FEMMINICIDIO Da Ipazia in poi

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Ho letto con attenzione ed interesse la scorsa uscita di Lavoro&Salute, in particolare l’inserto dedicato alle donne, ai loro diritti e al triste fenomeno dei femminidicio. Come già sottolineato, il termine “femminicidio” è stato coniato di recente (1990) ed indica qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte. Dalla definizione sopra citata, risulta evidente che l’unico movente che conduce all’atto delittuoso è l’essere donna, l’appartenere al genere femminile; la violenza di genere si esprime in contesti culturali, religiosi, sociali ed economici diversi, sia all’interno dello stesso stato, che da una nazione all’altra. Il desiderio del genere maschile di mantenere, a proprio favore, lo squilibrio di potere, non è un fenomeno nato negli ultimi decenni, ma è una sorta di “bisogno ancestrale” che, dai tempi dei tempi, ha sempre voluto mantenere. Fin dall’antichità, nonostante i progressi della società e delle scienze in generale, la donna ha sempre avuto un ruolo marginale, senza diritti, solo con doveri rivolti al contesto familiare in cui viveva. Coloro che per particolari doti intellettuali riuscivano ad emergere, erano mal viste e, non di rado, subivano punizioni. Le ritorsioni nei loro confronti, variabili a seconda del periodo storico, potevano includere anche la morte, procurata con le torture peggiori. Ho ritenuto opportuno, per sottolineare la storicità del fenomeno in oggetto, riportare e ricostruire la vita di una giovane donna, vissuta a cavallo tra il III e IV secolo a. C., che morì in circostanze deplorevoli, solo per essere “colpevole” di insegnare, a chiunque lo chiedesse, la verità sulle cose del mondo. Però, prima di procedere alla descrizione, è necessario che il lettore sia informato del contesto sociale e culturale della città nella quale viveva questa giovane donna: parleremo di Alessandria d’Egitto e dei disordini che si verificarono per motivi religiosi e politici. Successivamente si approfondirà la vita della filosofa, matematica ed astrologa Ipazia.”

Laura Brunelli

Sulle orme di Ipazia.

Alessandria d’Egitto è nata per volere dell’imperatore Alessandro Magno e della dinastia dei Tolemei verso il 331 a. C., ed era stata pensata per divenire il più importante centro di scambio commerciale e culturale dell’area orientale del Mediterrane. Sul grande porto occidentale si affacciavano i quartieri regali, suddivisi in due zone: il Bruchion, occupato un tempo dalle antiche residenze dei re e delle regine tolemaiche, in epoca romana era per lo più deserto poiché danneggiato da precedenti lotte civili. In questo stesso quartiere si trovava il Museo che, con la Biblioteca annessa, era uno dei centri di ricerca scientifica, letteraria e filosofica più noti del mondo ellenistico e che, ancora nel IV secolo, manteneva viva l’antica tradizione di studi. A ovest, in prossimità della costa, sorgeva il Cesareo, un amplissimo edificio che, in epoca cristiana, ospitava i riti religiosi; non molto lontano da qui, vi erano i magazzini, luoghi in cui avvenivano le attività di sdoganamento e controllo della merceproveniente dall’estero. Questi edifici, il Bruchion e il Cesareo, costituivano il cuore della città: qui era stata costruita l’agorà nel periodo tolemaico e il forum in quello romano. Parte dell’attività politica veniva svolta nel teatro che sorgeva nella zona più interna della città.

Tra gli edifici più importanti, va anche menzionato il Serapeo, il tempio più antico e importante di Alessandria, che sorgeva su di una collina artificiale e che ospitava il culto delle più note divinità greco-egizie: da quello di Serapide, che nel periodo romano era divenuto il patrono della città, a quello di Iside, dea madre, ritenuta essere la grande potenza generatrice dell’universo. Il Serapeo conservava gli antichi misteri egiziani, rispettati, protetti gelosamente e curati dagli elleni di Alessandria e da quanti erano accorsi qui per trovarvi l’ultima roccaforte dell’antica religiosità. I riti nei templi, l’adorazione delle divinità di fronte alle statue che ne riproducevano l’immagine, l’imponente architettura che testimoniava un passato di splendore e il possesso di un patrimonio culturale scritto di secoli addietro, conferivano ad Alessandria un alone mitico; è così che appare al viaggiatore e storico pagano Ammiano Marcellino che la visitò tra il 363 e il 366 a. C.

Ammiano Marcellino riteneva, nei suoi scritti, che questa era la terra dalla quale i primi esseri umani avevano ricevuto il seme della sapienza divina che, tramite la mediazione dei filosofi greci, si diffuse poi in tutto il resto del mondo allora conosciuto; i fondamenti iniziali dei riti sacri, erano cautamente custoditi e nascosti in scritti arcani e, nel loro insieme, precedevano di secoli la nascita di tutti gli altri credi. Cristianesimo compreso.

Matematici come Pitagora e filosofi come Anassagora, da questa città che “profumava” l’arte del praticare la ragione, svilupparono le loro scienze e, “procedendo da queste fonti, con altezza di pensiero, Platone, emulo di Giove per la sublimità del suo linguaggio, dopo aver visitato l’Egitto, militò gloriosamente nel campo della
sapienza”.
Alessandria era abitata da gruppi etnici e religiosi di diversa provenienza, in maggioranza greci e, a seguire, egizi, arabi, siriani e persiani; la popolazione greca era suddivisa in demi, ovvero divisioni territoriali che costitutivano da un punto di vista giuridico “la denominazione ufficiale del cittadino maschio alessandrino”. L’iscrizione al demo era, come poc’anzi specificato, prerogativa del genere maschile e determinava, al contempo, il pieno possesso dei diritti politici e civili, conferendo così il titolo di “cittadino”.
In tale merito, erano stati ammessi anche molti giudei, anche se la loro comunità continuava a costituire un gruppo autonomo e saparato.
Il prefetto augustale, preposto dall’imperatore al governo della città, riuniva periodicamente i cittadini e li consultava sulle questioni più importanti della vita politica: da queste assemblee venivano sancite le cosidette “decisioni popolari” o politeiai.

Dal gruppo dei cittadini, erano esclusi gli schiavi e gli uomini dei ceti più bassi della popolazione greca con i quali, nel corso dei secoli, era andata assimilandosi gran parte dei nativi egizi, gruppo etnico privo di status costituzionale. Si consideri che erano così emarginati da non possedere nemmeno un nome attraverso cui poter essere riconoscibili per il diritto. Senza nome né parola, alle fine del III secolo, questa parte della popolazione aveva iniziato ad esprimersi solo attraverso sommosse, al fine di vedersi riconosciuto un qualche diritto; le fonti storiche dell’epoca, denunciarono la loro bestialità come tratto saliente del loro comportamento, senza considerare le effettive esigenze che li portavano a compiere simili atti.

Va altresì precisato che questa fetta della popolazione era numericamente maggiore a quella che godeva del diritto di “cittadino” e le sommosse che si generarono nel corso del tempo, trasferirono il potere dai demi alle masse.
Ma Alessandria non era solo una delle ultime roccaforti della religiosità ellenica: tra gli antichi colonnati e i templi fastosi, essa ospitava anche uno degli episcopati più potenti e importanti della Chiesa tardoantica che, tra la fine del IV e l’inizio del V secolo, contava tra i suoi fedeli la maggioranza della popolazione. Tra essi molti erano di estrazione aristocratica e membri della politica locale.

Al termine del IV secolo, grazie all’intensa attività politica e teologica del vescovo Atanasio, l’episcopato di Alessandria era divenuto il baluardo di difesa dell’ortodossia cristiana, quale era stata formulata dal concilio di Nicea del 325.
Questa politica ecclesiastica venne coronata nel 380 quando Teodosio I, avendo abbracciato personalmente il credo niceno, lo fece diventare credo ufficiale di stato: il 28 febbraio dello stesso anno, l’imperatore varò una
costituzione nella quale dichiarava che la sua volontà era quella di sottomettere tutte le popolazioni dell’impero alla religione cristiana tramandata dall’apostolo Pietro. Da questo momento l’episcopato di Alessandria prese il
sopravvento su tutti gli altri vescovati d’Oriente. La forza e  il potere che i suoi vescovi riuscirono a mettere in campo fu tale da intimorire gli altri rappresentanti della Chiesa.
In tutte le questioni che riguardavano la vita della diocesi, il vescovo di Alessandria poteva disporre di un potere assoluto e inappellabile, ma gli veniva di fatto proibito di intromettersi nelle faccende degli altri episcopati, in particolare di quello di Costantinopoli.
Quest’ultimo, durante il V secolo, cercherà di contendergli il primato in Oriente, ma con scarso risultato: i suoi
rappresentanti dovranno confrontarsi con personalità potenti e dispostiche quali il vescovo Teofilo e il suo successore, il nipote Cirillo, uomini disposti ad ogni mezzo per preservare ed estendere il loro potere.

Tra il 390 e il 392, l’imperatore Teodosio il Grande, a suggello della rinnovata alleanza con il vescovo di Milano
Ambrogio, promosse una serie di provvedimenti giuridici avversi al paganesimo, che prevedevano sanzioni e pene sempre più severe per chi non abbracciava il cristianesimo.
Il vescovo Teofilo approfittò immediatamente di questa nuova contingenza politica e, meschinamente, fece di tutto quello che era in suo potere per sollecitare l’imperatore ad abbattere templi. Socrate Scolastico non macò di ricordare che l’atto compiuto da Teofilo fu riprovevole di dominio e di umiliazione: non si accontentò solo di vedere la distruzione dei templi ma, dopo aver fatto deturpare i luoghi sacri, espose gli oggetti di culto in essi contenuti, riducendoli al ridicolo pubblicamente. Gli elleni, sconvolti dall’evento,
cospirarono ai danni dei cristiani; ne uccisero molti, dopodiché cercarono rifugio nel Serapeo, tempio del dio
Serapide.

Davanti a una così accanita resistenza, il prefetto augustale si rivolse a Costantinopoli chiedendo l’intervento
dell’imperatore. Questi ripose nel giro di poco tempo, dando il suo pieno appoggio alla comunità cristiana e,
contemporaneamente, sollecitando i capi della città ad una politica di riavvicinamento nei confronti degli elleni ribelli, in modo da renderli disponibili alla conversione al cristianesimo. Ma gli elleni, ancora rinchiusi nel Serapeo, e spaventati dal clamore della folla cristiana che esultava per la risposta dell’imperatore, abbandonarono precipitosamente il tempio e si diedero alla fuga. Il luogo venne occupato dai cristiani, privato dei suoi antichi misteri e sostituito da una chiesa cristiana.

Ipazia nasce e cresce in questo periodo di guerre intestine. La sua storia viene narrata fondamentalmente da tre storici: Socrate Scolastico, Damascio e Filostorgio. I primi due autori non erano suoi contemporanei, scrissero di lei dopo circa 50 anni dalla sua morte; il terzo era suo allievo.
Tutto ciò che sappiamo della sua esistenza deriva dagli scritti degli storici prima citati.

Laura Brunelli
Bioeticista
Collaboratrice redazionale di Lavoro e Salute

Articolo pubblicato sull’inserto CULTURA/E del numero di gennaio del periodico cartaceo www.lavoroesalute.org

 

 

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