Una scuola a misura di azienda: dall’utopia alla realtà?

L’idea di un Liceo del Made in Italy era stata già ventilata in campagna elettorale, e ripresa nei primi tempi del governo Meloni dalla stessa Presidente del Consiglio e da altri suoi esponenti. Data comunque l’assenza di qualsiasi coinvolgimento del mondo della scuola – che peraltro di tale tipologia di indirizzo non sentiva la mancanza né articolava l’esigenza (per i cosiddetti stakeholder è forse un altro discorso) – si comprende la sorpresa generale che ha fatto seguito all’annuncio dell’istituzione di questo liceo in un disegno di legge concernente “Disposizioni organiche per la valorizzazione, promozione e tutela del made in Italy”, approvato in Consiglio dei Ministri il 31 maggio scorso.

Non si sa molto in dettaglio di questo liceo. Il DDL fissa il suo avvio all’anno scolastico 2024-2025, e la confluenza in esso dell’opzione economico-sociale del Liceo delle Scienze Umane (ossia il Liceo Economico Sociale, o LES). Un peso rilevante nell’attività didattica avrà certamente la Fondazione “Imprese e competenze”, istituita dallo stesso DDL con il compito di «promuovere il raccordo tra le imprese che rappresentano l’eccellenza del made in Italy e i Licei del made in Italy al fine di diffondere la cultura d’impresa del made in Italy tra gli studenti e favorire iniziative mirate ad un rapido inserimento degli stessi nel mondo del lavoro, contribuire alla promozione di percorsi per l’orientamento professionale nei settori più trainanti e promettenti dell’economia, alla progettazione, nel rispetto dell’autonomia scolastica, di attività didattiche e professionali dedicate al Made in Italy». In via ufficiosa è uscita una bozza del piano di studi, in cui la principale novità consiste essenzialmente nell’introduzione di materie afferenti al “Made in Italy”.

Non sorprende che sul nuovo liceo si siano subito appuntate critiche per la sua natura di «ultima frontiera della scuola azienda» o di «pesante attacco alla scuola della Costituzione». In realtà non ci sono state particolari o numerose reazioni anche perché il DDL che lo istituisce è stato approvato in un periodo in cui il mondo della scuola aveva altro a cui pensare, e con esso pure gli animatori del chiacchiericcio mediatico, che di fatto impongono i termini del dibattito quando si discute di scuola e istruzione. La scuola peraltro è ormai da tempo al di fuori della sfera di interessi del mondo della politica e della cultura, anche progressista. Nondimeno, in attesa di vedere il percorso ulteriore del DDL in Parlamento e la configurazione finale del Liceo del Made in Italy, si possono avanzare alcune considerazioni.

Non è la prima volta che si intende introdurre nel nostro sistema scolastico un tipo di liceo caratterizzato in senso professionalizzante. La riforma Moratti aveva addirittura istituito i “licei vocazionali”, che dovevano sostituire gli istituti tecnici e commerciali, e che però si sono nel frattempo persi per strada. Un punto problematico era costituito dall’equilibrio tra carattere “liceale” e carattere “professionalizzante”. Un documento del 2005 sottoscritto da varie organizzazioni imprenditoriali rivolgeva critiche al progetto ministeriale lamentando l’assenza di innovazioni da un lato e la piega “liceale” dall’altro, e presentava una serie di desiderata sia in ambito delle strutture e metodologie didattiche (come l’impianto modulare, il “sapere basato sul saper fare”, la didattica laboratoriale, l’orientamento professionalizzante sin dal primo biennio, l’eventuale rinuncia all’insegnamento di una seconda lingua comunitaria «se fosse a scapito dell’apprendimento della lingua inglese», l’eliminazione delle 33 ore di musica obbligatorie negli istituti d’arte), sia in quello della “governance” (ad esempio il «riconoscimento formale del ruolo formativo dell’impresa», la modifica della composizione del Consiglio d’Istituto per farne un «organo di gestione con rappresentanze degli enti territoriali e delle associazioni nazionali dei datori di lavoro», la «fluidità del corpo docente», con l’utilizzo di docenti a contratto, tra cui «esperti provenienti dal mondo delle imprese», nonché un contesto di «sufficiente autonomia e di sana competitività». Nello stesso senso andavano le perplessità espresse dell’allora responsabile di scuola e università per Alleanza Nazionale, il sen. Giuseppe Valditara: per il liceo tecnologico «serve meno teoria, meno filosofia e più laboratori, più materie professionalizzanti», dichiarava il futuro Ministro dell’Istruzione e del Merito.

Era evidente già da allora l’intento di rendere la scuola, o quantomeno un suo settore importante, subordinata e funzionale all’impresa, senza più alcuna autonomia educativa, pedagogica, didattica, e senza più il ruolo sociale assegnatole dalla Costituzione. Nei diciotto anni intercorsi alcuni di questi desiderata sono almeno in parte diventati realtà (come l’introduzione dell’“alternanza scuola lavoro”, o il legame più stretto fra l’istruzione tecnico-professionale e le aziende del territorio), ma l’affondo ideologico è stato ridimensionato nei fatti (un esempio per tutti, l’alternanza scuola lavoro che è diventata in seguito PCTO – ossia Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento – con una decisa riduzione del numero di ore obbligatorie e, in molti casi, con un’esperienza di progetto invece di tirocinio aziendale vero e proprio). Non solo, o non tanto, grazie a una resistenza di segno opposto, quanto piuttosto perché la scuola, come qualsiasi istituzione, tende a operare iuxta propria principia.

Si può ben supporre che l’istituzione del Liceo del Made in Italy costituisca un rilancio ideologico in grande stile della subordinazione della scuola all’impresa. Esiste già un’articolazione di Relazioni Internazionali per il Marketing (RIM) nell’Istituto Tecnico a indirizzo economico, che dovrebbe proprio formare le competenze per lavorare anche nel “Made in Italy”: quali sono le ragioni per cui vi si affianca questo nuovo liceo, in che cosa quest’ultimo dovrebbe differenziarsi da un Istituto Tecnico RIM? Non è stato mai esplicitato. L’espressione “Liceo del Made in Italy” è di per sé vaga, soprattutto pubblicitaria, e restringe la visione e il respiro dell’indirizzo di studio in una prospettiva autarchica e limitante, nonostante l’inglese di ordinanza. Sfuggendo quindi al confronto con altri indirizzi di tipo tecnico-professionalizzante già esistenti, il Liceo del Made in Italy nasce invece cannibalizzando l’incolpevole LES, che forse sconta il fatto di configurarsi come “liceo della contemporaneità”, con diritto ed economia e scienze umane quali materie d’indirizzo, e al tempo stesso di non avere alcuna finalità professionale. Se vogliamo essere “moderni”, orientati al mondo d’oggi, possiamo fare a meno del lavoro e dell’impresa? No, evidentemente. Un’anomalia, questa del LES, una bizzarria, da rimuovere con un vero e proprio atto di “distruzione creativa”.

Anche se non dovessero sussistere molte differenze pratiche tra un Istituto Tecnico RIM e il Liceo del Made in Italy, il rilancio a livello liceale del progetto di scuola in funzione dell’impresa è certamente significativo dal punto di vista simbolico. Perché è dal mondo dei licei che finora è venuta la maggiore resistenza all’aziendalizzazione della scuola. Ed è la conquista dei licei che suggellerà l’accettazione di tale progetto da parte dell’intera classe dirigente, inclusa la classe intellettuale (dopotutto, a dispetto di tutta la retorica sull’università della vita e la trincea lavoro, i padri e le madri del Liceo del Made in Italy ci tengono a mantenere le gerarchie, la classe dirigente è sempre la classe dirigente, gli intellettuali sono sempre intellettuali e il liceo è pur sempre il liceo), e quindi dall’intera collettività. Allora la scuola della Costituzione non esisterà più, e la scuola a misura di azienda, obiettivo perseguito in maniera più o meno esplicita in quest’ultimo trentennio, diventerà realtà.

Francesca Lacaita

5/7/2023 https://transform-italia.it/

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