Il delitto di Giarre. Romeo e Giulietta in versione Lgbt+

Ama, ama follemente, ama più che puoi e se ti dicono che è peccato ama il tuo peccato e sarai innocente”. William Shakespeare, Romeo e Giulietta

Romeo e Giulietta, ovvero l’archetipo dell’amore che sfida le leggi della società e accetta di finire in tragedia pur di esistere e di non piegarsi ad esse. Pensatelo così il delitto di Giarre: due giovani omosessuali trovati senza vita, morti d’amore, il 17 ottobre del 1980, sotto un grande pino marittimo a Giarre, a ridosso delle pendici nere dell’Etna e poco lontano da Taormina, antica colonia greca e uno dei posti più incantevoli dell’intero Mediterraneo.

Non si saprà mai cosa accadde esattamente a Giorgio e Toni, ma oggi, a distanza di oltre 40 anni, che fosse un suicidio o un omicidio rimane forse poco più di un dettaglio. L’inchiesta fu chiusa il più rapidamente possibile, accettando senza troppe domande la confessione, poi ritrattata, del giovanissimo cugino di Toni, l’ultimo che li vide insieme e che raccontò di essere stato costretto con la forza da loro stessi a premere il grilletto per ucciderli.

Comunque sia andata, Giorgio e Toni, come Romeo e Giulietta, sono morti perché la società di allora non riusciva ad accettare la loro omosessualità, ma soprattutto non poteva ammettere il loro desiderio di amore. L’omosessualità non poteva essere altro che eccezione, devianza e eccesso. Non poteva essere accettato il normalissimo desiderio di stare insieme e amarsi l’un l’altro, perché usciva da ogni possibile schema di perversione e per ciò stesso diventava un pericolo. Instillava il dubbio della normalità, minando per questo la base stessa di quell’ordine etero-patriarcale, conservatosi granitico e immutabile per millenni.

Giorgio e Toni erano scherniti e guardati con riprovazione perché tutti sapevano che erano «puppi», ma quello che destabilizzava il sistema era soprattutto il loro normalissimo desiderio d’amore. A questo serviva quell’epilogo da tragedia greca, voluta o imposta che fosse: una sorta di punizione degli dei, non tanto per essere stati “diversi”, quanto piuttosto per aver preteso di essere come qualunque altra coppia di innamorati che, mano nella mano, cerca l’intimità oltre l’angolo di una strada.

Una tragedia destinata a proseguire oltre la loro morte, con una grottesca damnatio memoriae. Nessuna delle due famiglie, nemmeno dopo il ritrovamento dei corpi, ebbe infatti mai il coraggio di ammettere la loro omosessualità, perseguendo piuttosto una operazione di disarmante e feroce rimozione, fino a cambiare la data di morte sulle rispettive lapidi dei due giovani affinché i posteri non potessero mai sapere cosa fosse accaduto. Divisi nella vita e poi anche nella morte, con una crudeltà indegna di ogni perdono.

“Il delitto di Giarre” di Francesco Lepore ripercorre questa storia come una sorta di cold case letterario (cit. Paola Guazzo), che riesuma dopo decenni un caso irrisolto. Ma la ricostruzione del delitto va molto oltre la cronaca: l’autore non cerca una verità giudiziaria che forse non sapremo mai e ci risparmia dettagli morbosi alla ricerca di un nuovo improbabile indizio. Il libro cerca un’altra verità, quella di una società italiana che, al sud come al nord, rimuoveva l’omosessualità, la negava, la scherniva, la relegava ai margini. Soprattutto è il racconto di come, da quello che poteva rimanere un macabro fatto di cronaca nera esplose invece il movimento Lgbt+, avviando quel percorso di consapevolezza politica e sociale che ci ha portato, in 40 anni, dove siamo ora, nel pieno della discussione del DDL Zan, passando attraverso due leggi più o meno imperfette, la 164/1982 in materia di rettificazione e attribuzione del sesso e la 76/2016, la cosiddetta legge Cirinnà sulle unioni civili.

Il libro, con una prosa sempre gradevole e un rigoroso lavoro di inchiesta e ricostruzione dei fatti, ripercorre, attraverso materiale d’archivio e testimonianze attuali, la storia del movimento Lgbt+ in Italia, dal Fuori ad Arci-Gay (prima con, poi senza trattino), passando da Muccassassina, ai Pride, al Mit, fino a Lesbicx.

Una ricostruzione necessaria e tanto più utile ora che la discussione sul DDL Zan impone finalmente anche all’opinione pubblica di confrontarsi con quello che in questi decenni in troppi, anche a sinistra, hanno pensato di tenere ai margini.

C’è un gran dire in questi giorni, pienamente a sproposito, che negli anni 80 eravamo migliori e in fondo in fondo non avevamo bisogno del DDL Zan, perché ascoltavamo Renato Zero e Boy George cantare in tutina di strass e eye-liner intorno agli occhi. Ma quando mai! Quanta ipocrisia.

Gli anni 80 non erano migliori: l’omosessualità poteva (forse) andare bene su un palco, ma nella vita reale era scherno, risatina, battuta volgare. Era soprattutto il pregiudizio che gli omosessuali fossero dei pervertiti, effemminati un po’ ridicoli o delinquenti in cerca di sesso nascosti in un bosco, quelli di cui temere nello spogliatoio di una palestra.

Sono cambiate tante cose da allora, grazie soprattutto all’attivismo del movimento Lgbt+ che dai fatti di Giarre prese vita. Ma quel granitico sistema etero-patriarcale, maschilista, familista e bigotto è ancora lì, intatto, pronto a sentenziare sulle nostre scelte e a decidere sulle nostre vite e sui nostri corpi. Pronto a dire cosa è naturale e cosa non lo è, cosa è normale e cosa invece al massimo è tollerato.

Il libro di Francesco Lepore arriva, quindi, giusto in tempo, per ricordarci da dove veniamo e farci vedere dove andiamo, confermandoci che la discussione sul DDL Zan sta finalmente provando a chiudere quel cerchio, elevando il discorso sull’identità di genere a senso comune, superando l’idea della devianza, del ridicolo, dell’eccesso, dell’anormale. Se per farlo, c’è bisogno di una legge che riconosca l’aggravante omolesbotransfobica nei reati di violenza, ben venga.

Sono stata fin dall’inizio convinta che il DDL Zan non fosse che il primo passo di un percorso e non invece un traguardo, perché non rappresenta un ampliamento delle libertà civili, ma “solo” una tutela penale finalizzata a reprimere i discorsi e i comportamenti di odio. Ogni giorno che passa mi convinco sempre più della sua importanza strategica, perché sarà pure un primo passo, ma è proprio necessario, urgente e non più rinviabile. Questo che stiamo passando è un crinale, da cui non si torna indietro. E la discussione feroce che sta portando avanti la destra, persino le recenti intromissioni del Vaticano, ne sono la dimostrazione più evidente. L’approvazione del DDL Zan non farebbe molto altro che estendere la legge Mancino ai reati contro persone Lgbt+. Ma attraverso di essa finalmente riconosceremmo ogni possibile identità, daremo loro un nome e una dignità.

Come 40 anni fa, a Giarre, mostreremmo all’intera società che ogni possibile forma di amore non soltanto è possibile, ma soprattutto è più normale di quanto ogni pregiudizio bigotto, retrogrado e omolesbotransfobico possa immaginare.

Francesco Lepore è giornalista, caporedattore di Gaynews e attivista Lgbt+, tra gli animatori di “Da voce al rispetto”, il movimento nato a sostegno del DDL ZAN, raffinato latinista e vaticanista, con un passato, oggi improbabile, presso la Biblioteca Apostolica Vaticana.

Eliana Como

1077/2021 https://www.intersezionale.com

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