Tenere fuori gli allevamenti dalla “Direttiva emissioni” è una sconfitta per tutti

Il governo italiano, sposando in pieno la linea Coldiretti, ha festeggiato l’esclusione di norme più restrittive per gli allevamenti intensivi dal provvedimento votato l’11 luglio dal Parlamento europeo. Eppure la riduzione del numero dei capi contribuirebbe a ridurre i gas climalteranti del comparto, che pesa per circa il 6% del totale nazionale

La “partita” sulla riforma della Direttiva emissioni dell’Unione europea non è una sfida sportiva tra due squadre: per questo l’Italia non ha vinto, anche se è riuscita a escludere norme più restrittive per gli allevamenti intensivi dal provvedimento, votato l’11 luglio dalla maggioranza del Parlamento europeo. Purtroppo, quando si parla della riduzione degli impatti delle attività industriali, in particolare delle emissioni climalteranti, non c’è modo di vincere agendo da negazionisti, come ha fatto invece il ministero dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, attaccando “una scelta che, di fatto, avrebbe portato la zootecnia a essere definita come altamente inquinante”. 

Sono quasi cento anni che nel nostro Paese l’allevamento è considerato un’industria insalubre di prima classe, attività che pertanto “debbono essere isolate nelle campagne e tenute lontane dalle abitazioni”, come spiega il Testo unico delle leggi sanitarie, approvato con Regio decreto il 27 luglio 1934. 

La Commissione europea avrebbe soltanto imposto un controllo maggiore di fronte a un settore che pesa tra il 70% e il 75% delle emissioni dell’agricoltura, che a sua volta vale quasi l’8% del totale secondo l’inventario delle emissioni di gas serra disponibile sul portale dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) ed elaborato dal Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (Snpa). 

Ecco perché la Commissione avrebbe voluto includere nella Direttiva emissioni “un maggior numero di aziende zootecniche per allevamenti intensivi su larga scala, compresi, per la prima volta, gli quelli bovini”. Perché sono parte di un settore che, insieme agli altri comparti industriali, causa ogni anno danni sulla salute e all’ambiente compresi tra i 277 e i 433 miliardi di euro (stima del 2017). 

La lobby più attiva in questi mesi è stata senz’altro quella agricola, guidata da Coldiretti, la principale associazione di categoria del settore in Italia. “Abbiamo fermato in Europa la ‘norma ammazza stalle’, con la decisione di lasciar fuori gli allevamenti bovini dalla revisione della direttiva sulle emissioni industriali che salva un settore cardine del Made in Italy”, ha detto il presidente Ettore Prandini, rivendicando (è il verbo esatto utilizzato dall’associazione) la decisione del Parlamento europeo, che inoltre esclude ulteriori oneri anche per gli allevamenti di suini e di pollame (qui la nostra inchiesta sul biologico targato Fileni).

Coldiretti, sottolinea il comunicato, “per prima aveva denunciato l’assurdità scientifica di paragonare le stalle alle fabbriche e avviato su questo una campagna di sensibilizzazione in Italia e in Europa”. “Assurdità scientifica” che però, come abbiamo visto, è assodata fin dagli anni Trenta del secolo scorso e oggi confermata dai dati diffusi dall’Agenzia europea per l’ambiente (Eea): il settore zootecnico da solo è responsabile del 54% di tutte le emissioni di metano di origine antropica dell’Ue, soprattutto a causa dei bovini. Gli allevamenti inquinano anche l’acqua, l’aria e il suolo attraverso la produzione di ammoniaca e di ossido di azoto, e sono responsabili del 73% dell’inquinamento idrico dell’agricoltura dell’Ue. L’allevamento intensivo in Europa è responsabile del 94% delle emissioni di ammoniaca e, in Italia, costituisce la seconda causa di formazione di polveri sottili. 

Lo schiaffo del Parlamento europeo ha così colpito in pieno volto organizzazioni come Greenpeace, che da mesi porta avanti in una logica di giustizia climatica una campagna di informazione sul tema: “L’influenza delle lobby della zootecnia intensiva ha portato a un voto paradossale: consentendo ai più grandi allevamenti europei di continuare a inquinare, e li ha messi sullo stesso piano degli allevamenti più piccoli. Questo è un voto contro l’ambiente, contro la salute e contro le stesse aziende a conduzione familiare che si dice di voler difendere, comprese quelle del Made in Italy”, ha commentato Simona Savini, che segue la campagna Agricoltura di Greenpeace Italia.

Anche perché la soluzione non è cancellare gli allevamenti, ma ridurre la consistenza (cioè il numero medio) dei capi, la cui concentrazione (a cui corrisponde una maggiore quantità di emissioni) è uno dei problemi principali. È ancora “l’Italian greenhouse gas inventory 1990-2023-national inventory report 2023”, pubblicato dall’Ispra, a offrirci gli strumenti che spiegano l’importanza di un intervento di questo tipo: tra il 1990 e il 2021 “la diminuzione osservata nelle emissioni totali (-13,2%) è dovuta principalmente alla riduzione delle emissioni di metano dalla fermentazione enterica (-14,2%) e alla diminuzione di biossido di azoto (-7,8%) dai suoli agricoli. I principali fattori alla base di queste tendenze al ribasso sono la riduzione del numero di animali, soprattutto bovini, nell’intero periodo e la diminuzione dell’uso di fertilizzanti azotati, utilizzati spesso per aumentare le rese dei terreni dove vengono coltivati i cereali che vengono trasformati in mangimi per animali”. 

Luca Martinelli

14/72023 https://altreconomia.it/

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