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    FEMMINICIDIO, da Ipazia in poi. Quarta parte della vita di una giovane donna, vissuta a cavallo tra il III e IV secolo a. C., che morì solo per essere “colpevole” di insegnare, a chiunque lo chiedesse, la verità sulle cose del mondo. La prima parte su Lavoro e Salute di gennaio, la seconda parte sul numero di febbraio, la terza parte su quello di marzo.

    Sulle orme di Ipazia

    Pubblicato da franco.cilenti

    Ricostruendo la storia di Ipazia e della sua comunità scientifica, viene spontaneo chiedersi come sia stato possibile che la scuola ellenica godesse di tanto prestigio in un’epoca dominata dal cristianesimo.
    Sembra che il segreto di così tanto successo fosse proprio nella natura della filosofa che era stata in grado di compiere un salto dall’erudizione alla sapineza filosofica. Secondo Damascio ella era “di natura più nobile del padre, non si accontentò del sapere che viene attraverso le scienze matematiche cui era stata introdotta da lui, ma, non senza altezza d’animo, si dedicò anche alle altre scienze filosofiche”.

    Con l’espressione “le altre scienze filosofiche”, Damascio indica i dialoghi platonici che elencano tutta la gamma di scienze attraverso le quali si forma il vero filosofo. Queste scienze, come spiega anche Platone nel VII libro della Repubblica, sono: la matematica, la geometria, l’astronomia e la stereometria, la scienza dell’armonia e della combinazione di suoni, e, infine, la dialettica, di cui tutte le altre materie sono il preludio.

    Il padre di Ipazia, Teone, si fermò allo studio delle prime di queste materie: Ipazia andò oltre, dedicandosi all’esercizio di tutte le altre, fino alla dialettica, conferendo alla dottrina alessandrina uu’inflessione diversa dalla precedente. La filosofa creò una nuova retta che collegava le scienze matematiche con quella dell’essere e del divino, la vera filosofia: qui si riconosce la sua vera natura, ancor più nobile rispetto a quella del padre.

    Per comprendere meglio questa affermazione, il linguaggio platonico ci viene incontro: nel IV libro della Repubblica, trattando dell’elemento animoso dell’anima, il quale è disponibile ad allearsi sia con la ragione che con l’anima concupiscibile e, che per questo deve essere rettamente indirizzato dall’educazione, Socrate afferma: “Non è vero che quanto più uno è nobile di cuore tanto meno è capace di arrabbiarsi per la fame, il freddo, qualsiasi altro simile disagio che gli viene da chi secondo lui fa questo giuramento?”.

    Di tale natura dovrà essere colui che accinge alla filosofia: “una persona di buona memoria, tenace e amante di ogni genere di lavoro”, una perona disposta a sobbarcarsi le fatiche fisiche che comporta lo studio e l’esercizio della disciplina. Ipazia era in

    grado di ricercare la verità attraverso il dialogo, proprio come Socrate, che nella Vita di Isidoro viene citato come modello di questo comportamento: “nulla meglio di Socrate nella ricerca della verità”.

    Allo stesso modo di Socrate, Ipazia rappresentava l’ideale della virtù politica, la sola che permette di accedere alle “altre scienze filosofiche”, ossia alla vera filosofia.
    Questo importante passaggio, e cioè l’imprescindibilità della virtù pratica per poter accedere alla vera filosofia, è chiarito nella Vita di Isidoro, dove Damascio attinge al modello di filosofa realizzato da Ipazia e lo usa come discrimine tra “erudituncoli” e “veri filosofi” con il fine di screditare quei teurgi che si erano insediati nella scuola di Atene.

    Damascio, pertanto, si appresta a condurre una battaglia che contrappone la tradizione della scuola alessandrina a quella di Atene. In un brano, mette a confronto Isidoro, suo maestro, con uno dei fratelli di questo, Ulpiano: costui pur essendo molto abile nelle scienze matematiche, non è però degno di dedicarsi a tutte le altre discipline. Damascio narra che Ulpiano era inferiore a Isidoro perché si fermò solo allo studio della matematica, non approfondendo le altre materie e, pertanto, non arrivò mai alla comprensione e al pieno esercizio della dialettica. Depone a suo svantaggio la volontà, sempre resasi manifesta, di non voler intromettersi nelle questioni puramente politiche.
    Con questo esempio, Damascio critica tutti coloro che, al pari di Ulpiano, si limitano allo studio di una singola disciplina, non approfondendo le altre virtù, specialmente quella politica:

    “Infatti la virtù che viene praticata all’interno della vita politica nelle azioni e nei discorsi politici esercita l’anima ad acquisire più vigore e tramite l’esperienza rafforza maggiormente quanto di essa via sia di sano e perfetto; invece quando si annida di falso e fittizio nelle vite umane, tutto questo viene messo a nudo e reso più pronto alla corruzione.
    Perciò gli eruditi che stanno seduti in un cantuccio e filosofeggiano con aria grave e in modo altisonante circa la giustizia e la temperanza, quando siano costretti dalla necessità ad uscir(ne) per agire compiono azioni senza senso e di cui vergognarsi. Poiché ogni discorso, qualora manchino
    le opere, sembra vano e vuoto”.

    La via che Damascio propone ai suoi contemporanei è quella dell’impegno politico: è necessario che i filosofi tornino ad occuparsi dell’educazione dei futuri politici e ad esserne, perciò, gli interlocutori privilegiati.
    Nella storia della scuola alessandrina, Damascio ha un modello a cui atttingere e da mettere sotto agli occhi di tutti: quel modello è Ipazia, l’unica che mette in luce la virtù politica.

    Ma qual’era il legame tra la filosofa e le vicende culturali e politiche di allora?

    Per rispondere al quesito, occorre esplicitare che nella società alessandrina vi era una netta contrapposizione tra il genere di vita sostenuto e praticato dagli ambienti filosofici ellenici e quella che emergeva dall’ambito cristiano ortodosso: la via verso il basso degli uni rappresentava l’ascesa degli altri.
    Gli episcopi cattolici miravano ad istituzionalizzare e concentrare il potere e l’autorità nelle mani di pochi: l’istituzione ecclesiastica era il luogo dove si dovevano svolgere le attività politiche e sacre, e l’autorità politica e spirituale non doveva più derivare dalla coerenza di vita di pensiero, ma dalla posizione occupata dalla gerarchia.

    Di fronte all’emergere del nuovo ordine, gli elleni richiamarono un legame ancora più stretto con la tradizione e le conferirono una nuova forza e un nuovo valore alla luce della presente necessità politica.
    Gli ambienti ellenici di Alessandria e Costantinopoli misero in campo un ideale di vita e di politica antitetico a quello proposto dagli episcopi: piuttosto che dal potere derivante dall’essere anello della scala gerarchica, puntarono sull’autorità che viene dall’intelligenza sul mondo e dal coraggio nell’esporsi. Si attuò, così, un rovesciamento tra ordine terreno e ordine celeste: chi intraprendeva la via della carriera politica, mostrava la propensione di privilegiare una politica per il potere piuttosto che una politica per l’autorità che derivava dalla paideia 1.
    Un’educazione perfetta era l’unica condizione che potesse permettere la sospensione del giudizio nei confronti dei dogmi: alla scuola alessandrina, secondo lo storico Bregman:

    “La scuola di Ipazia, era confessionalmente neutrale e slegata da qualsiasi particolare culto o mistero: è improbabile che Ipazia considerasse un qualsiasi credo religioso superiore alla filosofia, la vera via verso la salvezza. Il suo insegnamento rese possibile un atteggiamento meno ostile verso il cristianesimo (per esempio, cristiani, ebrei e pagani, devoti magari a Iside
    o Serapide, che potevano essere allievi di Ipazia, potevano confessare credi religiosi diversi contenenti parti di verità,
    ma potevano arrivare al tutto solo mediante la pratica
    della filosofia). Se, una volta trovata la verità filosofica,
    essi sceglievano di interpretare le loro diverse tradizioni religiose alla luce di tale verità, bene, ma la filosofia doveva sempre mantenere il suo primato, quale chiave agli enigmi dell’universo e via per la salvezza dell’anima.”

    La via della ragione non cancella o pretende di risolvere il mistero là dove esso compare, ma è la strada più sicura attraverso la quale ogni essere umano può cercare di accedere alla verità. Per questo motivo il filosofo, colui che ama la sapienza, subordinerà ogni “favola religiosa” alla ragione: egli sospenderà il giudizio ove questa non sappia come pronunciarsi (così, ad esempio, fa Sinesio rispetto alla Resurrezione, che egli definisce essere “qualcosa di misterioso e ineffabile”), ma sarà irriducibile davanti ad ogni forma di potere che voglia costringerlo a negare “convinzioni che siano state dimostrate scientificamente”.

    Il contrasto con la chiesa degli episcopi è radicale poiché si tratta di definire quale sia il principio di autorità cui fare riferimento: la rivelazione nei canoni imposta da quanti detengono il potere ecclesiastico, oppure la ragione nel suo esercizio libero che è sempre sottoposta a verifica dell’esperienza e da una comunità scientifca che si fa garante del rigore e dell’attendibilità di chi sia disposto al cammino faticoso della ricerca e del pensiero.
    Bregman, giustamente, ricorda che la filosofia insegnata da Ipazia aveva un’istanza fortemente mistica e religiosa:

    “Le opere di Ipazia sembrano essere strettamente scientifiche e matematiche. Tuttavia è indubbio che ella avesse interessi religiosi: insegnò materie quali l’astronomia e la geometria nel contesto di una visione neoplatonica dell’universo. È necessario ricordare che nel neoplatonismo anche le questioni più razionali sono radicate in una realtà totalmente mistica”.

    Questo rapporto particolare tra lo studio delle scienze matematiche e la ricerca di Dio è ben delineato nello scritto del 399 che Sinesio indirizzò all’amico di Costantinopoli, Peonio, con l’esplicito desiderio di “ravvivare le astronomiche scintille insite nel tuo animo facendole salire verso l’alto grazie alla stessa forza che c’è in te”.

    “L’astronomia è di per sé stessa una scienza di alta dignità, ma può forse servire da ascesa a qualcosa di più alto, da tramite opportuno, a mio avviso, verso l’ineffabile teologia, giacché il beato corpo del cielo ha sotto di sé la materia e il suo moto sembra ai sommi filosofi essere un’imitazione dell’intelletto. Essa procede alle sue dimostrazioni in materia indiscutibile e si serve dell’aiuto della geometria e dell’aritmetica, che non sarebbe disdicevole chiamare retto canone di verità”.

    L’astronomia, che nelle sue applicazioni mette a frutto metodi e risultati diversi dalla geometria e dall’aritmetica, è il punto di passaggio per ciò che non è visibile né dicibile per l’ineffabile teologia.
    L’associazione tra astronomia e canone di verità ci riconduce, in primo luogo, all’obiezione di Sinesio rispetto all’ortodossia cattolica, alla sua insistenza sul fatto che egli non potrà mai sentirsi costretto a negare “convinzioni che siano state dimostrate scientificamente” e, quindi, alla scelta di Ipazia di dare ad una sua opera il titolo di Canone astronomico.

    Il termine “canone” richiama una tradizione filosofica che indicava il criterio in base al quale regolarsi per giungere alla consocenza del vero e soprattutto del bene. L’espressione “canone di verità”, accanto a quella propriamente cristiana di “canone di fede”, si trova già nei primi secoli dell’era cristiana quando l’uso proprio si afferma ad Alessandria con Filone e Clemente Alessandrino.
    Ad Alessandria, a partire dal IV secolo, l’espressione “canone di fede” comincia ad indicare l’insieme dei testi del Nuovo Testamento da ritenere autentici e fonti della verità rivelata.
    Con questo significato l’espressione viene usata d’ora in poi per contrapporre questo canone alla libertà con cui procedevano nelle loro affermazioni i filosofi pagani.

    Quando tracciava una nuova mappa del cielo, Ipazia stava indicando una nuova traiettoria per mezzo della quale gli uomini e le donne del suo tempo potevano imparare ad orientarsi sulla terra e dalla terra al cielo, e viceversa, senza soluzioni di continuità e senza bisogno della mediazione del potere ecclesiastico.
    Ipazia insegnava ad entrare dentro di sé (l’intelletto) guardando fuori (la volta stellata) e mostrava come procedere in questo cammino con il rigore proprio della geometria e dell’aritmetica che, tenute l’una insieme all’altra, costituivano l’inflessibile canone di verità.
    Nel segmento di retta così costituito, era possibile cogliere l’intersezione, altrimenti ineffabile, tra umano e divino, comune a persone appartenenti a popoli, credi e culture diverse.
    Questa congiunzione esclude qualsiasi forma di potere che pretende di imporre agli esseri umani delle realtà non sono appoggiate ed esplicitate dal giusto canone di verità.

    Nota 1. In greco significa “formazione” o “educazione”; denotava il modello pedagogico in vigore ad Atene nel V sec. a. C., e si riferiva non solo all’educazione scolastica dei fanciulli, ma anche al loro sviluppo etico e spirituale, formando così il cittadino perfetto. Era una forma elevata di cultura permettendo agli uomini di essere inseriti in maniera armonica nel contesto sociale di riferimento.

    Laura Brunelli

    Bioeticista

    Collaboratrice redazionale di Lavoro e Salute

    Articolo pubblicato sul numero di aprile http://www.lavoroesalute.org/

    Tags: CULTURA diritti delle donne Discriminazioni donne e scienza femminicidio femminismo gerarchia sociale Ipazia Laura Brunelli Lavoro e Salute patriarcato SCIENZA violenza contro le donne
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    Autore: franco.cilenti
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