elettronici. Quella dei milioni di morti e mutilati nelle nostre guerre in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, Yemen. Quella della segregazione razziale dei palestinesi. Quella di uno stato di diritto fondato ancora sulla legge del sangue. 

Dobbiamo dirci le cose come stanno, se vogliamo liberarci da questa nostra civiltà bianca. Consideriamo davvero «persone» chi non è bianco? Lo riteniamo, in fondo, essere umano, Soggetto? In grado di autodeterminarsi, di agire secondo un proprio progetto individuale e razionale? In grado di sognare e desiderare? Che ha un proprio, legittimo modo di vedere e vivere una realtà che non è la nostra? Quello che Steccato di Cutro ha mostrato in modo tragicamente chiaro è che per la società dell’uomo bianco un animale ha più diritto di vivere, è più meritevole della nostra compassione. Sono oggetti, sono merci, sono carichi residuali. Come provare empatia per una cosa?

Ma se questo è l’Uomo, vogliamo ancora esserlo? Se questa è l’umanità dell’uomo bianco e noi siamo barbari, ci dice Louisa Yousfi, allora vogliamo «restare barbari» e resistere a chi, per noi, ha in programma solo morte biologica o sociale. Non c’è rimedio alle stragi di Lampedusa e Cutro. Non c’è rimedio ai sette morti al giorno in mare. Non esiste Soluzione a un sistema di accoglienza che educa alla passività, all’oppressione, all’umiliazione. Esiste un percorso. Una lotta che ci indicano i parenti dei martiri e i superstiti delle stragi; che ci indica chi si ribella a mesi di pocket money non dati, ad anni di attesa per un soggiorno semestrale, a operatori-secondini; che ci indica chi nei centri per il rimpatrio ingoia lamette; che ci indicano le forme di rifiuto dei giovani cittadini senza cittadinanza. Esiste un percorso di lotta fatto di accettazione di Sé e dell’Altro, di ascolto, di amore, di cura e, forse soprattutto, di abbandono e non di conservazione della nostra umanità.

Andrea R. Pomella, nato a Napoli, dottore di ricerca presso l’università L’Orientale. Si occupa dei processi di razzializzazione nella propria città, con una particolare attenzione per la dimensione psico affettiva e di produzione dello spazio urbano. È co-autore di Marx nei margini. Dal marxismo nero al femminismo postcoloniale

18/3/2023 https://jacobinitalia.it/

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