Stonewall, la memoria contesa

Il mese dei Pride appena trascorso, in Italia, è stato senza dubbio interessante. Anzitutto sul piano della consistenza numerica: dalle manifestazioni di Non Una di Meno che hanno aperto la strada, passando per le larghe piazze antirazziste degli scorsi mesi, con l’aggiunta delle piazze ambientaliste di questa rovente primavera-estate, anche i Pride confermano una confortante volontà di partecipazione diretta. Numeri da capogiro a Roma, Milano, Palermo, Bari: l’anno scorso i Pride tornavano a riempirsi sull’emergenza delle affermazioni dell’allora ministro Fontana; quest’anno l’allerta si è mantenuta alta, e anche alcune tentazioni dell’associazionismo di provare a sedersi al tavolo con l’inguardabile governo gialloverde sembrano essere almeno in parte sventate (a parte alcuni specifici casi locali).

Un fatto che salta all’occhio è che l’intero mondo della sinistra e del centrosinistra si è trovato a ricollocarsi nell’ala sociale dell’opposizione, spesso con gli stessi argomenti di quando era al governo, e nel caso della sinistra-sinistra di movimento o di partito tendenzialmente rimasticando le stesse formule di opposizione degli scorsi anni. Nel mondo Lgbtqia+ questo fenomeno si è intrecciato con singolare tempismo storico col cinquantenario del mito fondativo del movimento: i famigerati moti di Stonewall.

Non si contano gli elzeviri, gli editoriali, i chilometrici post su facebook, le riflessioni, le iniziative, le commemorazioni, le presentazioni di libri su un fatto che, tutto sommato, con l’Italia c’entra poco. Intendiamoci: va detto con Massimo Prearo che Stonewall costituì una rottura epistemologica rispetto ai movimenti «omofili» che si erano manifestati fino a quel momento; una rottura che sancì il passaggio a una politica dell’orgoglio come progetto politico militante. Eppure ci sono, nella storia generale dei movimenti Lgbtqia+, delle storie particolari, spesso a carattere territoriale ingiustamente dimenticate. La storia del movimento Lgbt italiano, per esempio, è ricchissima di potenziali miti fondativi: la contestazione di Sanremo del 1972, non a caso spesso ricordata come la Stonewall italiana; la marcia di Pisa79, la prima autorizzata in Italia, anch’essa all’occorrenza pronta a diventare per il giornalismo specializzato la Stonewall italiana ma subito sminuita nelle parole dei suoi stessi organizzatori – nel caso specifico di quest’intervista, Andrea Pini.

Nelle parole di Pini sul fortissimo ritardo del movimento Lgbt italiano rispetto a quello statunitense sembra di scorgere il tic che in questo anno di celebrazioni ha continuato, non visto, a serpeggiare negli interstizi dell’intero ordine del discorso Lgbtqia+ italiano (ma va notato il ricordo affettuoso che Pini dedica alla manifestazione in questa intervista più recente, uscita per Repubblica proprio due giorni prima del Pride che si è svolto a Pisa il 6 luglio 2019). Sembra che sia impossibile pensare la storia italiana del movimento contemporaneamente dentro separatamente rispetto al movimento globale, e che il rapporto con la storia statunitense sia necessariamente di filiazione, ritardo e rispecchiamento.

Mentre ci si accapigliava tra il movimento mainstream e quello underground su chi abbia la maggiore legittimità a rivendicare la genealogia di Stonewall (a ragione, naturalmente, ché pare paradossale che una storia di rivolta contro le forze dell’ordine venga rivendicata da chi vanta costantemente la presenza delle organizzazioni arcobaleno delle forze dell’ordine), si è smesso di interrogarci su quanto sappiamo davvero di quella storia (il dibattito americano, per esempio,  è infuocato, e in fin dei conti sembra che la stessa Marsha P. Johnson fosse arrivata relativamente tardi sul luogo del lancio del… tacco? Bottiglia? Mattone?) e in che misura effettivamente ci riguardi.

Ci sono alcune declinazioni degne di nota dell’uso politico del «mitologema Stonewall» che vale la pena rilevare. Quella che sembra più diffusa nell’associazionismo mainstream vede sostanzialmente un’ideale continuità progressiva tra «quando toccava ribellarsi alla polizia» e «oggi che pretendiamo i diritti dei nostri figli»: i nomi dei Pride di quest’anno ancor più dell’anno scorso mettono insieme significativamente le due aree semantiche dell’orgoglio e della ribellione, con l’estetica e il lessico della ribellione che rimandano a una lotta per i diritti civili attraverso i circuiti della legalità facendo pesare la propria presenza numerica in piazza. Non è la prima volta che per ottenere risultati banalmente socialdemocratici, in questo paese, tocchi passare per terrorist_ ross_; ancora di più con un governo che è in grado di essere paranoico e controllore persino mentre elargisce un reddito di miseria del quale definisce micragnosamente le modalità di spesa, per non parlare dei due decreti sicurezza e delle ripetute minacce ai danni di chi ogni giorno salva vite in mare e di quelle vite stesse.

Sembra però che l’adozione di un’estetica della rivolta non abbia portato a significative variazioni programmatiche, delineandosi al contrario sempre più nettamente il ruolo di leadership di associazioni Lgbt concentrate sulla rivendicazione di diritti relativi alla filiazione, in testa alle quali sta Famiglie Arcobaleno, nota negli scorsi anni soprattutto per essere stata (ed essere tutt’ora) costante oggetto di feroci attacchi da parte di Arcilesbica. Anche in virtù di questo attacco che procede da anni, che tende a squalificare automaticamente Arcilesbica dal dibattito Lgbtqia+ e a provocare una serrata di ranghi a difesa di Famiglie Arcobaleno – ci torneremo fra poco – la battaglia del movimento Lgbtqia+ mainstream italiano si è spostata soprattutto sul riconoscimento dei figli, che spesso compaiono come primo punto di rivendicazione delle piattaforme dei Pride. L’elaborazione più alta di questa strategia la troviamo però in questa intervista a Franco Grillini, che sviluppa la narrazione progressiva che conduce da Stonewall a «l’età dei diritti» con l’aggiunta del tassello della crisi dell’Hiv. In questa prospettiva il «discorso dei diritti», con particolare attenzione a quelli relativi a famiglia e filiazione, viene mostrato come naturale prosecuzione dell’accidentata storia della comunità; la variante del discorso portata avanti da Grillini mostra in aggiunta un solido programma politico integrato che passa da un welfare socialdemocratico relativamente articolato. Grillini cerca di risolvere il problema di «cosa sia» e «su cosa si fondi» la comunità Lgbtqia+, e di quali legami sociali consista, in termini di famiglia; e tuttavia anche in questa forma non sembra ci siano forze politiche significative pronte ad accogliere questa formulazione.

Sarebbe interessante indagare quanto, però, questa mutazione verso l’estetica della rivolta stia modificando o riaprendo spazi per la sperimentazione di sé e della propria sessualità. Al momento – contrariamente a quanto spesso si afferma dalle parti del movimento underground – sembra che nessun Pride abbia particolari problemi con l’indecorosità, e che sia anzi più pacificato che negli anni scorsi il rapporto con l’eccesso e la nudità, spesso naturalmente mediate dalla dimensione della finzione performativa e occasionale.

Tutto sommato, infatti, non mi pare che aiuti nemmeno l’atteggiamento protezionistico che invece ha mostrato il movimentismo italiano su Stonewall: sono emerse analisi complesse e lucide come quella di David Primo uscita per La voce delle lotte, e tuttavia anche in quelle mi pare rimanga sul piatto che il movimento undergroundqueer o comunque lo si voglia chiamare non esprime un sufficiente rapporto di forza che gli consenta di normare con efficacia la memoria di Stonewall. Un tale progetto, tutto sommato, è impraticabile, e forse nemmeno particolarmente auspicabile: richiede molta energia e manca la potenza di fuoco per praticarlo. Quella memoria, come si è visto sopra, è poco o per nulla chiara e non sempre è uno strumento utile a leggere e rilevare le sfumature e le increspature della complessa genealogia italiana. Qui la memoria di Stonewall si intreccia con un’altra tutta italiana: la memoria contesa sulla resistenza. Così come il Pci e i suoi successori vengono accusati di tradire quella memoria – e di aver tradito la promessa della Rivoluzione dopo la Resistenza – così l’associazionismo Lgbtqia+ viene accusato di tradire la memoria di Stonewall. Ma la rivoluzione si realizza nella contesa della memoria o fuori dal «mitologema Stonewall» c’è un piano ulteriore che non riusciamo esprimere se non attraverso la forma mitologizzante dell’uso politico della storia? In questa battaglia, che presenta fortissime connotazioni ideologiche, si lascia poco spazio a una riforma affermativa e materialistica, che sarebbe quella più auspicabile, attraverso una retorica persuasiva che ingaggi direttamente le alternative possibili al programma del movimento Lgbt mainstream, spesso semplicemente dismesse in termini oppositivi anziché integrate e oltrepassate attraverso la messa in campo di prassi di una teoria critica del sistema di produzione e riproduzione globale. Verrebbe quasi da tirar fuori quel passo dell’Ideologia tedesca di Marx sui Giovani Hegeliani, accusati di non opporre altro che frasi al mondo realmente esistente che vorrebbero cambiare, e di non combattere «il mondo realmente esistente» ma «soltanto le frasi di questo mondo».

Una strategia di sintesi tra i due mondi appena rappresentati, che ci permetterà anche di tornare all’accennato conflitto tra Arcilesbica e Famiglie Arcobaleno, è quella che si trova in un complesso editoriale scritto da Porpora Marcasciano per La Falla. Porpora, quest’anno madrina del Roma Pride, presidente onoraria del Mit, vera icona pubblica e memoria storica vivente e militante del movimento Lgbt italiano, realizza qui quello che è probabilmente l’uso più degno di nota del «mitologema Stonewall». In questo caso è adattato a un laborioso intreccio di sintesi progressive volto a indicare una convergenza tra associazionismo Lgbt e movimentismo trans/femminista – per nominare i maggiori attori in campo, tra il blocco egemonico in formazione che unisce Famiglie Arcobaleno, Circolo Mario Mieli di Roma e alcuni circoli Arcigay italiani, da un lato, e Non Una di Meno, dall’altro.

Sarà però necessario fare una premessa prima di affrontare la sintesi tentata da Porpora. Per quale motivo il ruolo di Arcigay, un tempo la vera associazione egemone dell’associazionismo Lgbt+maistream italiano, emerge tutto sommato così fortemente ridimensionato da questa mappatura del discorso, e anche dalla strategia di Porpora? Per comprenderlo bisognerà riprendere il dibattito sulla filiazione – e sulla gestazione per altri in particolare – prima di tutto in quanto conflitto tra Arcilesbica e Famiglie Arcobaleno, che solo in seconda istanza si traduce in un conflitto tra Arcilesbica e il resto dell’associazionismo Lgbt mainstream. In questo dibattito, che dura ormai da anni, c’è sicuramente un elemento di importazione, un po’ sopravvalutato dalla critica queer italiana rispetto alle sue potenzialità di radicamento locale. L’intreccio tra filiazione e assimilazione omonazionalista, infatti, ha una rilevanza certamente più impattante negli Stati Uniti rispetto all’Italia: «dar figli alla Patria» in un paese leader della guerra permanente mondiale, cui comunque l’Italia ha partecipato, ha un’altra allure rispetto al Fertility Day.  Un altro elemento da considerare è che la matrice logica del discorso è, in fin dei conti, la binarietà di genere e l’eterosessualità storicamente imposte dal maschile a fine riproduttivo; nonostante ciò, in Italia in particolare il dibattito sulla filiazione, soprattutto negli ultimi anni, emerge da una ferita interna al femminismo italiano: il dibattito sulla gestazione per altri.

In questo dibattito i soggetti maschili hanno tutto sommato messo poca bocca (e su questo tiriamo un sospiro di sollievo, visto che spessissimo la presa di parola maschile – anche quando è parola maschile omosessuale – su questo tema produce molti danni), e non potrebbe essere altrimenti visto che è ormai noto che sono relativamente poche le coppie di uomini omosessuali coinvolte dal tema della filiazione in generale e della gestazione per altri in particolare; ancora, andrebbe ricordato che il tema interessa in generale poche coppie omosessuali, gay o lesbiche, e riguarda molto di più le coppie eterosessuali. In compenso, Famiglie Arcobaleno è un’associazione che ha spesso avuto una leadership femminile cisgenere (lesbica). Non che manchino le donne lesbiche anche in Arcigay, ma i ripetuti e feroci attacchi di Arcilesbica all’associazione Famiglie Arcobaleno ha portato progressivamente, come si è accennato, a una serrata di ranghi a difesa dell’associazione; nel frattempo, nel corso degli anni, l’attivismo egemonico di Arcigay si è progressivamente ridotto, in parte ridimensionato dalla portata di un dibattito estremamente acceso che poco riguardava Arcigay come associazione, in parte per l’assestamento – specie dopo l’approvazione della legge sulle unioni civili – su una strategia di conservazione e mantenimento dei servizi erogati, specie in virtù delle forti spaccature che Arcigay soffre da qualche anno a questa parte (una delle quali viaggia sul confine del blocco egemonico di Famiglie Arcobaleno).

Se il dibattito più acceso del movimento Lgbtqia+, è quello sulla gestazione per altri, e ha delle conseguenze più rilevanti di quanto si possa pensare, si spiega facilmente perché manchi la voce di un lesbismo che non ha bisogno di definirsi alternativamente come riproduttivo tout court oppure come riproduttivo in termini esclusivamente «naturalistici». Il soggetto lesbico è interpretato sia da Famiglie Arcobaleno sia da Arcilesbica come soggetto che prima di tutto è mezzo di riproduzione, per se stesso o per altri; se desidera, desidera famiglia, o desidera sottrarsene. Non desidera mai positivamente. Quest’ultima è invece l’opzione in questo momento indicata, per esempio, da Paola Guazzo (e che aveva trovato casa nell’incontro chiamato significativamente Lesbicx all’inizio di quest’anno), mentre Elisa Manici ha saputo ben cogliere qual è il rischio che corriamo a continuare a leggere il soggetto lesbico esclusivamente come oggetto di sguardo o come donna-ma-un-po’-diversa, e non come soggetto autonomo che positivamente e affermativamente calca la scena politica.

Da questo punto di vista si fa fatica a descrivere il discorso sulla filiazione come un’invasione di campo da parte dei soggetti incarnati maschili. Basterebbe a questo proposito leggere cosa scriveva Cristina Gramolini qualche anno fa sulle pratiche di autoinseminazione per rendersi conto di quanto, tutto sommato, la posizione di Arcilesbica sulla Gpa sia il rovescio della posizione di Arcilesbica sull’autoinseminazione, e che la posizione di Famiglie Arcobaleno sulla Gpa sia in fin dei conti a sua volta un ulteriore avvitamento di questo nodo scorsoio.

Possiamo quindi tornare all’editoriale di Porpora Marcasciano. Va ricordato anzitutto come la purezza femminile del soggetto immaginato da Arcilesbica abbia condotto l’Associazione anche ad attaccare Porpora, con un repertorio transfobico che quest’ultima non ha mancato di segnalare, piegare e sabotare. Più o meno dal World Congress of Families di Verona e dall’oceanica manifestazione condotta da Non Una di Meno e dal movimento Lgbtqia+, Porpora evoca sostanzialmente la possibilità di mimare il gesto di Stonewall come riproposizione performativa dell’origine, traendo questa possibilità dal movimento queer con una variazione che ne consente l’allargamento: l’ipotesi è di recuperare, di Stonewall, «lo spirito», installandosi esattamente all’interno di quell’estetica della rivolta che l’associazionismo Lgbt ha già adottato e restituendole una parte del proprio potenziale eversivo. Una prospettiva larga che lascia ampio spazio alla possibilità sia di farvi convergere le elaborazioni dell’intero movimento Lgbtqia+, sia di immaginare delle aperture intersezionali. Su questo punto mi pare che risieda la debolezza però della strategia di Porpora, pur avendo indubbiamente il merito di essere la proposta più inclusiva e politicamente intelligente sul campo. Dell’editoriale su La Falla colpisce una frase in particolare:

La narrazione che da lì è partita e si è costruita, resta quella omosessuale maschia occidentale, con il suo proprio punto di vista che definirei privilegiato. I narratori purtroppo stentano a vedere oltre quella particolare prospettiva di osservazione, fanno fatica a sentire l’altro e l’oltre che gli urla affianco, che rivendica la propria dignità, il proprio posizionamento, che non è affatto scontato coincida con il loro, anzi. Questo passaggio fondamentale nella comprensione dei fatti, sintetizzato al massimo, continua a sfuggire ai soggetti privilegiati – c’è sempre qualcuno più a Sud –, il che non facilita affatto il processo di trasformazione dello stato delle cose.

Alla luce di quanto detto fin qui, sembra evidente che il principale obiettivo polemico di questo passo sia Arcigay, che è stata effettivamente l’Associazione egemone del movimento Lgbt mainstream dalla sua fondazione nel 1982 fino orientativamente all’approvazione della legge sulle unioni civili (2016), in cui si è reso più evidente il passaggio di testimone alla composizione più familista dell’associazionismo Lgbt. E tuttavia, per quanto già detto, mi pare che la critica sia tutto sommato fuori fuoco, considerato il già menzionato ridimensionamento del ruolo di Arcigay. L’altro aspetto che si osserva è che curiosamente Porpora non sceglie di parlare di «maschi omosessuali cisgenere», ma di «maschi omosessuali occidentali». Di più: rinforza il concetto sottolineando che «c’è sempre qualcuno più a Sud».

Qui Porpora coglie un punto importante relativo al movimento Lgbtqia+ italiano, come pure del femminismo e del transfemminismo italiani: sono dei movimenti per lo più bianchi, contrariamente alla spontanea intersezionalità materiale, sulla linea della razzializzazione, che si sta producendo nei conflitti di fabbrica (in questo articolo magistralmente sintetizzati da Simona Baldanzi). Porpora ha del tutto ragione: faticano a emergere voci razzializzate che non siano semplicemente considerate «voci migranti», ma che possano anche essere considerate voci italiane razzializzate, e questo nonostante il movimento transfemminista queer operi già delle forme di solidarietà di classe con le lotte razzializzate di questo paese mentre l’associazionismo Lgbt porta avanti numerosissimi progetti (penso, per esempio, a Migranet) di sostegno alle persone migranti. Allo stesso tempo, però, non è quello il segno che Porpora porta come suo partir da sé, non è quella razzializzazione che si porta addosso. Su questo punto si potrebbe aprire un interessante discorso, piuttosto, sulla razzializzazione relativa che in quanto terrone subiamo noi frocie, lesbiche, bisessuali, trans; un serbatoio di razzializzazione interna, quello del Meridione, cui ciclicamente riattingere per la costruzione del nazionalismo italiano. Ma il rischio di non riconoscere la propria bianchezza – magari relativa – o in ogni caso la propria non-connotazione (magari relativa anche questa) rispetto alla linea della razzializzazione come dispositivo che si auto-occulta, è di continuare a oscurare le voci razzializzate che pure in questo paese esistono e prendono già parola. Credo che in questo passo agiscano, ancora una volta, degli spettri di Stonewall, e in particolare quelli evocatissimi di Sylvia Rivera e Marsha P. Johnson e del loro rapporto complicatissimo col movimento Lgbtqia+ americano. Che devono interrogarci, se però iniziamo a parlare la lingua in cui è formulata la domanda. La questione è stata messa a fuoco in modo cristallino da Igiaba Scego e da Nadeesha Dilshani Uyangoda: ci sono persone razzializzate che sono perfettamente in grado di dar battaglia e che lo stanno già facendo, senza che siamo noi bianch_ a far loro spazio o peggio ancora a doverle «andare a cercare». Le troveremo numerose, a saperle ascoltare, anche nel movimento Lgbtqia+, smettendo soprattutto di porci incessantemente il problema del «perché non le vediamo», magari – come troppo spesso ancora capita – proprio mentre ci stanno parlando davanti e chiedono a gran voce di essere ascoltate. Can the subaltern speak? Yes sure: just listen to them, they’re already speaking, e a dirla tutta il loro discorso è spesso brillante, fresco e meglio congegnato di molta stantìa bianchezza che ci portiamo dietro. Compresa la bianchezza che ci fa continuare a parlare del non sentire o veder emergere la parola razzializzata, ricercata come un Graal.

Credo che sia uno dei limiti più ricorrenti di come è stata recepita l’intersezionalità in Italia, e allo stesso tempo – credo – un limite strutturale dell’intersezionalità. Non si tratta di intersecare campi di lotte diversi, ma di ricomporre il quadro completo, avendo l’ambizione (all’altezza della lotta che bisogna condurre) di farne una teoria della produzione e riproduzione globale, in cui si riconoscano non le intersezioni tra i livelli di oppressioni, ma le connessioni funzionali di quelle oppressioni fra loro, il ruolo che giocano nel ciclo di accumulazione. D’altronde è quello che sta facendo l’estrema destra del World Congress of Families, immaginando non un singolo atto di rivolta avvenuto nel passato, ma un intero passato mitico in cui la famiglia, l’eterosessualità, la bianchezza, la produzione, la gerarchia della proprietà trovano ognuna il proprio posto in un sistema articolato e definito. Con buona pace del mitologema Stonewall.

Enrico Gullo

Dottorando in storia dell’arte e attivista con particolare attenzione alla cultura queer.

Ha collaborato con PrismoThe Towner e Lavoro Culturale, collabora con Not.

19/7/2019 https://jacobinitalia.it

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