Un altro genere di forza

Pubblichiamo alcune pagine del capitolo finale del testo, straordinariamente attuale, di Rosella Simone, Quando caddero le stelle rosse. Viaggio negli ultimi giorni delle repubbliche socialiste, uscito da poco per Milieu Edizioni. Con fotografie di Simonetta Massaia Lamberti. “Nel tempo e nei luoghi dove le stelle rosse cadevano una a una, due donne occidentali, femministe e con una storia di militanza extraparlamentare, viaggiano, guardano, empatizzano, si mettono in gioco” (dall’introduzione di Clelia Pallotta).

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Che il Novecento non fosse un secolo breve, con buona pace di Eric J. Hobsbowan, avremmo dovuto saperlo ma all’Occidente piaceva pensare che con la fine del bipolarismo si potesse speculare in pace sul resto del mondo. Dal 1962 di Cuba (quando il “buon” presidente John F. Kennedy era pronto a scatenare la guerra mondiale perché non voleva che la superpotenza antagonista di allora, l’Urss, sistemasse missili a 144 miglia dalle coste Usa e Chruščëv fece fare marcia indietro alle navi sovietiche), la terza guerra mondiale è dilagata in tutto il pianeta insieme ai missili Usa (o della Nato) e a “guerre” ipocritamente chiamate “umanitarie”.

Dall’occupazione della piccola isola di Grenada o dell’Iraq al bombardamento di Belgrado, dallo sfascio della Libia con l’esibizione sulla pubblica piazza digitale della lapidazione del presidente in carica, Gheddafi, alla Somalia, consegnata ai signori della guerra e alle scorie velenose che gli abbiamo rifilato, per non parlare del Mali, dello Yemen, della Siria, dell’Afghanistan e della Palestina – senza dimenticare Salvador Allende e El Salvador -, la Nato (ma sarebbe più giusto parlare di Usa e dei suoi potenti gruppi finanziari e industriali) sta spargendo missili su tutti i confini della Russia, non più sovietica ma possibile alleata di Pechino.

Poiché dal bipolarismo siamo passati al multipolarismo e si deve ridefinire chi sarà il padrone del pianeta, il presidente russo Vladimir Putin diventa “Vlad the mad”, il pazzo che sfida la Nato e non vuole i missili offensivi intorno ai confini terrestri a ovest del territorio russo, anche se avrebbe le sue ragioni, viste le innumerevoli basi militari Usa disseminate ininterrottamente dalla Finlandia al Kirghisistan.

E viene anche da chiedersi perché il Donbass abbia meno diritto all’indipendenza del Kosovo o perché, secondo Zelensky, non possa parlare la propria lingua madre, che è il russo. E anche se, quando la Cina occupava il Tibet e a Mosca si preferiva supportare Eltsin e la sua banda di ladroni piuttosto che Gorbaciov troppo poco ladro, non sarebbe stato più dignitoso puntare sulla costruzione di aree di neutralità ai confini delle grandi potenze, tutte troppo avide, invece di cercare di umiliarle. Sarebbe stato un tentativo sano di civiltà, l’inizio di un processo globale per deporre le armi, anche quelle economiche, finanziarie e di comunicazione.

Che importa a chi muore se ad ucciderlo saranno missili russi o nordamericani o di chiunque altro? Che differenza fa quando una bomba atomica brucia un territorio per mille anni se a sganciarla sono stati aerei russi o statunitensi o francesi? Che importa a chi non ha il pane se ad affamarlo sono i russi o gli americani?

Come si fa a credere che un paese di 40 milioni di persone possa essere assoggettato senza scatenare resistenza armata o che mandando armi non letali (come se le armi non fossero tutte letali) non si scateneranno i signori della guerra? Come si fa a pensare di destabilizzare un paese grande come la Russia e non tremare per quei popoli?

Cosa si potrà dire alle madri, di qua e di là del confine, per quei giovani morti per salvare il discutibile onore offeso di Vladimir Putin e della Grande Russia? Quanto durerà la capacità di cura dell’Occidente quando le donne ucraine torneranno sfinite alle loro case distrutte?

E come fanno le voci parlanti dei media occidentali a guardarsi allo specchio, ci sia o no la guerra mondiale, dopo che hanno sbandato di qua e di là, a comando delle necessità della propaganda? Più realisti del re, più militaristi dei militari. Con i ricettori disattivati per non ascoltare Cassandra che, testarda, insiste a ricordare che una volta deflagrata la guerra totale non importerà più a nessuno indagare su chi aveva ragione e chi torto. Media più schierati che in Russia, dove almeno qualcuno, con vero coraggio, prende le distanze dalla propaganda di regime. Tutti o quasi impegnati a commuoversi per la nostra generosità e a confermare che l’Occidente è buono e ha sempre ragione. Invece di scavare nei fatti.

A chi importa di quei ragazzi mandati a morire da una parte e dall’altra, importante è vincere e stabilire chi ha il diritto all’uso della forza.

Non si può seminare violenza e chiedere pace, e questo vale per tutte le parti in causa, a incominciare dall’Europa che quando era potente ha solo fatto danni e adesso è una vassalla servile di un Occidente al disastro, guidato da un paese come gli Stati uniti d’America allo sbando economico, sociale, politico ed etico.

Ma dopo aver vomitato i resti del Novecento, intossicato di patriarcato, che infettano mente e cuori come un cibo andato a male, di tutte queste considerazione non resta niente che possa tornare utile a chi muore, o ai destini del mondo. Per fare qualcosa di sano in un pianeta uso alla violenza bisogna dare ascolto a voci non infestate dalle scorie del passato, a voci di donne. Bisogna saper guardare le stelle in cielo e il verde dei boschi, avere occhi non contaminati da ideologie corrose e corrotte.

Abbiamo bisogno di un’utopia, di un buon posto dove andare, e per farlo dobbiamo lasciar andare, senza rimpianti, il Novecento. È l’idea stesso di Stato che produce i confini e la guerra, che uccide e fa morire. Per questo, e per quel poco che vale, questo libro finisce con le parole di quattro donne che nel 1989 erano venute al mondo da poco o non erano ancora nate e che di muri non ne vogliono sapere chiunque sia a costruirli. Donne determinate come Medea, impegnate, in questi tempi di caos estremo, a costruire comunità e difenderle.

Quelle ragazze [che hanno scritto ciascuna una breve lettura del testo di Rosella Simone, a chiusura del volume, ndr] si chiamano Giulia Bausano, Isa Cardinali, Gaia De Luca, Cristiana Gallinoni. Ci siamo incontrate in un cerchio di donne nel segno di Jineologji la scienza della rivoluzione che ci hanno donato le donne curde, paradigma e metodo per scardinare il patriarcato dentro e fuori di noi ed esplorare la possibilità di una nuova società che esprima un’etica e un’estetica altra dal modello patriarcale liberista. Chi siamo? Lo diciamo con le parole di un messaggio delle nostre amiche e compagne impegnate a tessere una nuova storia ci hanno mandato dal Rojava:

“Siamo donne libere. Siamo guerriere curde. Siamo le bande “gulabi” di donne indie. Siamo le partigiane che lottano contro il fascismo. Siamo le madri che resistono. Siamo la natura, quella che ci ama. Siamo le donne rivoluzionarie di prima e di adesso. Siamo le donne sagge, bruciate al rogo, che risorgono nella fiamma. Oggi celebriamo la nostra identità: l’eredità della lotta nel mondo”

Jin Jian Azadi, Donna, vita, libertà

Rosella Simone

23/4/2022 http://effimera.org

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