Abya Yala, Claudia Korol:“Il femminismo popolare condanna il colonialismo dell’Open Society nell’attivismo di genere”

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Sebbene in Occidente il miliardario George Soros sia bene visto per la sua “generosa beneficenza”, per le sue donazioni nella difesa dei diritti umani e per i diritti delle donne. Questa però e solo una concezione occidentale, nonché neoliberale, nel concepire l’attivismo per i diritti umani che sta dando sempre più adito a forme di filantrocapitalismo. I movimenti femministi popolari, socialisti e internazionalisti dell’America Latina da anni criticano questo modo coloniale e imperialista di fare attivismo da parte di magnati miliardari occidentali che hanno responsabilità strutturali nell’attuale modello di sviluppo capitalista, nell’imperialismo USA e nella violazione della sovranità degli Stati.

Per il femminismo popolare, indigeno, comunitario, nero, afro-discendente, migrante, delle lavoratrici, la lotta contro la violenza di genere non si può risolvere solamente con un sistema di allerte o di rifugi, che omettono la necessità di trasformazioni strutturali che assicurino alle donne del popolo e alle dissidenze del eteropatriarcato tutti i diritti” – aveva affermato in un’intervista a Granma, Claudia Korol, giornalista argentina, educatrice popolare, ecologista, femminista, marxista, anticolonialista. Claudia Korol è coordinatrice, autrice di preziosi libri sul tema del femminismo indigeno e dell’educazione e della comunicazione popolari e fa parte della rete delle femministe Abya Yala (1) e del Bandauelos en Rebeldìa Popular Education Team, oltre a condurre il programma radiofonico Aprendiendo a Volar e, insieme a Liliana Daunes il programma Espejos Still.

È proprio lei a spiegare la “grande differenza tra femminismi liberali e femminismi popolari”: se i primi credono nelle uscite individuali dalla violenza di genere non cambiando il sistema ma piuttosto integrando le conquiste nel sistema; i secondi credono che non ci possono essere soluzioni reali alle violenze che soffrono le “donne come popolo” senza rivoluzioni anticapitaliste, anticoloniali, anti-patriarcali, antimperialiste, femministe e socialiste. Nei femminismi liberali, le conquiste “diventano privilegi che opprimono altre donne o che si disinteressano dei loro dolori, delle loro lotte, dei loro sforzi di sopravvivenza” – spiegava Korol. La critica femminista e anticoloniale all’Open Society di Soros si insedia proprio nel fatto che questa organizzazione finanzia leader e progetti per capitalizzare la lotta per i diritti delle donne in funzione di un’agenda politica neoliberale conveniente agli interessi degli USA.

Come femministe popolari condanniamo quelle organizzazioni come la Open Society o la Fondazione Rockefeller, e i leaders travestiti da benefattori – come George Soros – perchè li conosciamo come attori di politiche nordamericane che cercano la manipolazione di un attivismo liberale, preferibilmente giovane, di settori che sostengono il discorso della libertà in opposizione alle lotte collettive dei popoli. (…) Sappiamo che questi magnati finanziano l’attivismo per destabilizzare le rivoluzioni come quella a Cuba e che cercano di travestirli da “azioni umanitarie”, dietro le bandiere dei diritti umani e ora delle lotte femministe o ecologiste. (…) Si tratta del tentativo di colonizzazione delle soggettività e specialmente della manipolazione di coloro che irrompono nella lotta politica senza memoria di esperienze precedenti” – aveva affermato Korol.

Le azioni di questi magnati, in Paesi dell’America Latina, tendono a stimolare femminismi liberali ed individualisti di stampo occidentale, distruggendo il lavoro territoriale dei movimenti popolari e delle reti solidali. La critica dei femminismi popolari a queste organizzazioni si colloca nella critica al capitalismo patriarcale e all’estrattivismo, ovvero ogni azione, strategia e volontà politica secondo cui le risorse di un’area vengono predate a favore di altri Paesi, senza curarsi dei danni provocati. Si tratta di un male estremo della globalizzazione neoliberista, una moderna e malcelata forma di colonizzazione. “La memoria storica delle donne del popolo c’insegna: a conoscere come agiscono i nemici e in particolare le agenzie legate all’intelligenza degli USA; a sapere che i diritti umani, i diritti delle donne, delle dissidenze, i diritti della Natura saranno difesi dai popoli in lotta; e che non termineremo né mitigheremo le violenze strutturali senza rivoluzioni anti-patriarcali, anticapitaliste e anticoloniali, perchè questi sono sistemi di sfruttamento, oppressione e dominio, le fonti delle stesse violenze. I femminismi popolari rivendicano le Rivoluzioni che i nostri popoli hanno realizzato in America. Rivoluzioni antischiaviste, indipendentiste, di liberazione nazionale, del buen vivir e socialiste. In questi tempi si apre con molta forza la dimensione femminista di queste rivoluzioni. Sappiamo che in tutti i processi rivoluzionari ci sono imperfezioni, ma questo non giustifica promuovere le controrivoluzioni, le destabilizzazioni, i colpi di Stato. Noi difendiamo le nostre conquiste e quanto è stato creato dai nostri popoli. Siamo parte di questi processi, discutiamo gli aspetti conservatori che coesistono nelle nostre esperienze e lottiamo per modificarli, ma chiudiamo le porte agli interventi dei gringos in qualsiasi delle loro forme”.

Un caso esemplare è quello che succede a Cuba. Il femminismo liberale di stampo controrivoluzionario, insieme a queste organizzazioni, ha indotto in Occidente una visione neocoloniale secondo cui le donne a Cuba sono totalmente impotenti di fronte a uno scenario di violenza incontrollata e impunità, per seminare l’opinione che siamo di fronte al fallimento del socialismo cubano. La violenza di genere è stata una delle questioni più manipolate per influenzare l’opinione pubblica neoliberale dentro e fuori l’isola a tal punto che viene usata strumentalmente da personalità della mafia anti-cubana di Miami e organizzazioni legate alla CIA come cavallo di battaglia. Con questo, cercano di connettersi con certi settori della popolazione cubana che ovviamente possono sentirsi identificati con un tema così sensibile e, allo stesso tempo, cercano di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale su un tema molto significativo nelle agende del dibattito pubblico, inducendo pregiudizi sulla società cubana.

Lo sviluppo di attivismi di genere di stampo neoliberale a Cuba, finanziati anche dall’Open Society di Soros, ha la funzione di cancellare dalla storia le conquiste del femminismo rivoluzionario cubano e delle donne cubane. Essi sensazionalizzano i casi di violenza e non considerano un approccio storico e sistemico, relativizzando le conquiste del socialismo cubano in termini di uguaglianza, diritti e garanzie di sicurezza per le donne. In questo senso, più che una posizione critica, si tratta di propaganda politica attraverso l’uso della retorica liberale.

Uno degli obiettivi è equiparare, in modo decontestualizzato, la situazione delle donne cubane a quella di altri Paesi occidentali senza considerare le condizioni storico-sociali, inducendo a copiare o importare modelli di lotta occidentali. Il fine è ignorare l’impegno della Federazione delle Donne Cubane, che da sempre porta avanti un solido esercizio di autocritica della situazione del Paese in termini di uguaglianza di genere, prendendo come punto di riferimento le esperienze di altre nazioni e la tradizione di lavoro di molti leader, ricercatori e accademici. Cuba non è il primo paese in cui la nascita di certi attivismi di genere, come ha denunciato la filosofa femminista Nancy Fraser, sono funzionali al neoliberismo.

Abbiamo bisogno di un femminismo che si preoccupi di eliminare ogni forma di violenza contro le donne, quindi un femminismo anticapitalista contro lo sfruttamento di classe; un femminismo che riconosca il socialismo come condizione di possibilità di maggiori diritti, comprese le donne. Un femminismo decolonizzante, popolare, dal basso e a sinistra, che riconosca senza manipolazioni o relativizzazioni il pesante fardello che le donne del cosiddetto “Terzo Mondo” portano con sé e che non ha alcun bisogno di essere salvato dal femminismo bianco liberale.

NOTE

1 Abya Yala è il nome con cui i movimenti per i diritti dei popoli indigeni delle Americhe si riferiscono al continente americano, in sostituzione della sua intitolazione ad Amerigo Vespucci scelta nel 1507 dal cartografo tedesco Martin Waldseemüller.

  • https://www.dwf.it/rivista/planetaria-femminismi-internazionali-planetaria-international-feminisms-dwf-129-130-2021-1-2/
  • https://www.unive.it/pag/fileadmin/user_upload/dipartimenti/DSLCC/documenti/DEP/numeri/n34/17_Korol_modello.pdf
  • https://italiacuba.it/2021/11/13/il-socialismo-come-condizione-per-maggiori-diritti-a-cuba/
  • https://www.youtube.com/watch?v=GXNPDOXaXxI

Lorenzo Poli

Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute

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