La sfida per salvare la casa dove si combatte la violenza sulle donne a Roma

Avere l’impressione che la maggior parte delle persone faccia finta di non sapere cosa sia la violenza sulle donne le provoca rabbia e la rabbia la spinge a parlare. Luciana (nome di fantasia per proteggerne l’identità) si tocca i capelli corti con insistenza, ha uno sguardo vivace e gli occhi piccoli e neri che si muovono veloci. È arrivato il primo fresco di settembre. Il lampione che illumina il pergolato emana una luce arancione, gli sbalzi di energia disegnano delle ombre sul volto della donna: agronoma di origine romena, 66 anni, residente in Italia dal 2002, bracciante, baby sitter, badante, vittima di violenza. Ma che significa vittima? Le donne che hanno subìto violenza non amano questa parola, perché si concentra sulla sofferenza individuale e non spiega il sistema e i meccanismi collettivi che legittimano la violenza degli uomini sulle donne. Lo spiega Luciana in un flusso di coscienza, mentre racconta la sua storia simile e diversa da quella delle altre, che con lei vivono nella casa rifugio Lucha y siesta nel quartiere Tuscolano di Roma.

“È rimasto un piccolo seme, un piccolissimo seme di speranza dentro di me”, dice Luciana. Ed è legato alla casa rifugio in cui vive e da cui negli ultimi dieci anni è entrata e uscita cinque volte. L’edificio occupato da un gruppo di attiviste nel 2008 si è trasformato in un punto di riferimento per le donne nella capitale, ma dal 15 settembre la struttura, di proprietà dell’Atac (l’azienda pubblica del trasporto pubblico locale) potrebbe essere sgomberata per essere venduta all’asta. Nel centro sono ospitate al momento 17 donne che hanno subìto violenze psicologiche, fisiche o economiche soprattutto dai loro familiari, in particolare dai mariti o dai compagni.

In tutto a Roma sono disponibili 25 posti letto per donne che scappano dalla violenza, mentre secondo la convenzione di Istanbul in una città di queste dimensioni dovrebbero essere trecento. La casa rifugio, che è anche un centro antiviolenza e un laboratorio culturale, al momento soddisfa il 60 per cento del fabbisogno di posti letto per questo tipo di casi. “Posti come Lucha y siesta dovrebbero essere imitati, riprodotti, ci dovrebbero essere luoghi così in ogni città in Italia e non solo in Italia”, continua Luciana. Invece la casa al momento rischia di chiudere.

“Questa situazione di incertezza riapre per ognuna di noi le vecchie ferite: quando sono entrata la prima volta in questa casa volevo tentare il suicidio, ma le persone che ho incontrato mi hanno aiutato al punto che le porto come in una cornice d’oro nel mio cuore. Io credo che la maggior parte delle persone non sappia, non voglia sapere che cos’è la violenza sulle donne”, continua Luciana, punto di riferimento per molte delle ospiti più giovani della casa. “Qui ci aiutiamo l’una con l’altra, ci sosteniamo, siamo in un centro da cui possiamo uscire, siamo protette, ma siamo libere”, spiega. “Casa di semiautonomia”, la definiscono le operatrici che dal 2008 hanno dato assistenza a mille donne attraverso uno sportello di ascolto e ospitalità a più di cento persone.

Come in un burrone
Luciana ha perso suo marito da giovane in un incidente stradale: aveva 23 anni, un figlio piccolo e tutta una vita da inventare. Studiava agronomia all’università in una città della Transilvania. “Avevo tutto, ma in un attimo mi sono ritrovata in un burrone”, racconta. “Ero depressa e mi sono rifugiata nello studio”, ricorda. La laurea, il dottorato poi il lavoro in un’azienda agricola di stato nella Romania di Nicolae Ceaușescu. “Lasciavo mio figlio da mia suocera, facevo la pendolare per lavorare, lo lasciavo la mattina che dormiva e lo ritrovavo la sera che dormiva”, ricorda. Poi un nuovo amore per l’uomo che gestiva l’azienda in cui lavorava, un secondo matrimonio, una figlia.

I problemi sono ricominciati quando suo marito ha perso il lavoro e si è messo a bere. Luciana mostra la foto di un uomo magro, ossuto, con i baffi. “Quando beveva mi picchiava, per due volte ha tentato di uccidermi”, racconta. Undici volte la donna è uscita di casa per lasciarlo, ma per undici volte è tornata da lui.”Non ce la facevo ad allontanarmi, anche se mi faceva del male”. Un giorno è finita all’ospedale con i lividi su tutto il corpo, quel giorno ha deciso di divorziare: “Ho sofferto molto, perché lo amavo, ma sono riuscita ad andarmene”.

Attiviste fuori dalla Casa delle donne Lucha y siesta, Roma, il 7 settembre 2019. - Simona Granati, Corbis/Getty Images

Attiviste fuori dalla Casa delle donne Lucha y siesta, Roma, il 7 settembre 2019. (Simona Granati, Corbis/Getty Images)

Nel 2002 la donna è venuta in Italia per cercare lavoro, è arrivata in Piemonte dove ha lavorato a lungo come baby sitter. “Vedi questo vestitino rosa fatto a maglia? L’ho fatto io con le mie mani”, dice mentre mostra la foto ingiallita di una bambina che sorride. C’è anche lei, con i capelli neri e un tailleur. “Stavo bene, ma non mi pagavano con regolarità”, allora ha provato a trasferirsi al sud dove trovare lavoro sembrava più facile, ma lì è ricominciata la violenza. Nei campi di frutta in Sicilia il datore di lavoro pretendeva di fare sesso con lei. “Io avevo già una cinquantina d’anni, lui era più giovane, ma non si fermava davanti a questo”, racconta. Se la donna rifiutava, lui minacciava di mandarla via. Fino a quando non le ha detto di averle trovato un altro lavoro in Calabria come bracciante. Dopo il trasferimento però, Luciana ha scoperto che il suo ex datore di lavoro l’aveva venduta a un uomo anziano, che l’ha rinchiusa in una casa in aperta campagna per sfruttarla lavorativamente e sessualmente.

In un’operazione di polizia Luciana è stata liberata ed è stata assegnata a un centro di accoglienza per vittime di violenza e di tratta, ma anche in quel centro è stata abusata dal religioso che gestiva la struttura. Luciana è dovuta scappare di nuovo. “Ho avuto l’illuminazione di prendere un treno per Roma, quando sono arrivata dormivo per strada, poi sono stata assegnata a diversi centri di accoglienza, ho denunciato tutto alla polizia”, racconta. “Ero molto depressa, non volevo più vivere, ma quando alla fine ho trovato questo posto molte cose sono cambiate”, racconta.

Dal 2009, quando è entrata per la prima volta a Lucha y siesta, Luciana ha ricominciato a lavorare e a studiare, ma prima di tutto a vivere. La sua competenza di agronoma l’ha messa a servizio della casa, ha cominciato a coltivare un orto nel giardino e a curare le piante nel quartiere. “Abbiamo aperto una clinica delle piante”, racconta. Se qualcuno ha una pianta che sta morendo la porta qui e la affida a Luciana che se ne prende cura fino a riportarla in vita. “Abbiamo organizzato laboratori per bambini sulle piante, ho lavorato come agronoma in una cooperativa sociale, ho fatto la badante per tanto tempo e la colf, ma negli ultimi tempi faccio un po’ fatica a fare lavori così pesanti”, racconta Luciana, che nel frattempo ha sviluppato qualche problema di salute. A causa di un’autonomia economica non ancora raggiunta, la casa rappresenta per Luciana un punto di riferimento prezioso. “Anche se interrompono le utenze resisteremo, difenderemo questo posto”, assicura.

Nelle quattro case rifugio attive a Roma le donne vittime di violenza possono essere ospitate per un periodo massimo di sei mesi. Secondo le operatrici e gli esperti, tuttavia, per una donna che ha subìto violenza c’è bisogno di almeno un anno per rimettersi in sesto e ricostruire un percorso di autonomia, soprattutto se ci sono dei figli. A undici anni dalla nascita del progetto Lucha y siesta, tuttavia, la mancanza di strutture per le donne che vogliono uscire da una situazione di violenza è ancora un problema strutturale nella capitale.

Immaginare il futuro
“Fin qui abbiamo soprattutto difeso i nostri spazi, le nostre idee. Da qui in poi abbiamo pensato che sia giusto provare a immaginare il futuro”, spiega Simona Ammerata, operatrice antiviolenza e attivista della casa delle donne. Dopo che il tribunale ha comunicato che dal 15 settembre saranno staccate le utenze alla casa e c’è il rischio dello sgombero, le attiviste hanno costituito un comitato che si chiama “Lucha alla città”: l’idea è quella di raccogliere fondi per creare una fondazione e partecipare all’asta giudiziaria per ricomprare l’edificio: l’ex stazione “Cecafumo” della Stefer, stabile di proprietà dell’Atac che era abbandonato dagli anni novanta fino al 2008, quando è diventato Lucha y siesta.

Nella Casa delle donne Lucha y siesta, Roma, il 7 settembre 2019. - Simona Granati, Corbis/Getty Images

Nella Casa delle donne Lucha y siesta, Roma, il 7 settembre 2019. (Simona Granati, Corbis/Getty Images)

“Dal 2017 abbiamo provato a chiedere al comune e alla regione di favorire un processo di regolarizzazione di questo spazio, ma questa volontà da parte delle istituzioni non c’è stata. Abbiamo aperto un tavolo con il comune di Roma nel dicembre del 2017, dopo aver scoperto che stavano pensando di vendere tutti gli immobili di Atac per risanarne il debito. Abbiamo avuto molte promesse, ma nessuna proposta concreta: il concordato è stato approvato nel 2018”, spiega Ammerata. A un certo punto è stata ipotizzata anche una permuta: cioè l’individuazione di un altro stabile in cui trasferire il progetto, in cambio della restituzione dell’edificio dell’Atac. Ma nessuna delle proposte avanzate è andata in porto. Nel 2019 il fascicolo è passato nelle mani del tribunale, che ha deciso di vendere all’asta l’immobile qualche settimana fa.

“Ora il comune di Roma propone di trovare dei posti per queste 17 persone, ma fatica a individuarli, perché non ci sono. E poi il problema sono le donne che arriveranno domani e dopodomani”, afferma Ammerata. Alla casa Lucha y siesta si registrano dieci casi al mese di cui uno grave: donne che scappano dalla violenza e che rimangono senza un tetto, spesso con i figli minorenni al seguito. Così le operatrici, le attiviste e le ospiti della casa hanno deciso di provare a partecipare all’asta. “Dobbiamo raccogliere 150mila euro per creare una fondazione e poi molti altri soldi per comprare l’immobile”, spiega Ammerata.

“L’idea è che Lucha y siesta sia acquistato dalla cittadinanza e torni a essere un bene collettivo: abbiamo lanciato un comitato a cui hanno aderito al momento centinaia di cittadini, associazioni, organizzazioni non governative. Nel concordato il valore dello stabile è stato valutato oltre i due milioni di euro. Ora chiediamo alle istituzioni che ci assicurino almeno la prelazione sull’immobile al momento della vendita”, conclude l’attivista che spiega come alla campagna stiano aderendo molti cittadini che “vogliono dare il loro contributo” per salvaguardare un luogo e un’esperienza che è diventata un modello, ma che per ora le istituzioni hanno abbandonato.

Annalisa Camilli

giornalista di Internazionale

13/9/2019 www.internazionale.it

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