Un safari tra industrie delle armi

Arrivare all’alba ai cancelli della Rheinmetall Italia è come un “safari” tra industrie delle armi, che parte da Rebibbia, nella zona industriale che venne – a suo tempo – definita come Tiburtina Valley, una Silicon Valley nostrana. Solo che buona parte di quelle industrie in quel territorio liminale tra la città e la periferia producono  armamenti e  componenti elettroniche per la difesa. Nelle strade quasi sterrate che dalla Via Tiburtina fino a Via Affile, nostra destinazione, incroci Leonardo, MBDA, ed altre sigle, strutture prefabbricate, che non lasciano trapelare il cuore delle loro attività. Industrie di morte, lontane dagli occhi e dal cuore.  Arriviamo davanti al cancello principale della Rheinmetall, e decine di attivisti e attiviste di Stand up for Rojava scendono da un furgone e si incatenano ad oltranza, per “sigillare” la via di transito del veicolo che dovrebbe prossimamente trasportare un cannone a tiro rapido, capace di sparare 600 colpi al minuto, in via di spedizione per la Turchia.

Un gioiello della tecnica che può essere installato su mezzi navali e mezzi corazzati di terra. Altri due di una commessa di 12 sono ancora da consegnare alle forze armate di Erdogan, colpevoli nei giorni scorsi di efferati crimini di guerra nell’operazione militare scatenata contro il Rojava, senza esclusione di colpi, contro civili inermi. Obiettivo quello di creare una “zona” cuscinetto che, secondo gli accordi dell’ultim’ora, verrà pattugliata da contingenti misti turchi e russi. Un modo per minare alla base le fondamenta territoriali del YPG da una parte,  allontanandole dal confine con il Kurdistan turco ed allo stesso tempo spostare migliaia di profughi siriani nei territori conquistati a filo di spada.  Un’operazione cinica e criminale, avallata dal silenzio complice della comunità internazionale, e avviata dall’annuncio poi ritrattato di Donald Trump di ritiro delle truppe USA che di fatto garantivano una sorta di tregua armata. Così i kurdi del Rojava sono stati abbandonati al loro destino, nonostante il loro contributo determinante alla lotta all’ISIS.

E centinaia di migliaia di civili hanno dovuto sfollare dalle zone di guerra, senza poter ricevere supporto adeguato visto che tra i bersagli dell’attacco turco erano anche le ONG che da tempo operavano in quella zona. Come le ambulanze di Un Ponte Per….Ipocrisia classica della realpolitik. Già perché l’ipocrisia è anche di chi, Ministro degli Esteri italiano in testa, a differenza di altri paesi quali la Francia, ha annunciato in pompa magna un embargo “futuro” sui nuovi contratti con la Turchia, ma sempre onorando quelli in essere, che verrebbero sottoposti ad una non meglio specificata “revisione”. Insomma, come si dice “carta vince, carta perde”. Come se una penale da pagare fosse più importante delle possibili vittime innocenti di quei sistemi d’arma. E poi vale la pena di sottolineare come secondo molti analisti, esportare armi a paesi che fanno la guerra è come combattere al loro fianco, ma senza i costi politici che l’invio di truppe potrebbero comportare. Anzi con grandi ritorni in termini di appalti e contratti per le imprese del paese esportatore. Nel luglio 2016 ad  un articolo del  New Inquirer  intitolato “Recoil operation”  approfondisce la questione del commercio legale ed illegale di armi leggere negli Stati Uniti.

La reticenza a livello nazionale ad inviare “scarponi sul terreno” fa il pari con gli impegni a livello nazionale per la crescita del settore occupazionale legato all’industria delle armi, e rende ancor più appetibile l’opzione di armare alleati stranieri invece di andare noi di persona a combattere”si legge. E qui si potrebbe aprire tutto il capitolo relativo alle possibili corresponsabilità con i  crimini di guerra commessi dalle forze armate dei paesi importatori, un’eventualità che si fece strada ad esempio negli Stati Uniti a seguito del sostegno dato all’Arabia Saudita alla guerra sporca in Yemen. Insomma, si potrebbe delineare una corresponsabilità come co-belligeranti visto che la definizione di co-belligerante, e con essa di eventuali corresponsabilità in crimini di guerra,  oggi è assai ampia.

Non c’è bisogno di partecipare direttamente al crimine in questione, basta fornire assistenza pratica, incoraggiamento e appoggio morale. Questo determinò ad esempio la Corte Penale Internazionale nel caso di crimini di guerra commessi dall’ex-presidente della Libera Charles Taylor. Fanno impressione i dati snocciolati dagli attenti ricercatori della rete Disarmo: la Turchia è terzo partner per l’industria della difesa (altra ipocrisia quando quei prodotti servono all’offesa, anche in barba al diritto internazionale) dopo Qatar e Pakistan. Fece scalpore a suo tempo il caso delle bombe vendute da RWM, controllata da Rheinmetall Germania, all’Arabia Saudita, al centro di campagne di pressione e denuncia fino a quando non venne annunciata la fine delle forniture a Riad, le cui truppe bombardavano senza pietà abitati civili nello Yemen. Come anche la determinazione e forza dei lavoratori portuali liguri che riuscirono ad evitare l’attracco di una nave con armi destinate a zone di conflitto. Secondo Rete Disarmo l’Italia, negli ultimi 4 anni,  ha venduto alla Turchia 890 milioni di euro in fucili, munizioni, sistemi di precisione, bombe, razzi, missili, elicotteri da guerra venduti. 

Ed ancora più impressionante è il contributo che le industrie operanti tra Roma e “ex” provincia, danno alle guerre di Erdogan: basti pensare che solo nel primo semestre del 2019, secondo i dati ISTAT da qua sono stati esportati 39 dei 46 milioni di euro in armi e munizioni da guerra esportati dal paese in Turchia e 124 milioni di euro di componenti per aeromobili e aerospazio. Sistemi cosiddetti “dual-use” e che potrebbero essere usati per scopi militari. Solo che non abbiamo diritto a saperlo…Eppure l’Italia era all’avanguardia nel controllo dell’esportazione di armi verso paesi dove si violano i diritti umani e di fa la guerra. La legge 185/90 era considerata un fiore all’occhiello, per poi essere nel tempo snaturata e svuotata di forza: l’Italia può così esportare armi ai paesi NATO, come la Turchia, e non è tenuta a rendere pubblici i dati delle banche che sostengono le esportazioni, o i dettagli delle imprese che esportano. Cosi munizioni e bombe sofisticate a puntamento laser per carri armati potevano partire dalla Simmel di Colleferro, Leonardo spedisce componenti elettroniche e co-produce cannoni navali, mentre MBDA firma-joint venture per produrre missili con la Turchia.

E ancora Leonardo (ex-Finmeccanica)  può collaborare nell’assemblaggio in loco di micidiali elicotteri d’assalto Mangusta , mentre dagli stabilimenti in Italia partono pezzi di ricambio e si assicura la manutenzione. Il nostro paese è anche presente dal giugno 2016 con un contingente NATO in Turchia alla missione NATO Active Fence, per il supporto ad un sistema missilistico per la difesa aerea, con 130 militari italiani e una batteria di missili Samp/T dell’Esercito italiano nella base militare di Kahramanmaraş, nei pressi del confine con la Siria. . Il missile Samp/T viene costruito dal consorzio Eurosam al quale partecipa anche MBDA, con sede appunto nella Tiburtina Valley. L’Italia inoltre partecipa a esercitazioni congiunte con le forze armate turche, come nel caso dell’”Anatolian Eagle” che dal 17 al 28 giugno 2019, ha addestrato il personale delle forze armate turche con l’obiettivo di rafforzare le relazioni militari tra i Paesi partecipanti (tra cui, oltre la Turchia, Giordania, Pakistan, Qatar, Stati Uniti, Azerbaigian). Ecco le cifre dell’ipocrisia. E quando l’ipocrisia e la complicità degli stati, della loro realpolitik, prende il sopravvento sull’umanità e la giustizia, l’unica via sarà quella di un embargo popolare, “dal basso”. Come quello praticato stamattina.

Francesco Martone

23/10/2019 https://comune-info.net

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