Un centro di salute mentale a cinque stelle

«Un episodio vi raccontiamo
successo a Barcola in via Miramare
scritto persino sul quotidiano:
qui non si può più circolare.
Mamme impaurite, bambini piangenti
strade deserte, solo degenti:
voi del centro cosa ne dite?
Ma li curate? Ci proteggete? Li custodite?»
[dal Cantastorie composto dagli operatori e dagli utenti del Centro di salute mentale di Barcola, insieme a Giuliano Scabia, nel 1977 in occasione del Reseau internazionale di psichiatria – tra i 4000 partecipanti anche Félix Guattari] 

Esattamente cinquant’anni fa, Franco Basaglia insieme a un gruppo di giovani medici entrava nel manicomio di Trieste, il San Giovanni. Mi immagino una bella giornata di novembre, con gli alberi che iniziano a colorarsi con i toni autunnali ma nella realtà, probabilmente, non c’era nessun elemento positivo in quell’arrivo: era un manicomio con migliaia di degenti, ognuno sistemato in una palazzina con recinzioni e sbarre alle finestre, divisi tra uomini e donne e ulteriormente divisi tra cronici, sudici, agitati. 

Franco Basaglia fa un gesto tanto banale quanto rivoluzionario: ridà dignità e diritti a quelle persone e inizia un percorso che porterà a una delle più importanti riforme mai avvenute in Italia: la legge 180, che sancisce la chiusura dei manicomi e il divieto di costruirne di nuovi. Per fare questo, è servito un lavoro su più fronti: le leggi, i rapporti con l’amministrazione, la comunicazione e, soprattutto, riuscire a superare il paradigma per cui la malattia è qualcosa di soltanto biologico. 

Basaglia scrive libri, produce documentari, si fa intervistare perché sapeva che per attuare un cambiamento serviva lavorare sull’opinione pubblica, sul far scoprire che cosa era un manicomio. Inoltre, chiama assistenti sociali, artisti, operatori, poeti da ogni parte del mondo; la necessità di un’équipe multidisciplinare per curare una persona è un discorso sicuramente da approfondire. Una domanda centrale in questo processo è se un’istituzione totale può curare una persona. La risposta, ben chiara e da continuare a tenere a mente, è no. E allora come si fa? Si inizia ad aprire l’istituzione chiusa, si aprono degli spazi in città, si danno case e lavori (si lavora sui cosiddetti determinanti sociali della salute) alle persone che prima erano rinchiuse perché soltanto la libertà è terapeutica

Basaglia muore molto presto, nel 1980, quando la legge conosciuta con il suo nome è solo agli inizi (i manicomi chiuderanno del tutto soltanto nel 1996 con un decreto della ministra Rosy Bindi che prevede di sanzionare le Aziende Sanitarie che non li chiudono). A continuare il lavoro a Trieste rimane un gruppo ormai formato e preparato e un’organizzazione incentrata sul lavoro sul territorio. 

Nel giugno del 1975 veniva infatti inaugurato nel rione di Barcola il primo Centro di salute mentale aperto 24 ore al giorno, 7 giorni su 7 – il primo al mondo. Un servizio dislocato che serviva per curare le persone nei quartieri in cui abitavano. Da qualche settimana l’esistenza di questo Centro è messa in discussione dalla giunta della Regione che vorrebbe ridimensionare i servizi sanitari. È stato infatti indetto un concorso per il posto di primario di questa struttura e, dopo una prima valutazione basata sui titoli, le pubblicazioni e il curriculum in cui le persone formate nei servizi triestini risultavano ai primi posti, è stato svolto un orale – illegalmente, a porte chiuse. E così, il terzultimo dei candidati si è trovato vincitore: ha 66 anni, 2 pubblicazioni, nessuna esperienza di medicina sul territorio, nessuna conoscenza dei servizi psichiatrici della regione Friuli Venezia Giulia. Nel suo curriculum porta l’esperienza del Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (Spdc) del Santissima Trinità di Cagliari, dove nel 2006 è morto Giuseppe Casu, era stato ricoverato con un Trattamento Sanitario Obbligatorio (Tso) ed era rimasto legato al letto per sette giorni prima di morire. La commissione di questo insolito concorso era presieduta da Emi Bondi, direttrice del Spdc del Giovanni XXIII di Bergamo, dove nel 2019 è morta durante un incendio, legata a un letto, Elena Casetto, 19 anni. Attualmente, solo il 5% degli Spdc italiani è no restraint – ovvero non si lega al letto nessuno – tra questi, quelli del Friuli Venezia Giulia. A Trieste da mezzo secolo.

Abbiamo intervistato Franco Rotelli, il successore di Basaglia. Ha diretto l’Ospedale Psichiatrico, i servizi Psichiatrici e  l’Azienda Sanitaria di Trieste, è stato collaboratore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in diversi progetti di cooperazione nel mondo. Insieme, siamo da qualche mese in libreria con il libro Quale psichiatria?, che ripercorre la pratica e la grammatica degli ultimi cinquant’anni nel campo della Salute mentale. L’ho intervistato in quanto è stato il primo direttore del Centro di salute mentale di Barcola per scoprire come è nato e come funziona. 

Nel giugno del 1975 inizia l’esperienza dei Centri di salute mentale nella provincia di Trieste. Si inizia con due: uno nel piccolo comune di Aurisina e uno nel comune di Trieste, a Barcola, aperto 24 ore. Ci racconti come nasce il Centro di salute mentale di Barcola?

Inizia con una villetta a Barcola dove aveva sede la Commissione di leva dell’Esercito e con un condominio in Piazza Sansovino dove aveva sede un relitto chiamato «Centro di igiene mentale»; entrambe di proprietà della provincia di Trieste. Mi sono detto che la Commissione di leva dell’esercito non aveva bisogno di una spaziosa villetta a due piani con giardino sul lungomare e noi non avevamo bisogno di un appartamento in un condominio. Andai allora a parlare con il Colonello comandante di questa Commissione e gli proposi uno scambio; lui accettò. Un conto, però, era dare il Centro di igiene mentale ai militari e un altro conto era aprire un Centro di salute mentale che avrebbe ospitato dei degenti: la chiave non saltava mai fuori. Allora, con l’aiuto di un funzionario e del Presidente della provincia Michele Zanetti l’abbiamo sostanzialmente rubata.

La storia del Centro inizia con un atto radicale e con molta furbizia – e non poteva essere altrimenti. Siete così riusciti a scambiare una villetta con l’Esercito. In questa storia, avere avuto il sostegno dell’amministrazione provinciale è stato fondamentale (Michele Zanetti stesso aveva chiamato Franco Basaglia e la sua équipe a lavorare a Trieste). Cosa avete fatto a quel punto?

Insieme a Carla Prosdocimo, una volontaria ma soprattutto una macchina da guerra ogni volta che si trattava di fare cose concrete, e a un piccolo gruppo di infermieri abbiamo pitturato tutta la palazzina. Io stavo cambiando casa e non mi servivano più alcuni mobili e li ho portati al centro: scrivanie, divani, poltrone, robe della cucina. Poi dal manicomio avevamo preso otto letti con i comodini e le lenzuola. C’era poi questo negozio storico di Trieste che ora non c’è più, Fedele, che vendeva lampade e ce le ha date (dicendoci che avremmo pagato quando l’amministrazione avrebbe deciso di pagarle). Così lo abbiamo arredato senza costi e senza acquistare niente. 

Dopo aver sistemato una palazzina con un po’ di problemi strutturali, c’era anche da organizzare le persone. Chi avete iniziato a portare al Centro?

Abbiamo cominciato portando lì alcuni dei degenti dei reparti dell’Ospedale psichiatrico di cui ero responsabile e che non potevano essere dimessi tout court perché avevano bisogno di essere ancora seguiti giorno e notte. Bisognava assistere queste persone tutte le ventiquattro ore. Avevamo avviato una mensa così che le persone dimesse dal manicomio, ma che si trovavano in una situazione precaria, potevano trovare una base in città. Cercavamo di essere un punto di riferimento dove mangiare a mezzogiorno e alla sera, dove poter prendere le medicine, dove fare le assemblee e le riunioni di gruppo, dove partecipare ad attività di socializzazione. Eravamo senza camici e chiunque arrivava aveva grosse difficoltà a capire chi fosse medico chi infermiere chi utente. Una situazione di assoluta familiarità: il centro era il più possibile una casa e non una struttura sanitaria. 

Immagine che contiene testo, persona, interni, sedendo

Descrizione generata automaticamente

Sappiamo che ci sono state delle reazioni nel quartiere al vostro arrivo: le persone erano un po’ spaventate. Sia il parroco sia il maresciallo dei carabinieri vi hanno dato una mano. Come avete fatto a inserirvi nel quartiere?

Naturalmente si sono accorti del nostro arrivo e sono cominciati i malumori, le chiacchiere, scrivevano lettere al quotidiano locale: «Cosa sta succedendo? Ci portano i matti qua?». Organizzammo un’assemblea con la gente del quartiere [invito chiunque a leggere il volantino di quell’assemblea – scritto più di 45 anni fa; nel film C’era una volta la città dei matti c’è la scena di questa assemblea] e andò benissimo perché riuscimmo a spiegare che non è che portavamo lì i matti ma andavamo lì per curare i loro matti perché da quel momento le persone di quel rione potevano essere curate lì invece di finire a San Giovanni [dove c’era l’Ospedale psichiatrico]. Le persone hanno capito: la nostra presenza era una risorsa per il quartiere. Problemi non ne creavamo e piano piano iniziò questa convivenza. Ora, di fianco al Centro di salute mentale, c’è un hotel a cinque stelle e penso che nessuno abbia mai avuto niente da ridire su questa prossimità (esiste un altro Centro di salute mentale vicino a un Hotel a cinque stelle?).

Immagine che contiene persona, interni, parete, gruppo

Descrizione generata automaticamente

Com’è venuta in mente l’idea delle 24 ore e come funzionano esattamente?

L’obiettivo era chiudere il manicomio e quindi un servizio sostitutivo del manicomio era naturale che venisse immaginato sulle 24 ore. I matti sono matti anche di notte come lo sono anche sabato e domenica, quindi non capivamo perché le persone che vanno in crisi al sabato, alla domenica o durante la notte non avessero un posto dove andare. Sembra una cosa talmente ovvia che mi sbalordisce che non sia un sistema generalizzato. In più potevamo permettercelo: il Centro di Barcola viene aperto dopo quattro anni di lavori nell’Ospedale psichiatrico; avevamo già dimesso molti degenti ma non avevamo dimesso gli infermieri. Quando diciamo 24 ore non diciamo la verità: dalle 8 di sera alle 8 del mattino il centro non accoglie nessuno, ma lavora per le persone che sono già al centro e che si è deciso che è bene che rimangano a dormire lì. In quelle 12 ore il centro non accoglie ma gestisce massimo 5/6 persone che hanno bisogno di una situazione assistita e protetta. Il centro è aperto a chiunque dalle 8 del mattino alle 8 di sera, sabato e domenica compresi. 

Perché se sembra così normale pensare dei servizi aperti tutto il giorno, pronti ad accogliere e curare, non si è diffuso questo modello quasi in nessun’altra parte d’Italia?

Per tanti motivi insieme. La gestione è difficile: occorre essere molto esposti. Gli Spdc sono dentro gli ospedali quindi gli infermieri e i medici si sentono protetti dalla struttura ospedaliera, anzi spesso si chiudono proprio dentro. Si chiudono le porte di questi reparti e hanno accesso un numero molto limitato di persone. È tutto più gestibile tradizionalmente e non c’è bisogno di inventare qualcosa. Per mantenere un Centro di salute mentale a bassa soglia [i servizi a bassa soglia sono caratterizzati da un massimo livello di accessibilità, da un rapporto informale tra operatori e utenti, da un’équipe multidisciplinare e da un lavoro di rete tra i diversi servizi] in cui chiunque può entrare (e entrano parecchie persone) ci vuole abilità gestionale, molta attenzione, continua disponibilità degli operatori e poi occorrono le risorse perché in un Centro di salute mentale di 24 ore c’è bisogno di personale che copre tutte le 24 ore. In giro per l’Italia, il personale di Salute mentale è numericamente molto scarso e non ci sono risorse per aprire Centri di 24 ore. Ci sono risorse numericamente scarse perché i soldi vengono spesi male. Si pensi alla Lombardia che spende soldi per mantenere strutture private convenzionate invece che per pagare infermieri e medici pubblici. 

Non sono solo le 24 ore a essere colpite, l’attuale amministrazione regionale vuole colpire un modello di sanità e di servizi preciso, un modello indicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come esempio mondiale di rete integrata di servizi per la comunità. Insomma, un modello che funziona e funziona perché curare le persone diventa una battaglia ideologica. 

Continua a essere dominante in Italia un approccio «biomedico» che, si dice, viene accompagnato a volte da «una psicoterapia». Il Centro di Trieste ha un approccio radicalmente diverso perché guarda ai bisogni delle persone, alla necessità di reti sociali, di inserimento lavorativo, di poter essere aiutati a casa propria (e di avercela una casa), di difesa legale, di solidarietà sociali, di sostegno alle famiglie, di rispetto delle diversità, di non rinchiudere dentro il cemento di una diagnosi le persone, di tenere sempre le porte aperte, di rispettare libertà e diritti, di moderare l’uso dei farmaci, di promuovere accompagnamenti, partecipazione a iniziative sociali. Un modo senza camici e, tanto più, senza camicie di forza di alcun genere. 

Agnese Baini ha una formazione umanistica e attualmente si occupa di comunicazione della scienza. Legge, scrive, parla – soprattutto di salute mentale. Questa intervista è tratta da una chiacchiera sul treno Milano-Trieste il 24 giugno 2021.

Le prime infermiere e i primi infermieri che hanno reso possibile questa storia sono: Libera Giacca, Mariuccia Giacomini, Renato Candotto, Pina Bianchedi, Maria Grazia Durisotti, Dimitri Pikiz, Flavio Nonino, Venceslao Susmelj, Eliana Perini, Gianni Crescentino. Ci sono state, insieme a Franco Rotelli, la medica Grazia Cogliati, l’assistente sociale Daniela Sivilotti e l’operatrice Carla Prosdocimo. I nomi sono ricordati nel libro Non ho l’arma che uccide il leone di Peppe Dell’Acqua. 

31/7/2021 https://jacobinitalia.it

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