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Altra Informazione, Blog, Comitati di Lotta, Cronache di Lavoro, Cronache Politiche, Cronache Sindacali, Cronache Sinistra Europea, Cronache Sociali, Culture, Politiche di Rifondazione, sanità e salute — Febbraio 28, 2020 12:30 pm

Nel mercato digitale lo svantaggio di genere è diventato la norma. Juliet Webster, che dirige il Work and equality research spiega come le dinamiche che lo regolano gravino in modo sempre più sproporzionato sulle spalle delle donne

Lo svantaggio di genere nel mercato digitale

Pubblicato da franco.cilenti

Foto: Unsplash/ Sincerely Media

Il lavoro che viene svolto con l’ausilio delle tecnologie digitali e delle telecomunicazioni, o che riguarda la produzione di contenuti, si è diffuso rapidamente nelle economie capitalistiche avanzate. Inoltre, mostra delle caratteristiche proprie, non ultima in ordine di importanza la presenza ormai consolidata di quelle vulnerabilità e di quegli svantaggi a livello di mercato del lavoro che sono solitamente associati al lavoro femminile, oltre che ad altre forme di lavoro fortemente connotate dal punto di vista di genere.

La precarietà è diventata una caratteristica sempre più marcata della maggior parte delle economie occidentali, con fette significative di popolazione prive delle tutele di cui godevano le precedenti generazioni di lavoratori sindacalizzati. Il lavoro digitale rappresenta uno degli elementi principali che hanno contribuito alla definizione dello scenario attuale. Il lavoro precario è diffuso in particolar modo ai margini del mercato del lavoro (donne e lavoratori e lavoratrici migranti) e resta privo di regolamentazione. Se in passato tale precarietà era limitata a una sottoclasse composta in prevalenza da lavoratrici, ora riguarda un numero molto più significativo di forme di lavoro e di lavoratori e lavoratrici. Le nuove tecnologie favoriscono la diffusione di questo stato di precarietà.

Ad esempio, alle piattaforme come Upwork o Amazon Mechanical Turk si iscrivono milioni di freelance, e su di esse vengono postate centinaia di migliaia di annunci di lavoro ogni mese. Il gruppo di crowdworker che effettuano la registrazione su queste piattaforme include professionisti e professioniste ‘digitali’ afferenti al mondo dei media (videomaker, animatori e animatrici, sviluppatori e sviluppatrici di siti web e app, visual designer e graphic designer), copywriter o traduttori e traduttrici, risorse specializzate in ambito vendite e marketing, risorse di supporto amministrativo, professionisti e professioniste in ambito finanza e gestione, e perfino ingegneri e ingegnere.

In alternativa, potrebbe trattarsi di clickworker, ovvero risorse che eseguono piccole parti di mansioni o progetti complessi suddivisi in micro-mansioni (ad esempio, inserire dati, taggare immagini, trascrivere testi scansionati così da renderli in formato digitale, o controllare le opinioni su un prodotto specifico). Queste micro-mansioni richiedono un numero ridotto di competenze e pochissimo tempo (minuti o secondi), e vengono eseguite con dei semplici click. Tali compiti non qualificati sono stati descritti come “mansioni monotone, poco pagate, per le quali non serve usare il cervello, mansioni che… consentono all’economia di Internet di andare avanti a pieno ritmo’. I vari database, testi trascritti o archivi di immagini la cui realizzazione è stata affidata a risorse esterne (definite appunto crowdworkers) vengono riassemblati e ricomposti dal soggetto committente in un prodotto finale o progetto.

Crowdworkers, freelance che svolgono un lavoro creativo, e lavoratori e lavoratrici che svolgono la propria attività tramite le piattaforme online non godono delle tutele normalmente riconosciute in caso di rapporto di lavoro subordinato. La normativa e le tutele di cui godono i lavoratori e le lavoratrici che sono dipendenti di datori di lavoro con una sede fissa non si applicano ai lavoratori e alle lavoratrici digitali; pertanto, tali soggetti non hanno alcuna protezione in caso di sfruttamento, qualora insorgano controversie riguardanti i pagamenti, o nel caso in cui vengano pubblicate recensioni negative suscettibili di distruggere in un battibaleno una reputazione online costruita con fatica.

Le basse retribuzioni vengono favorite dalla condizione di informalità e dalla mancanza di trasparenza nell’assegnazione degli incarichi. Il lavoro da freelance oscilla spesso tra periodi caratterizzati da picchi di richieste a un estremo e all’altro estremo ‘periodi di magra’. Per tale motivo, soprattutto nel settore dei nuovi media, la cosiddetta ‘bulimia lavorativa’ è divenuta la normalità. Oltre a tutto ciò, non dobbiamo dimenticarci dell’individualismo che pervade il mercato del lavoro virtuale; questo fenomeno maschera le disuguaglianze strutturali esistenti, e spinge i lavoratori e le lavoratrici ‘virtuali’ a sviluppare strategie di adattamento individualizzate.

Il peso di queste dinamiche grava in modo sproporzionato sulle spalle delle donne. Spesso, le donne decidono di diventare freelance o lavoratrici autonome in quanto, ad esempio, queste tipologie di lavoro sembrano offrire una soluzione di fronte alla necessità di avere un lavoro retribuito e, al contempo, occuparsi della famiglia. Pertanto, il gruppo di crowdworkers su Amazon Mechanical Turks è costituito in via maggioritaria da donne.[1] Anche nel settore dei nuovi media, i lavori temporanei, intermittenti e precari vengono svolti principalmente dalle donne, in particolare da quelle in giovane età. La disuguaglianza retributiva di genere è alquanto diffusa, in parte perché le donne sono generalmente meno tutelate dai sindacati rispetto agli uomini, nonché meno suscettibili di godere dei benefici di quella forma di organizzazione collettiva che si è venuta a delineare nei settori industriali emergenti e in riferimento alle modalità organizzative dell’economia di Internet. Tuttavia, nel mondo digitale, lo svantaggio di genere nel mercato del lavoro è diventato la norma.

Parallelamente alla crescita del lavoro retribuito precario, è aumentato significativamente anche il cosiddetto ‘lavoro di consumo’ digitale non retribuito.[2] Porzioni di lavoro sono state trasferite, tramite la cosiddetta self-service economy, dai produttori ai consumatori, o prosumers: l’online banking, gli studi di prodotto, il servizio di biglietteria, la gestione dei viaggi e molto altro.

La casa, che una volta rappresentava il contesto dove veniva svolto il lavoro domestico e di cura, è diventata ora il luogo nel quale si collocano entrambe le tipologie di lavoro. Quando la casa viene trasformata nel luogo di lavoro del/la professionista ‘mobile’ e dei lavoratori e delle lavoratrici indipendenti che svolgono una professione creativa, nonché la sfera in cui viene svolto il già citato ‘lavoro di consumo’, essa diventa anche un’arena all’interno della quale entrano in competizione diverse tipologie di lavoro (fisico, amministrativo, di cura e affettivo),[3] e i confini tra le stesse divengono via via più sfumati. Inoltre, lo sconfinamento crescente del lavoro retribuito nella sfera spazio-temporale domestica mostra sotto una luce diversa la politica di genere relativa alla gestione del tempo: in altre parole, la fa apparire come una risorsa.

Quando il lavoro retribuito sconfina nella sfera temporale domestica, immancabilmente sotto forma di ‘lavoro flessibile’, il tempo dei membri della famiglia diventa oggetto di scontro, ancora più spesso di quanto non avvenga normalmente. Piccoli frammenti di tempo per il lavoro retribuito e per gli impegni personali vengono a trovarsi in conflitto: ciò consolida e rafforza i rapporti di potere tra i generi all’interno della famiglia, nonché il valore che viene attribuito al tempo dei suoi membri. Questo in quanto non tutto il tempo è uguale e, al pari di quanto avviene per le competenze, al tempo viene attribuito un valore diverso sulla base di colui o colei cui tale tempo appartiene. Tanto nelle interrelazioni private quanto in quelle pubbliche, coloro che hanno più potere all’interno della società sono anche coloro che risultano essere più capaci di gestire il proprio tempo e quello delle altre persone.

Dal momento che ci si aspetta che i lavoratori e le lavoratrici digitali siano sempre a disposizione (ciò vale anche in generale per l’intero settore della comunicazione digitale), il lavoro digitale e la vita personale sono spesso caratterizzati da stress. Gli individui devono contemperare esigenze lavorative non ben definite e in conflitto fra loro e, considerando che il tutto diventa sempre più complesso e mediato dalla dimensione digitale, perfino le attività routinarie della vita privata comportano un dispendio sempre più grande in termini di tempo ed energie.

Le relazioni familiari e i carichi di cura vengono sempre di più trascurati a favore del lavoro retribuito e non retribuito, il quale procura un valore aggiunto ai committenti ma non rispetto alla vita privata di coloro che lo svolgono. Le dinamiche di genere che generalmente si configurano nella sfera domestica sono caratterizzate dalla concorrenza tra queste esigenze differenti, dalle decisioni che devono essere prese in merito all’ordine di priorità di una determinata attività rispetto a un’altra, e dal conflitto che viene a instaurarsi in riferimento alla gestione del tempo e dello spazio. Queste dinamiche riflettono e ampliano significativamente la disuguaglianza di genere e, allo stesso tempo, sono estremamente dannose per la salute individuale e per le relazioni familiari.

Riferimenti

Adam, B. (2002) The gendered time politics of globalization: Of shadowlands and elusive justice, Feminist Review, 70 (1): 3-29

Eurofound (2015) New forms of employment, Lussemburgo, Ufficio delle pubblicazioni dell’Unione europea; Huws, U. (2016)

Fuchs, C. (2010) Labor in Informational Capitalism and on the Internet, The Information Society, 26 (3): 179-196.

 

Gregg, M. (2011) Work’s Intimacy, Cambridge, Polity Press.

Gill, R. e Pratt, A. (2008) In the social factory: Immaterial labour, precariousness, and cultural work, Theory, Culture and Society, 25 (1): 1-30.

Gill, R. (2002) Cool, creative and egalitarian? Exploring gender in project-based new media work in Europe, Information, Communication and Society, 5 (1): 70-89.

Gregg, M. (2015) Typewriter, telephone, transistor: Labor politics in three formats, paper presentato alla conferenza “Terms of Media”, Luneburgo, giugno.

Hippler, K. (2014) Online work exchanges and their workforce, paper presentato in occasione dell’incontro “EU-COST Action IS1202 The Dynamics of Virtual Work”, Bucarest, marzo

Jeff Howe, Mechanical Turk targets small business, 1 agosto 2008

Silberman, S. (2016) Building Trust in Crowd Worker Forums: Worker Ownership, Governance, and Work Outcomes, paper presentato in occasione dell’incontro “EU-COST Action IS1202 The Dynamics of Virtual Work”, Vilnius, dicembre.

Standing, G. (2011) Precariat: The New Dangerous Class, London e New York: Bloomsbury.

Tapscott, D. (1996) The Digital Economy: promise and peril in the age of networked intelligence, New York: McGraw-Hill.

Wajcman, J. (2014) Pressed for time, Chicago: University of Chicago Press

Note

[1] Eurofound (2015) op. cit.

[2] Per “lavoro di consumo” (traduzione letterale dall’inglese “consumption work”) si intende “tutto il lavoro necessario in vista dell’acquisto, dell’utilizzo, del riutilizzo e dello smaltimento dei beni di consumo e dei servizi” (Evans D. (2017) Household Recycling and Consumption Work: Social and Moral Economies, by Kathryn Wheeler and Miriam Glucksmann, Journal of Cultural Economy, 10 (4): 415-417). [NdT]

[3] Gregg (2011) op. cit.

Juliet Webster

2872/2020 www.ingenere.it

Leggi l’articolo in inglese

Leggi il dossier di inGenere Il futuro delle donne nel lavoro digitale

Tags: Amazon Mechanical Turks crowdworkers differennza di genere donne emancipazione internet Juliet Webster La vori di genere lavori intermittenti lavori precari lavori temporanei lavoro lavoro a domicilio lavoro di consumo digitale lavoro di cura lavoro domestico mercato digitale part-time piattaforme digitali precari Precariato femminile sfruttamento sfruttamento digitale Teconologia
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Autore: franco.cilenti

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