Alle radici dell’economia politica dei bassi salari e della migrazione di massa. Il mondo post-1973

Con il magnifico e appassionante libro War, work, and want. How the OPEC oil crisis caused mass migration and revolution, Oxford University Press, New York 2023 (Guerra, lavoro e bisogni/desideri. Come la crisi petrolifera dell’OPEC ha provocato migrazioni di massa e rivoluzioni), Randall Hansen1 ha ricostruito in modo coerente e puntuale la storia globale dell’ultimo mezzo secolo.

La sua tesi, corroborata dal rigore della ricerca storica e dal lavoro condotto sul campo, è che lo shock petrolifero del 1973 – determinato dal drastico aumento del prezzo (+67%) e dalla riduzione della produzione di petrolio (-5% al mese) da parte dell’OPEC immediatamente dopo la sconfitta militare dei Paesi arabi nella guerra dello Yom Kippur contro Israele2 – ha cambiato tutto, economia e geopolitica globale, e ha creato un mondo capitalistico dipendente dai bassi salari e dalla migrazione interna e internazionale di massa (triplicata dopo il 1970), che sono diventati sostituti del petrolio a basso prezzo. È un libro sulle logiche di funzionamento e sulle articolazioni territoriali dei processi strutturali della “lunga durata” storica che rimodella la nostra comprensione degli ultimi 50 anni di storia globale.

La quadruplicazione dei prezzi del petrolio (tra la fine del 1973 e la prima metà del 1974) e l’inflazione che ne è derivata (trasformatasi presto in stagflazione) hanno distrutto la crescita economica in Occidente3, inondando al contempo il Medio Oriente con i petrodollari. Lo shock petrolifero ha posto fine all’età dell’oro della crescita economica americana ed europea (“i trenta anni gloriosi”) che si è basata su un’ampia e crescente disponibilità di energia fossile a basso costo. Ha dimezzato i tassi annuali di crescita in Occidente (quelli del 5-7% degli anni ’50 e ’60 non sono mai più ritornati) e i salari sono rimasti stagnanti per cinquant’anni. Ha spinto il capitalismo occidentale in una spirale di bassi salari-bassi prezzi che ha reso la vita più economica per le classi alte e medie perché queste hanno ricostruito il loro tenore di vita sulle spalle di una classe lavoratrice interna a basso costo e di lavoratori migranti sfruttati in patria e all’estero (per cui Walmart e Amazon, le due guerre in Iraq, i Talebani, la distruzione di sindacati e movimenti operai euro-americani e i flussi della migrazione interna e internazionale di massa sono fenomeni tutti collegati tra loro).

La mossa dell’OPEC4 inoltre, ha inondato il Medio Oriente, la Russia e l’Iran con i proventi del petrolio, contribuendo a destabilizzare la politica mediorientale. La regione mediorientale ha goduto dei benefici di uno storico trasferimento di ricchezza, ma il petrolio è diventato un calice avvelenato che ha portato a instabilità politica, rivoluzioni e guerre, che hanno causato decine di milioni di rifugiati ben oltre la regione, senza che se ne intraveda la fine. L’afflusso di petrodollari ha destabilizzato Teheran, inaugurato la rivoluzione iraniana e contribuito all’invasione dell’Afghanistan da parte di Mosca nel dicembre 1979 e alle due guerre del Golfo. Negli Stati non produttori di petrolio – Egitto, Siria, Libano, Tunisia e Marocco – l’inflazione indotta dall’OPEC ha fatto fallire le strategie di industrializzazione sostitutiva delle importazioni, ha forzato una svolta dal socialismo (nasserismo e bahatismo) verso il neoliberismo e ha portato a disuguaglianze, proteste di massa e, infine, guerre civili5.

Ha soprattutto innescato processi che hanno portato oltre 280 milioni di persone a migrare, con oltre 100 milioni di immigrati inattesi e indesiderati nei Paesi del nord del mondo6. L’opinione pubblica in Europa, Nord America e Asia si oppone all’immigrazione, e gli eventi dei primi anni ’70 – la fine del boom del dopoguerra, le politiche migratorie restrittive in Europa e America7 – avrebbero dovuto portare a una stagnazione o a un calo dei flussi migratori. Invece, la migrazione globale è triplicata in termini assoluti, arrivando ad investire il 3,6% della popolazione mondiale nel 2020.

La migrazione è quindi diventata un fenomeno strettamente connesso con gli sviluppi più trasformativi degli ultimi cinquant’anni, tra cui la stagnazione dei salari, l’aumento delle disuguaglianze, le guerre, le rivoluzioni e il terrore jihadista. Ha trasformato la politica globale e interna, alimentando la crescita di partiti nazionalisti-populisti che hanno costruito le loro fortune politiche (e il loro arrivo al governo in Austria, Danimarca, Italia, Svezia, Stati Uniti e in altri Paesi) incolpando gli immigrati per il crollo del tenore di vita e la “sostituzione etnica” degli autoctoni, ignorando volontariamente il fatto che l’immigrazione di massa è stata l’effetto, non la causa, della crisi che è stata determinata dall’adozione di un modello di business basato sui bassi salari.

Hansen offre un’argomentazione abile e ricca di informazioni (e di riferimenti bibliografici organizzati in ben 84 pagine di note) sulle conseguenze destabilizzanti delle guerre (il principale motore dei flussi di rifugiati, ossia di migranti forzati, che in molti Paesi finiscono per diventare una componente rilevante della forza lavoro di riserva a basso costo), delle condizioni di lavoro (i lavoratori migranti), dei bisogni (il desiderio di prodotti sempre più economici realizzati dai migranti) e dei cambiamenti nelle politiche governative, nonché sulla ricorrente ostilità nei confronti dei nuovi arrivati. Non perde mai di vista l’impatto sulle generazioni successive che hanno lavorato per bassi salari nell’economia globalizzata.

 La spirale dei bassi salari e il lavoro dei migranti

Centrale nel libro di Hansen è la ricostruzione e l’analisi dettagliata della spirale dei bassi salari che ha investito il capitalismo globale negli ultimi 50 anni. Il dimezzamento della crescita economica dopo il 1973 ha colpito le imprese statunitensi proprio quando dovevano fronteggiare la crescente concorrenza internazionale da parte di quelle europee (in particolare, di Germania e Italia), del Giappone e delle Quattro Tigri Asiatiche (Hong Kong, Singapore, Corea del Sud e Taiwan). Hanno risposto adottando tre strategie:

  1. il capitale ha seguito il lavoro: le imprese hanno spostato la produzione industriale (le fabbriche) dagli alti salari e alti costi di Europa occidentale e USA ai bassi salari e bassi costi di Asia, Europa orientale e America Latina, innescando il processo di globalizzazione produttiva basato sulle piattaforme per l’esportazione (spesso in Zone Economiche Speciali, finanziate da denaro pubblico, che sono dei paradisi fiscali perché non si pagano tasse);
  2. hanno automatizzato/digitalizzato la produzione domestica, eliminando milioni di lavoratori;
  3. hanno bloccato e spinto verso il basso salari e benefits (come assistenza sanitaria e piani pensionistici) soprattutto per i lavoratori poco qualificati (senza una laurea e soprattutto senza un diploma di scuola secondaria superiore). Negli Stati Uniti, ad esempio, il salario minimo federale era più basso del 45% in valore reale nel 2022 rispetto al 1969.

I sindacati rappresentavano un ostacolo all’implementazione di queste strategie. Negli Stati Uniti, il governo, le imprese, i loro avvocati e consulenti manageriali e del lavoro li hanno fatti a pezzi. In Europa, con l’eccezione parziale del Regno Unito, la sindacalizzazione è rimasta più elevata, ma le imprese li hanno bypassati attraverso l’uso massiccio di subforniture e lavoro sommerso (come nella “Terza Italia” dei distretti industriali), e ottenendo “concessioni” contrattuali attraverso il ricatto del licenziamento e della chiusura degli impianti. Dal 1980 i sindacati hanno visto scomparire 20 milioni di posti di lavoro sindacalizzati nei Paesi OCSE (ma solo 6,7 milioni come conseguenza di perdita di posti di lavoro). Negli Stati Uniti, il tasso di sindacalizzazione è crollato dal 35% nel 1955 al 25% nel 1975, al 20,1% nel 1983, al 10,3% nel 2019 (solo il 6,2% nel settore privato e il 33,6% in quello pubblico).

Le condizioni di lavoro hanno seguito i salari verso il basso: lunghe ore per un duro lavoro (turni diurni, notturni e festivi, straordinari spesso non pagati, doppi e tripli lavori, “doppio reddito familiare”), pochi se nulli benefici (assistenza sanitaria e piani pensionistici), e nessuna sicurezza nella durata del contratto di lavoro (lavoro part-time, precario, con contratti interinali e a tempo determinato, gig jobs, ecc.). Via via che salari e condizioni di lavoro sono deteriorati, hanno raggiunto un livello che la gran parte degli europei e statunitensi nativi non erano più disponibili ad accettare. I lavoratori nativi sono usciti dai settori con salari depressi per migliori occupazioni (formandosi) o per affidarsi al sostegno di lunga durata degli ammortizzatori sociali e, troppo spesso, all’abuso di sostanze e alcol. Allora le imprese hanno fatto ricorso ai migranti poco qualificati, legali e clandestini, per colmare il divario di forza lavoro. Hansen documenta come la necessità di una riserva di lavoro a buon mercato e disponibile spiega la sovra rappresentazione di migranti in sei settori economici centrali nella vita economica contemporanea: commercio (GDO, ristorazione delle catene fast food e logistica), macellazione e trasformazione della carne (in cui dominano pochi giganti globali: Tyson Foods, Cargill Meat Solutions, JBS, National Beef, Smithfield Foods, Hornel Foods, Perdue Farms, Pilgrim’s Pride, Tönnies Group, Vion Food, Danish Crown, Westfleisch), agricoltura, edilizia, lavoro domestico (oltre al 75% fornito da donne), e tessile/abbigliamento/calzaturiero. In ogni settore, eccetto quello del lavoro domestico, le imprese hanno distrutto o aggirato i sindacati che si opponevano alla loro strategia di basso salario, a volte con l’aiuto dello Stato.

Gli Stati Uniti e gli altri Paesi del nord globale con le loro rapaci multinazionali non sono stati gli unici a perseguire una strategia basata su basso salario e sostituzione del lavoro locale con quello migrante. Gli stessi meccanismi sono stati utilizzati nel sud globale. Nelle prime fasi dello spostamento delle produzioni industriali all’estero, le imprese in Tailandia, Malesia, Bangladesh, Vietnam, Filippine, Turchia o Isole Maurizio hanno costruito attività industriali sul lavoro locale – migranti interni poco pagati che si spostavano dalle campagne alle fabbriche. Ma man mano che i lavoratori locali hanno acquisito competenze e sono usciti dai settori manifatturieri a basso valore aggiunto per quelli a medio valore aggiunto (componenti per settore auto, aeronautico, radio e televisione) e ad alto valore aggiunto (cellulari, software, farmaci), e man mano che i salari sono aumentati complessivamente con la crescente ricchezza nazionale, i cittadini non erano più disponibili a lavorare per salari di sussistenza. Come in Europa e Nord America precedentemente, le imprese hanno dovuto scegliere tra spostare la produzione in un luogo a più bassi salari e trovare dei lavoratori più a buon mercato. Hanno fatto entrambe le cose. Alcune imprese si sono spostate dal Giappone alla Tailandia e poi dalla Tailandia al Vietnam o la Cambogia. Ma altre – o altre divisioni delle stesse imprese – hanno perseguito la loro strategia del basso salario facendo arrivare migranti da quegli stessi Paesi più poveri dove le imprese si stavano rilocalizzando. Le imprese di Hong Kong, Tailandia, Singapore e Malesia hanno tutte perseguito questa strategia, e tutti questi Paesi/città Stati ora dipendono dalla migrazione poco qualificata per il loro successo economico. I due Paesi asiatici ad elevata crescita e dipendenti dai bassi salari – Cina e India – fanno affidamento sui migranti interni (passati in Cina da 18 milioni nel 1990 a 286,5 milioni nel 2018, circa il 20,6% della popolazione) che svolgono una funzione simile di riserva di lavoro a buon mercato disponibile (in edilizia, produzione industriale e servizi).

Le multinazionali sono stati degli attori chiave di questo processo di riorganizzazione della produzione agricola e industriale su scala globale. Hanno applicato queste strategie per fare profitto e per evitare di fallire. Se non l’avessero fatto, infatti, i compratori dei loro prodotti si sarebbero rivolti ad altri fornitori. In questi anni, grazie al declino dell’applicazione della legislazione antitrust, le catene dei rivenditori commerciali e dei supermercati si sono enormemente concentrate, hanno acquisito una leva massiccia sui produttori, e possono dire ai fornitori di abbigliamento, carne, pesce, frutta e verdure che hanno bisogno di una determinata quantità in un determinato giorno ad un determinato prezzo.

In agricoltura, macellazione e lavorazione della carne, e abbigliamento, settori in cui dominano imprese di grandi dimensioni, grandi distributori come Walmart, Amazon e le maggiori catene di fast food e della grande distribuzione organizzata (GDO) e dei supermercati nordamericani ed europei hanno il potere contrattuale (di mercato) per imporre una insormontabile pressione sui prezzi (e margini), che i produttori cercano di recuperare attraverso bassi salari pagati nell’ambito dell’intera supply chain8. Nel settore dell’edilizia europea, in cui le piccole imprese dominano (una foresta di appaltatori e subappaltatori), le agenzie private di mediazione del lavoro forniscono alle imprese una continua offerta di lavoratori migranti non sindacalizzati, grazie ad una direttiva della Commissione Europea, pagati meno dei lavoratori nazionali e forzati a lavorare in condizioni spaventose9. Negli Stati Uniti, dove i sindacati sono più deboli, le imprese reclutano da sole i lavoratori, pagando meno e, nel caso di lavoratori precedentemente iscritti al sindacato, sfruttando i benefici della loro maggiore produttività.

Secondo Hansen, in tutti questi settori, le imprese stanno rispondendo alla richiesta dei consumatori dei ceti medi. La concorrenza spinge verso il basso i prezzi e quindi, i salari, ma è la preferenza dei consumatori che guida la concorrenza. Alla fine, è il desiderio dei consumatori per vacanze, cibo, abbigliamento, elettronica, pulizie e assistenza alla persona (caregivers) a basso prezzo che spinge le imprese a soddisfare questa domanda. L’unica eccezione è la costruzione di case, e qui – perché la casa è sia un bene di consumo sia un bene patrimoniale (elemento essenziale del cosiddetto “American dream”, il sogno americano) – le classi medie e alte hanno un interesse finanziario nei prezzi in continuo aumento (discorso analogo può essere fatto per i prezzi degli asset finanziari come azioni e obbligazioni).

In alcuni settori, la più elevata produttività – spesso ottenuta attraverso l’automazione/digitalizzazione – porta a più bassi prezzi di prodotti e servizi, sebbene l’automazione/digitalizzazione comporta una più alta disoccupazione e la scomparsa di posti di lavoro in interi settori. Pertanto l’occupazione industriale è crollata negli Stati Uniti e in Europa tra il 1960 e il 2014, passando rispettivamente dal 25% al 14% (8,6% nel 2022) e dal 21% al 14%. In molti altri settori, vendere i prodotti e i servizi a prezzi che i consumatori sono disponibili a pagare richiede il pagamento di bassi salari. I consumatori vogliono pagare sempre meno (e idealmente nulla) per avere sempre di più, e mentre i distributori commerciali – tradizionali o online – lottano per soddisfare questa domanda, prezzi e salari scendono ulteriormente. I distributori commerciali, la cinghia di trasmissione per la domanda dei consumatori, dipendono anch’essi direttamente dal lavoro migrante.

Anche lo Stato ha giocato e gioca un ruolo. Negli Stati Uniti, la normativa sulle liberalizzazioni approvata durante l’amministrazione Carter (nei settori dell’autotrasporto, trasporto aereo, trasporto ferroviario, telecomunicazioni e servizio bancario), l’assalto di Ronald Reagan al sindacato dei controllori di volo nel 1981 (con il licenziamento in blocco di oltre 11mila controllori di volo), cinque decenni di indifferenza del governo per la concentrazione dei capitali (ottenuta attraverso l’allentamento dei vincoli normativi e dell’applicazione della legislazione antitrust, favorendo ondate successive di acquisizioni e fusioni), la direttiva della Commissione Europea della metà degli anni ’90 per il “distacco” di lavoratori comunitari in altri Paesi UE, e gli accordi bilaterali e multilaterali free trade (firmati nell’ambito delle regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio), hanno tutti contribuito al collasso dei salari della classe operaia/lavoratrice10. L’inflazione venne definita da governo USA, FED, economisti, accademici, esperti e media come un problema risultante dalla spirale salari-prezzi, una spirale che andava spezzata riducendo e bloccando la crescita dei salari, e riducendo il potere contrattuale dei sindacati. Dagli anni ’70, gli Stati hanno adottato un modo di regolazione neoliberista dell’economia, abbandonando le politiche keynesiane di gestione della domanda, la concertazione trilaterale nazionale (Stato-imprese-sindacati) e l’obiettivo della piena occupazione. Si sono schierati dalla parte del capitale e contro il lavoro, per cui il destino di centinaia di milioni di lavoratori è dipeso da imprese, mercati e consumatori che hanno spinto verso il basso i prezzi spingendo verso il basso i salari. Il welfare state (prodotto politico del compromesso socialdemocratico in Europa e del New Deal rooseveltiano e della Great Society di L. B. Johnson negli Stati Uniti) è stato via via eroso e anche la spesa pubblica per istruzione, sanità, alloggi e trasporti è stata drasticamente tagliata in termini reali. I poveri sono stati colpevolizzati, ritenuti responsabili della loro condizione di deprivazione (in quanto fannulloni opportunisti, deboli di carattere, incapaci di fare le scelte giuste, ecc.) e, pertanto, non meritevoli di essere sostenuti a meno che non dimostrino concretamente di voler cambiare le loro vite attraverso la formazione e il lavoro per bassi salari (working poor).

Mentre i prezzi scendono, si espande il numero dei consumatori sensibili al prezzo. Secondo Hansen, per 50 anni siamo stati in un circolo vizioso. Le imprese hanno risposto alle dislocazioni indotte dal petrolio degli anni ’70 attraverso una massiccia strategia di riduzione salariale. Hanno automatizzato la produzione, esternalizzato altrove settori che potevano essere esternalizzati (come il tessile/abbigliamento) – creando complesse catene di approvvigionamento integrate (supply chains) nelle quali i prodotti attraversano i confini molteplici volte mentre vengono realizzati – e ridotto i salari reali in settori che non potevano delocalizzare (come l’edilizia o le piantagioni agricole). Quando i salari sono scesi sotto il livello per il quale i locali erano pronti a lavorare, le imprese hanno fatto arrivare lavoratori migranti per svolgere compiti poco attraenti per bassi salari, spesso in condizioni di lavoro malsane e pericolose. Questi lavoratori, dopo aver inviato le rimesse a casa e/o pagato trattenute illegali, avevano poco reddito disponibile11. Essi, insieme ai lavoratori locali a basso salario e ai disoccupati, hanno generato una maggiore domanda di prodotti economici forniti da negozi discount come Walmart e di alimenti malsani trasformati, surgelati e fast food, che potevano essere prodotti in modo competitivo solo attraverso lavori a basso salario.

Un circolo vizioso che, secondo Hansen, ha prodotto due soli vincitori:

  1. un ristretto numero di capitalisti, i quali hanno accumulato profitti enormi grazie a grandi volumi di vendita (anche se spesso con bassi margini), e una ristretta classe di CEO (amministratori delegati) e top manager estremamente ben pagati (insieme costituiscono il top 1% dei percettori di reddito);
  2. le classi medie con alti livelli di istruzione (con redditi familiari tra i $ 53mila e i $ 106mila) e le classi ad alto reddito (con redditi familiari tra i $ 106mila e i $ 374mila). Persone che hanno posti di lavoro ben pagati nei settori dei servizi professionali di alto livello (finanza, avvocatura, medicina, compravendita immobiliare, istruzione universitaria).

Insieme questi due tipi di vincitori costituiscono il top 10% dei percettori di reddito e a loro sono state diminuite le tasse (a cominciare da quelle di successione) negli ultimi 50 anni. Negli Stati Uniti, c’è stata una riduzione dell’aliquota fiscale marginale più alta dall’80-90% negli anni ’60 al 37% di oggi (una vera e propria ridistribuzione di reddito ai ricchi). Simili riduzioni sono avvenute in quasi tutti i Paesi dell’Unione Europea.

Sebbene i salari del ceto medio siano stati stagnanti, i prezzi reali dei beni (dal cibo ai mobili, agli attrezzi sportivi e all’abbigliamento) e servizi (viaggi, turismo e caregiving) sono diminuiti, spesso in modo drastico, dagli anni ’70. E i prezzi sono scesi in parte perché il costo del lavoro per produrre beni e servizi è crollato, grazie al collasso dei salari del lavoro poco qualificato. In tutto il mondo, i consumatori delle classi medie e alte si godono il loro standard di vita (dal punto di vista dei consumi), nonostante decenni di salari stagnanti, sulle spalle del lavoro dequalificato e migrante a buon mercato e sfruttato12.

Un ulteriore aspetto che Hansen analizza è quello dell’indebitamento personale e familiare (soprattutto in relazione all’acquisto della casa) che a partire dagli anni ’70 ha consentito alla classe media, nonostante la stagnazione dei salari, di continuare a costruire la propria ricchezza e finanziare il consumo. Hansen nota che: “i lavoratori hanno scambiato la loro tessera sindacale degli anni ’70 con la carta di credito negli anni ’80”. Il passaggio dall’acquisizione di ricchezza guidata dal risparmio all’inflazione degli asset finanziari guidata dal debito ormai pervade ogni dimensione della vita del ceto medio, nonostante la crisi finanziaria globale innestata dal crollo del mercato dei mutui subprime cartolarizzati del 2008-2009, nel corso della quale milioni di famiglie americane hanno perso le loro case13. Oggi, oltre il 40% dei lavoratori americani a tempo pieno vive del solo stipendio (“from paycheck to paycheck”) e il 50% si trova ad affrontare una certa misura di debito14. Se non si interviene politicamente per ridurre la stagnazione salariale e le disuguaglianze, il consumo delle classi medie e lavoratrici dipenderà sempre più solo dal debito privato, mentre il risparmio dei ricchi verrà sempre più impiegato nella speculazione finanziaria per generare rendita piuttosto che espansione della produzione di servizi e beni di consumo e durevoli.

I perdenti sono stati i lavoratori industriali poco qualificati, un tempo ad alto reddito, i proprietari e lavoratori di piccole attività commerciali, gli artigiani e i lavoratori agricoli e alimentari a reddito medio, che hanno visto i loro salari e le loro prospettive crollare, portando con sé intere comunità locali che dipendevano da posti di lavoro sindacalizzati ben pagati.

 Effetti economici e politici in Medio Oriente

Hansen, quindi, sostiene che la dipendenza dal lavoro povero spiega la crescita accelerata nella migrazione di lavoratori poco dopo il 1973. La crisi petrolifera ha portato ad un cambiamento economico che ha generato, in modo meno diretto e più complicato, la migrazione di massa. Di colpo, la rivalutazione dei prezzi del petrolio ha ridistribuito una immensa ricchezza dai Paesi occidentali agli Stati produttori di petrolio, soprattutto nel Golfo Persico. Questo trasferimento ha avuto drammatici effetti economici e politici. Nei Paesi petroliferi, l’improvvisa crescita della ricchezza nazionale ha comportato una intensa domanda di lavoro che poteva essere colmata solo attraverso una migrazione di grandi dimensioni15. Mentre i migranti arabi e asiatici si sono spostati nel Golfo, principalmente nel Regno dell’Arabia Saudita, per lavorare (come lavoratori di edilizia/costruzioni, estrazione petrolifera, infermieri, cuochi, autisti, personale amministrativo e domestico, ecc.) nell’ambito di ambiziosi programmi di modernizzazione economica, sono entrati in società fortemente conservatrici nelle quali lo Stato sosteneva strumentalmente una rigida versione dell’Islam (il wahhabismo o salafismo). Questi migranti hanno ricevuto, loro malgrado, un’educazione al fondamentalismo e all’estremismo e alcuni di loro sono tornati in Pakistan, Egitto e altrove con simpatie islamiste radicali.

Allo stesso tempo, la rapida crescita del prezzo del petrolio ha sconvolto la politica nazionale in tutto il Medio Oriente. Il 1979 è stato l’anno chiave: da allora sono state combattute sei guerre – la guerra Iran-Iraq, l’invasione Sovietica dell’Afghanistan, la prima guerra del Golfo, la seconda guerra del Golfo, l’attacco alla Libia del 2011 e la guerra civile siriana – che sono state responsabili dei maggiori movimenti forzati di popolazione dalla seconda guerra mondiale (con la fuga o l’espulsione di decine di milioni di persone).

Il denaro derivante dal petrolio dopo il 1973 aveva consentito allo Scià dell’Iran di accelerare un drastico programma di modernizzazione economica del Paese che, combinato con una forte spinta alla secolarizzazione e un’intensificata repressione politica, creò le condizioni per il suo rovesciamento nel 1979 da parte di una composita coalizione di forze di opposizione egemonizzata dall’ayatollah Khomeini e dai “mullah” (il prezzo del petrolio aumentò di nuovo drasticamente in conseguenza della rivoluzione iraniana, da $ 17,50 in gennaio a $ 40 a novembre). Nello stesso anno, Mosca, timorosa della minaccia posta dalla instabilità afgana ai rifornimenti di gas naturale a basso prezzo, si è sentita sufficientemente incoraggiata dalla sua ricchezza petrolifera da lanciare un’invasione dell’Afghanistan a sostegno del regime fantoccio comunista. E ancora nel 1979, la presa jihadista della Grande Moschea della Mecca, avvenuta nello stesso anno di una ribellione sciita contro la povertà e la discriminazione, portò la Casa dei Saud ad adottare decreti ancora più fondamentalisti. Il regime vietò i cinema, la vendita di musica e le donne al lavoro o al posto di guida, proprio mentre un’altra ondata di aumenti del prezzo del petrolio inondava il Regno di più soldi.

Questi eventi epocali ne innescarono altri. La rivoluzione iraniana incoraggiò l’Iraq di Saddam Hussein a lanciare una guerra contro l’Iran (22 settembre 1980). La ricchezza petrolifera ha permesso a entrambi i Paesi di condurre quella guerra per otto sanguinosi anni (680mila morti – 180mila iracheni e 500mila iraniani, inclusi 80mila adolescenti maschi), provocando oltre 2,4 milioni di rifugiati16.

L’invasione sovietica dell’Afghanistan ha creato due generazioni di “guerrieri rifugiati”. La strategia bellica sovietica era basata su un “genocidio migratorio”: saturare le campagne con bombe e mine per scacciare la popolazione locale. Questa strategia ha raggiunto il suo scopo, uccidendo e mutilando centinaia di migliaia di persone (si stima che nella guerra siano morti tra 1,2 e 1,5 milioni di civili afghani delle aree rurali, e 14.453 sovietici) e spingendo milioni di persone nei campi profughi in Iran (oltre 2 milioni) e Pakistan (oltre 3 milioni). Quei campi divennero terreno fertile per l’estremismo: ragazzi traumatizzati negli anni ’80, senza genitori, tagliati fuori da ogni contatto con le donne e istruiti nelle madrasse da contadini poco istruiti che affermavano di conoscere l’Islam, divennero i jihadisti assassini degli anni ’90 e 2000. I semi dei talebani, di al-Qaeda, e della propaggine di quest’ultima ancora più violenta e nichilista, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante o Siria (ISIL o ISIS), sono cresciuti nelle campagne minate dell’Afghanistan e nei campi profughi del Pakistan.

Osama bin Laden, il capo di al-Qaeda fino alla sua esecuzione nel 2011, si è radicalizzato in risposta ad un altro conflitto guidato dal petrolio: la prima guerra del Golfo. Nel 1990, la bancarotta dell’Iraq (con $ 80 milioni di debito), il budget militare di Saddam Hussein gonfiato dalla guerra con l’Iran e il rifiuto di Kuwait City (come anche degli Emirati) di cooperare per mantenere alti i prezzi del petrolio, portarono Saddam a invadere il Kuwait (avrebbe così controllato il 24% dell’offerta di petrolio del Medio Oriente)17. L’espulsione delle truppe irachene dal Kuwait ha richiesto la presenza di truppe americane sul suolo saudita. Infedeli e crociati nella terra dei più importanti siti religiosi dell’Islam sunnita, hanno incoraggiato bin Laden a dichiarare la jihad contro gli Stati Uniti. Protetto dai Talebani in Afghanistan (dopo la sua espulsione dal Sudan nel maggio 1996), ha organizzato gli attacchi dell’11 settembre 2001.

Questi attacchi hanno portato, dopo le elezioni americane del novembre 2000, all’arrivo alla presidenza di un George Bush jr. sotto l’influenza dei neoconservatori militaristi (Dick Cheney, David Rumsfeld e Paul Wolfowitz, ma anche Robert Kagan e William Kristol) determinati a portare a termine l’opera della prima guerra del Golfo, fino all’invasione dell’Iraq del 2003. Quell’attacco e la disastrosa occupazione (con il licenziamento dell’intero esercito iracheno, circa 300mila uomini) che ne seguì sfociò in una sanguinosa insurrezione durata anni che produsse centinaia di migliaia di rifugiati.

Gli effetti della rivalutazione petrolifera del 1973 sono stati più ovvi per gli Stati produttori di petrolio. Ma furono egualmente profondi negli Stati arabi con poco o senza petrolio. La straordinaria vittoria di Israele nella “guerra dei sei giorni18 ha generato la solidarietà araba necessaria per consentire un temporaneo blocco petrolifero e un aumento permanente dei prezzi globali del petrolio. Ma la guerra dello Yom Kippur e l’inflazione che ne seguì sulla scia dell’embargo, screditarono il socialismo arabo e misero l’ultimo chiodo nella bara dell’industrializzazione sostitutiva delle importazioni (costruendo l’industria nazionale dietro un muro di tariffe). L’Egitto, a partire dagli anni ’70 (con Anwar Sadat e poi con Hosni Mubarak), e la Siria, a partire dagli anni ’80, hanno adottato politiche neoliberiste: privatizzazione dell’industria, deregolazione del mercato del lavoro, abbandono dei dazi e apertura delle rispettive economie agli investimenti esteri. Come sempre, il neoliberismo ha generato ricchezza, di cui si potevano vedere l’appariscente spettacolo nelle strade del Cairo e di Damasco, ma anche un aumento delle disuguaglianze e un calo del tenore di vita delle masse tormentate dall’inflazione19. Il malcontento generato dal capitalismo neoliberista è stato amplificato, nel caso dell’Egitto, da una crescente intellighenzia a cui sono state negate opportunità commisurate alla loro sudata istruzione. Mentre negli anni ’80 entravano in un mercato del lavoro sempre più squallido, i lavoratori migranti di ritorno si unirono a loro. Alcuni erano qualificati e istruiti, ma la maggior parte no; tutti sono stati plasmati da anni di Islam wahhabita estremo, intollerante e finanziato dall’Arabia Saudita20. Le conseguenze sono state le crescenti critiche ai regimi, le rare ma orribili violenze islamiche contrastate con brutali repressioni e un ciclo di proteste e repressioni culminato nelle Primavere Arabe del 201121.

Nel rispondere alle proteste anti-regime del 2011, i regimi autocratici del Medio Oriente hanno utilizzato il terrorismo come argomento – un tropo fornito loro dall’11 settembre e dall’invasione americana/britannica dell’Iraq – per un giro di vite su gruppi di protesta islamisti e laici. La brutalità di Assad – bombe e attacchi chimici, incarcerazione, tortura e stupro, il tutto aiutato e incoraggiato dai bombardieri russi22 – ha reso la Siria il più grande Paese produttore di rifugiati al mondo. Circa 7,6 milioni di persone erano sfollati interni nel 2014, ma oltre 3,8 milioni di persone sono fuggite in Turchia, Giordania, Libano e, dalla metà degli anni 2010, in Europa. Nel 2015-2016 circa 2,3 milioni di persone hanno chiesto asilo nell’UE, molti dei quali in fuga dalla guerra civile in Siria. La Germania, che all’epoca godeva di un’economia in forte espansione, ha accolto un numero senza precedenti di rifugiati, con la celebre dichiarazione della Cancelliera Angela Merkel: “Possiamo farcela”.

Nel marzo 2011, il Regno Unito e la Francia, adocchiando le forniture petrolifere della Libia, hanno invocato una nozione confusa della loro “responsabilità di proteggere” e hanno convinto il riluttante presidente Barak Obama (e la NATO) a unirsi a loro negli attacchi aerei che hanno distrutto il regime di Gheddafi. Con i proventi del petrolio che ora affluivano alle milizie violente, anche la Libia precipitò in una disastrosa guerra civile (2014-2020), e sia i libici che gli africani (da Niger, Ciad, Sudan, Eritrea e Paesi dell’Africa occidentale) che transitavano attraverso la Libia hanno attraversato il Mediterraneo verso Lampedusa in numero sempre maggiore.

Le guerre civili in Siria, Libia e Yemen, un debole esercito iracheno e un presidente isolazionista determinato a evitare ulteriori coinvolgimenti statunitensi nel mondo arabo hanno creato le condizioni perfette per un’altra crisi di rifugiati. Nell’estate del 2014, l’ISIS ha invaso la Siria settentrionale e l’Iraq, catturando un’area grande quanto la Giordania e intrappolando 6 milioni di persone. Di fronte a un governo che combinava misoginia, barbarie culturale e crudeltà bestiale, siriani e iracheni sono fuggiti ancora una volta. I Paesi vicini, crollati sotto la pressione di milioni di rifugiati, offrivano troppo poche opportunità di istruzione o lavoro, quindi grandi colonne di rifugiati si diressero a nord, verso l’Europa (oltre un milione nel 2015 attraverso i Balcani e il Mediterraneo).

 Prospettive di futuro

Negli ultimi due anni, dopo la crisi determinata dalla pandemia da CoVid-19 (che ha dimostrato che le economie dei Paesi Occidentali sono estremamente vulnerabili in caso di interruzioni delle supply chains globali) e il caotico ritiro dalla guerra in Afghanistan (il Vietnam dei nostri tempi), il mondo deve fare i conti con due sanguinosi conflitti militari di grandi proporzioni – in Ucraina e Palestina – che, oltre a morte e distruzione, hanno già comportato altre drammatiche conseguenze: un flusso di oltre 8 milioni di rifugiati ucraini nell’Unione Europea, un nuovo shock petrolifero dovuto alla fine delle forniture di petrolio e gas naturale dalla Russia ai Paesi dell’UE (che ha mandato in recessione la Germania, dando un colpo mortale al “modello economico-industriale tedesco”), una nuova ondata di alta inflazione (che fa diminuire i salari in termini reali e che BCE e FED hanno ingiustificatamente interpretato come il ripetersi verso l’alto della spirale prezzi-salari degli anni ’70, alzando i tassi di interesse) e di insicurezza alimentare (nei Paesi poveri). La minaccia di un nuovo shock petrolifero è di nuovo reale, con le milizie Houthi nello Yemen del nord (sostenute dall’Iran e solidali con i palestinesi di Gaza) che lanciano missili e droni armati contro navi petroliere, gasifere e portacontainer che navigano nel Mar Rosso meridionale, passando attraverso il Golfo di Aden e lo stretto di Bab al-Mandab (la “Porta delle lacrime”), per poi proseguire attraverso il canale di Suez (dove transitano ogni anno 23mila navi, il 15% del petrolio greggio trasportato via mare a livello mondiale, l’8% del gas naturale e il 30% del traffico globale di container). Per evitare una interruzione delle supply chain globali e fermare gli attacchi degli Houthi, gli Stati Uniti hanno messo insieme una coalizione marittima che comprende 10 Paesi (USA, Regno Unito, Italia, Bahrein, Canada, Francia, Paesi Bassi, Norvegia, Seychelles e Spagna), ma altri Paesi potrebbero aderire all’Operazione prosperità. L’industria marittima non sembra convinta che la task force possa fermare gli Houthi e le principali compagnie e BP hanno fermato o dirottato le loro navi attorno al Capo di Buona Speranza (allungando di due settimane il tempo di viaggio per Rotterdam). Si rischia una nuova escalation militare e un’interruzione dei rifornimenti petroliferi/gasiferi provenienti dal Golfo destinati ai Paesi dell’Unione Europea.

Per molti versi gli anni ‘20 di questo secolo sembrano essere una ripetizione degli anni ‘70 del secolo scorso descritti da Hansen e la cosa veramente preoccupante è vedere le classi dirigenti che cercano di applicare, in modo sempre più cinico e brutale, le stesse vecchie ricette per quanto riguarda guerra, lavoro e migrazione di massa. Un accanimento terapeutico che cavalca la spirale bassi salari-bassi prezzi e fa leva su politiche pubbliche restrittive, di austerità, che finora hanno dato risultati in gran parte catastrofici, mentre il petrolio (insieme a carbone e gas naturale) continua ad essere la fonte energetica dominante, nonostante sappiamo che sta portando all’estinzione di vita umana e biodiversità sul pianeta entro 40-50 anni. Quantomeno, si dovrebbe porre rapidamente fine alla dipendenza dai combustibili fossili, invece di tergiversare, prendere tempo e cavalcare il populismo negazionista, utilizzando massicci programmi pubblici di investimento.

Il libro di Hansen sostiene che guerre, lavoro e bisogni/desideri sono stati i grandi driver della migrazione globale nel ultimi 50 anni, nel corso dei quali è emersa la dipendenza di molteplici settori economici fondamentali per la vita moderna, del benessere delle classi medie e del funzionamento delle economie (dalla Germania alla Corea del Sud, dalla Tailandia agli Stati Uniti) dal lavoro poco qualificato di migranti pagati con bassi salari.

Il lavoro – la nostra domanda di esso, il bisogno dei migranti poveri di esso – e i bisogni – il nostro inestinguibile desiderio di cibo, beni e servizi a prezzi sempre più bassi hanno portato e portano decine di milioni di lavoratori poco qualificati a migrare. Le guerre hanno costretto e costringono altre decine di milioni di persone a scappare, mentre lavoro povero, bisogni di sopravvivenza e desideri autodistruttivi e insostenibili le hanno trasformate in lavoratori usa e getta. Il risultato è una classe operaia globale migrante strutturalmente radicata nelle dinamiche di un capitalismo sempre più brutale, rapace ed estrattivo.

I migranti su larga scala, poco qualificati, mal pagati e maltrattati sono diventati una caratteristica strutturale del capitalismo neoliberista globale. Il libro di Hansen dimostra che sono essenziali per la vita: per dove e come si vive, per ciò che si mangia e si indossa, per come si allevano i figli. La manodopera a basso costo si trova in tutti i settori dell’economia: nei servizi di consegna, nell’ospitalità, nell’industria di bellezza e benessere, nel giardinaggio, nei viaggi e nel turismo. È ovunque. Ovunque il lavoro sia ad alta intensità di manodopera e poco qualificato, e dove la protezione dei diritti dei lavoratori sia inadeguata, il mercato spinge i salari al livello più basso possibile.

Questo suggerisce che in assenza di un drastico cambiamento politico che attui una riforma fondamentale di come il lavoro poco qualificato viene (s)valutato e (non) pagato (ossia di come opera il capitalismo neoliberista, accettando di avere di meno – meno prodotti e servizi a basso prezzo), la migrazione di massa continuerà. I governi dei nazional-populisti di destra e centro-destra, che seminano e cavalcano la paura dello straniero (xenofobia) e l’odio del prossimo e attaccano l’universalità e l’uguaglianza dei diritti, costruiscono muri ai confini, cercano di delocalizzare il trattamento dell’asilo in Paesi terzi (in Ruanda e Albania), attuano i respingimenti in mare e in terra, passano leggi sempre più restrittive, draconiane, classiste (i ricchi possono sempre comprare un “passaporto d’oro”) e razziste contro i migranti regolari, clandestini ed “illegali” (che prevedono carcerazione e/o deportazione, introducono quote, riducono l’accesso alle prestazioni socio-sanitarie per gli stranieri, inaspriscono le regole per gli studenti stranieri, rendono più difficile per i figli di stranieri nati nel Paese diventare cittadini e stabiliscono che i cittadini con doppia cittadinanza condannati per reati gravi possono perdere la cittadinanza del Paese23). Ciò nonostante, come successo in Italia nel 2023, gli arrivi di migranti e richiedenti asilo aumentano (oltre 153mila, con oltre 2.500 morti annegati nel Mediterraneo). Come nota Hansen, governi e opinioni pubbliche concentrano la loro attenzione su coloro che arrivano a piedi o via mare con i barconi perché rappresentano una flagrante violazione della sovranità e del controllo delle frontiere, ma queste persone rappresentano solo una piccola percentuale (ad esempio, meno del 4% nel Regno Unito) dei migranti totali che arrivano (la maggior parte arriva per i ricongiungimenti familiari o in aereo con un visto turistico per poi rimanere dopo la scadenza). Insaziabile è il bisogno di forza lavoro poco qualificata e a buon mercato delle economie e società occidentali (e non solo di queste), come inarrestabile è il bisogno di lavoro e di una prospettiva di vita migliore di milioni di persone che fuggono da Paesi poveri, in guerra o colpiti dai cambiamenti climatici, o privi dei i diritti garantiti nei sistemi politici democratici.

Il libro di Randall Hansen è un tentativo riuscito di analizzare un fenomeno come la migrazione di massa internazionale e, allo stesso tempo, provare ad interpretare e a “mettere ordine” nella caotica storia globale degli ultimi 50 anni. Costruisce una narrativa basata su un quadro interpretativo economico-politico che è in grado di fornire strumenti per comprendere l’apparente anarchica condizione presente del mondo in cui viviamo. Solo una rielaborazione razionale e un’analisi critica di processi storici ed eventi ci può aiutare a comprendere lo stato del tempo presente, offrendoci un orizzonte di senso.

Da questo punto di vista, il libro di Hansen contribuisce a far crescere la capacità personale e collettiva di ricomporre un nesso tra i processi, gli eventi e le esperienze che costituiscono il flusso della nostra vita. Ci aiuta a rafforzare la nostra capacità di ricavarne un senso, di sviluppare una capacità critica, di reagire e agire. Generalmente la realtà ci viene proposta in modo frammentario, episodico ed individualizzato per cui spesso a livello individuale e collettivo siamo portati a reagire operando una sorta di rimozione, disponendoci in tal modo ad essere sostanzialmente distratti, manipolati o addirittura ingannati, permettendo ad altri di definire l’agenda delle nostre vite intrecciate, della società in cui viviamo. Allargare i confini del nostro sguardo, dare spazio a grandi narrazioni che utilizzano gli strumenti culturali e le metodologie di analisi dell’economia politica e del pensiero critico significa poter aprire un dibattito pubblico e orizzonti progettuali che ci vedano protagonisti della nostra emancipazione, per non dire liberazione, per fare ricerca e politica, per recuperare gli ideali della fraternità e provare a cambiare il mondo, distogliendo l’umanità dalla sua folle corsa verso l’autodistruzione.

Alessandro Scassellati

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  1. Randall Hansen, MPhil, DPhil (Oxon) è direttore del Global Migration Lab presso la Munk School dell’Università di Toronto e Canada Research Chair presso il Dipartimento di Scienze Politiche. Si occupa di migrazione e cittadinanza, eugenetica e politica demografica e degli effetti della guerra sulle popolazioni civili. È stato direttore del Centro per gli studi europei, russi ed eurasiatici dell’Università di Toronto dal 2011 al 2022 e direttore ad interim della Munk School of Global Affairs and Public Policy dal 2017 al 2020. Ha svolto attività di consulenza per l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, Oxford Analytica, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e la Banca mondiale. Ha tenuto discorsi e conferenze in tutta Europa, Nord America e Asia. Prima di assumere una cattedra di ricerca a Toronto nel 2005, è stato Tutorial Fellow in Politica presso il Merton College, Università di Oxford, una cattedra consolidata in Politica, presso l’Università di Newcastle, e docente universitario, Queen Mary, Università di Londra. I suoi lavori pubblicati includono War, Work, and Want: How the OPEC Oil Crisis Generated Revolution and Mass Migration (New York: Oxford University Press, 2023); Fire & Fury: the Allied Bombing of Germany and Japan (London: Faber, 2020); Disobeying Hitler: German Resistance after July 20, 1944 (New York: Oxford University Press, 2013), Sterilized by the State: Eugenics, Race and the Population Scare in 20th Century North America (New York: Cambridge University Press, 2013), Fire & Fury: the Allied Bombing of Germany (New York: Penguin, 2009), e Citizenship and Immigration in Post-War Britain (Oxford: Oxford University Press, 2000). Ha anche co-curato Immigration and Public Opinion in Liberal Democracies (con David Leal e Gary P. Freeman) (New York: Routledge, 2012), Migration, States and International Cooperation (with Jeannette Money e Jobst Koehler, Routledge, 2011), Towards a European Nationality (con Patrick Weil, Palgrave, 2001), Dual Nationality, Social Rights, and Federal Citizenship in the U.S. and Europe (con Patrick Weil, Berghahn, 2002), e Immigration and asylum from 1900 to the present (con M. Gibney, ABC-CLIO, 2005).[]
  2. Inoltre, i Paesi arabi produttori decretarono un embargo del petrolio verso Stati Uniti, Canada, Giappone, Paesi Bassi e Regno Unito, estendendolo in seguito anche a Rodesia, Sud Africa e Portogallo. L’embargo venne ufficialmente rimosso nel marzo 1974.[]
  3. È bene ricordare che la crisi petrolifera causata dall’OPEC è avvenuta contemporaneamente al collasso del sistema di Bretton Woods che aveva mantenuto stabili i tassi di cambio e controlli sui movimenti dei capitali tra USA, Canada, Europa occidentale, Australia e Giappone.[]
  4. L’OPEC, l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio, includeva tra i suoi membri Stati arabi (Algeria, Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Iraq, Kuwait, Libia, Qatar e Siria) e non arabi (Ecuador, Indonesia, Iran, Nigeria e Venezuela).[]
  5. Fino agli anni ’70, la politica economica in Egitto, Siria, Giordania, Marocco e Tunisia perseguiva la nazionalizzazione, l’industrializzazione sostitutiva delle importazioni e un potente contratto sociale in cui lo Stato garantiva istruzione e assistenza sanitaria gratuite, cibo e servizi sovvenzionati e posti di lavoro sicuri, soprattutto per i laureati delle università, nel settore pubblico in espansione. In cambio, una cittadinanza leale accettava l’assenza di una democrazia significativa. Ispirandosi al panarabismo e al socialismo di Nasser, i baathisti siriani che presero il potere nel 1963 nazionalizzarono le industrie, introdussero tariffe per proteggere e sostenere la produzione siriana, spesero denaro pubblico in infrastrutture e fabbriche e inglobarono i laureati in una imponente burocrazia. Durante gli anni ’70, il Paese ha goduto di un boom economico. Pur non essendo certamente uno Stato del Golfo, la Siria disponeva di petrolio e l’industria ha beneficiato dell’aumento della spesa per il consumo sulla scia dell’aumento dei salari interni. Il Paese ha goduto di una crescita elevata, anche se altalenante: gli aumenti annuali del PIL hanno superato il 10% tra il 1972 e il 1976, raggiungendo il 25% negli anni di punta. Come sempre, tuttavia, l’industrializzazione di sostituzione delle importazioni ha generato inflazione. All’inizio degli anni ’80 tutto finì: la crescita del PIL della Siria diminuì e l’inflazione esplose, raggiungendo un picco poco inferiore al 60% nel 1980. In seguito alla crisi della bilancia dei pagamenti nel 1986, Hafez al Assad adottò una politica di “pluralismo economico”, ispirandosi alla Cina. Come il “capitalismo con caratteristiche cinesi”, il pluralismo economico era in realtà una dose di capitalismo neoliberista privo di democrazia (con una tolleranza ancora maggiore per la corruzione): la deregolamentazione del mercato immobiliare, la rimozione delle tariffe, la rimozione del sostegno dei prezzi in agricoltura, e la liberalizzazione del mercato energetico. Suo figlio, Bashar al Assad, è andato molto oltre. Da un giorno all’altro ha abolito i sussidi di lunga data per il diesel, colpendo duramente le zone rurali che erano state un bastione a supporto del regime. Come in Egitto, sono sorti alberghi di lusso e nei centri urbani sono apparse vistose manifestazioni di ricchezza. Fino al 25% dei giovani siriani hanno frequentato università finanziate dallo Stato, ma non hanno trovato un lavoro corrispondente alle loro qualifiche e sono stati consegnati, amareggiati, a lavori umili o a nessun lavoro.[]
  6. La migrazione avviene in tutti i continenti e in tutti i Paesi. L’Europa e l’Asia ospitano un numero equivalente di migranti – rispettivamente 87 milioni e 86 milioni (dati 2020), o insieme il 61% dello stock globale – con il Nord America che viene subito dopo con 59 milioni – o 22% del totale. Per 50 anni, gli Stati Uniti sono stati la prima destinazione mondiale per i migranti, e il numero delle persone nate all’estero nel Paese è quadruplicato da meno di 12 milioni nel 1970 a oltre 51 milioni nel 2020 (11,5 milioni dal Messico, 1,5 milioni dal Salvador), con la prospettiva di diventare un Paese con una “minoranza bianca” nel 2045. La Germania è la seconda destinazione più popolare, con 16 milioni di migranti internazionali (1,8 milioni dalla Polonia). Poi viene l’Arabia Saudita con 13 milioni. I successivi diciassette Paesi sono Russia (3,75 milioni dall’Ucraina, 2,6 milioni dal Kazakistan), Regno Unito, Emirati Arabi Uniti (3,4 milioni dall’India), Francia (1,7 milioni dall’Algeria), Canada, Australia, Spagna, Italia, Turchia (3,75 milioni dalla Siria), Ucraina (3,75 milioni dalla Russia), India, Kazakistan (2,45 milioni dalla Russia), Tailandia (1,8 milioni dal Myanmar), Malesia (1,2 milioni dall’Indonesia), Giordania, Pakistan e Kuwait.[]
  7. Il Regno Unito aveva abolito la libera circolazione delle persone del Commonwealth e i Paesi europei avevano posto fine ai loro programmi di “lavoratori ospiti”, mentre negli Stati Uniti il saldo migratorio era stato negativo per un decennio.[]
  8. Le grandi catene della GDO controllano delle “risorse critiche“: la capacità di procurarsi direttamente le versioni dei prodotti con il proprio marchio e di negare o addebitare ad altri l’affitto (“commissioni di assegnazione“) per lo spazio sugli scaffali. Possono agire come organismi di regolamentazione: i supermercati determinano gli standard di sicurezza alimentare, qualità, aspetto estetico, benessere ambientale e animale, nonché le prerogative per essere considerati commercio equo e biologico. In teoria, l’adesione è volontaria, ma poiché le catene dei supermercati fanno del rispetto dei propri standard una condizione per fare affari con aziende che dominano il mercato, in pratica sono obbligatori. []
  9. Ai sensi della Direttiva UE sul distacco dei lavoratori del 1996 (aggiornata nel 2018), progettata per promuovere la fornitura transfrontaliera di servizi nell’Unione Europea, le aziende possono assumere lavoratori da un Paese dell’UE e distaccarli temporaneamente (per un massimo di 18 mesi, dai 24 della direttiva originaria) in un altro. Secondo la direttiva, l’azienda è obbligata a rispettare i diritti fondamentali, derivanti dal Paese di origine del lavoratore, relativi a tariffe salariali minime, orario massimo di lavoro, standard di salute e sicurezza e parità di trattamento. Tuttavia, in quanto lavoratori temporanei, non pagano i contributi previdenziali nel Paese in cui lavorano. Piuttosto li pagano al loro Paese d’origine. Poiché sia i datori di lavoro che i lavoratori pagano i contributi previdenziali, queste disposizioni rendono, ad esempio, i lavoratori portoghesi o polacchi o romeni in Germania molto più economici di quelli tedeschi. Dato che i contributi sono molto più bassi nell’Europa centrale e meridionale, i risparmi possono essere notevoli. È bene ricordare che gli allargamenti della UE del 2004 e 2007 hanno portato 100 milioni di nuovi cittadini nell’Unione, inclusi decine di milioni di lavoratori poco qualificati e più economici.[]
  10. I Paesi nordici europei con Stati di stampo socialdemocratico sono stati gli unici a resistere, almeno in parte, all’ondata neoliberista. Sindacati forti, efficaci e cooperativi, sostenuti da un’elevata tassazione progressiva, da una legislazione favorevole e da forti leggi/accordi sul salario minimo, hanno contribuito a mantenere un’ampia riserva di posti di lavoro sindacalizzati e un elevato grado di uguaglianza dei redditi. Il 59% degli occupati finlandesi sono sindacalizzati, come lo sono il 65% di quelli svedesi e il 67% dei danesi. La Danimarca ha la più bassa porzione di lavoratori che guadagnano di più (2,5%) e che guadagnano di meno (6%).[]
  11. Hansen sottolinea che ovunque nel mondo i lavoratori migranti, oltre a lavorare per bassi salari, sono soggetti ad abusi come la mancanza di un contratto; la sostituzione dei contratti; il non pagamento di salario minimo e/o oneri previdenziali e sanitari; il sequestro del passaporto; il furto del salario; il lavoro in condizioni malsane e pericolose (per cui ferimenti e morti sul lavoro sono comuni); il lavoro forzato; la discriminazione razzista e di genere; la violenza sessuale; la limitazione della mobilità; il licenziamento in tronco, il diniego del rinnovo del permesso di lavoro, l’imprigionamento e la deportazione in caso di contestazione e protesta.[]
  12. Negli Stati Uniti, dal 1960 al 2012, la percentuale di famiglie a doppio reddito con minori di 18 anni è passata dal 25% al 60%. Con il passaggio al paradigma di regolazione neoliberista, la progressiva precarizzazione del lavoro, l’erosione dei diritti e dei salari reali dei lavoratori, la necessità di dover svolgere più lavori contemporaneamente per cercare di sfuggire alla condizione infernale di working-poor, sono fattori che hanno ridotto il tempo che le donne sono in grado di dedicare al lavoro di cura e alla famiglia, mentre sappiamo che il lavoro domestico, compresa l’assistenza all’infanzia, rappresenta un’enorme quantità di produzione socialmente necessaria. Ma questo, in una società basata sulla produzione di merci e sulla mercificazione dei servizi (molti dei quali a bassa qualificazione e molto frammentati), di solito non è considerato “vero lavoro” in quanto al di fuori del commercio, del mercato e del lavoro salariato. L’effetto dei tagli alle spese e ai servizi sociali da parte dei governi, dunque, è stato di fatto uno scaricamento del peso del lavoro di cura su donne, famiglie, comunità e municipalità locali, allorquando è progressivamente diminuita la loro capacità di svolgerlo in modo adeguato, per mancanza di tempo e/o risorse umane e finanziarie. Questo ha portato ad una generalizzata crisi della riproduzione sociale, testimoniata dal crollo degli indici di natalità in tutti i Paesi ricchi, e ad una nuova organizzazione dualistica della stessa riproduzione sociale, mercificata per coloro che possono permetterselo e privatizzata per quanti non possono farlo. Alcune componenti femminili della seconda categoria (oltre a donne immigrate dai Paesi poveri) forniscono lavoro riproduttivo e di cura per coloro che appartengono alla prima in cambio di bassi salari, molto spesso senza benefits, ferie pagate o congedi per malattia e senza il sostegno di un sindacato, o sono impiegate come infermiere nell’assistenza sanitaria, il settore del lavoro in più rapida crescita in un paese come gli Stati Uniti.[]
  13. A partire dalla fine degli anni ’70, la finanziarizzazione della vita quotidiana è diventata il principale driver della crescita del PIL degli USA e dei Paesi europei, creando le condizioni per l’esplosione di enormi bolle speculative e crisi finanziarie nei decenni successivi. Inoltre, prestiti personali, mutui ipotecari, polizze assicurative e credito al consumo, ossia le diverse forme di indebitamento delle persone, sono divenuti un modo estremamente efficace per esercitare il controllo sociale: più le persone sono indebitate e meno sono in grado di poter immaginare in futuro nient’altro che non sia semplicemente vivere e lavorare in modo tale da poter ripagare il loro debito, a cominciare da quello, spesso enorme, accumulato per poter studiare e ricevere una laurea universitaria. Se una parte crescente dei redditi disponibili delle famiglie deve essere orientata al pagamento di interessi piuttosto che al consumo, aumentano i profitti dei finanzieri a scapito della crescita economica. Il predominio del debito e del capitale finanziario significa che è la rendita ad essere divenuta il vero driver del processo di accumulazione e che questa antica patologia finanziaria (condannata nella Bibbia, nel Medioevo e nella religione islamica) schiaccia verso il basso salari e profitti prodotti nell’ambito delle attività produttive e dei servizi. Il filosofo greco Aristotele ha celebrato l’invenzione della moneta e il suo uso, ma condannato fermamente la speculazione finanziaria perché in essa “il denaro stesso diventa produttivo, perdendo la sua vera finalità che è di facilitare il commercio e la produzione” (Politica I, 10, 1258 b). La Chiesa Cattolica ha inventato il concetto di Purgatorio tra il XII e il XIII secolo per consentire ai cristiani di prestare denaro e di realizzare attività commerciali “peccaminose” per poi scontare questi (e altri) peccati attraverso l’acquisto di indulgenze (Le Goff, 2014). La finanza rappresenta una modalità di accumulazione, un modo per guadagnare denaro, distinta da altre modalità come l’industria o il commercio, anche se offre al capitale industriale che vive una crisi di valorizzazione (ossia con problemi di redditività) nel suo settore tradizionale (soprattutto se ormai divenuto “maturo”), opportunità di investimento, come ad esempio il credito al consumo, con maggiori prospettive di profitto. Oggi, famiglie, aziende e governi sono impegnati in transazioni finanziarie come mai prima nella storia. Alcuni sono creditori, altri sono debitori, ma ora sono tutti sempre più intrecciati in una rete di obbligazioni e responsabilità dalle quali è impossibile sfuggire. In questo senso, la finanza non dovrebbe essere vista come risultante del dominio delle banche sulle imprese o di capitalisti “cattivi” su quelli “buoni“, ma come un meccanismo attraverso il quale tutti i capitalisti hanno adattato il loro comportamento ad una nuova realtà economica basata sull’aspettativa di profitti crescenti. Profitti che vengono realizzati sempre meno come conseguenza diretta dello sfruttamento della forza lavoro nel processo di produzione di merci e dell’appropriazione del corrispondente plusvalore. La sola Apple deteneva 156 miliardi di dollari di obbligazioni societarie, pari a circa il 60% dei suoi asset nel 2017. Miliardi di obbligazioni societarie sono detenute anche da Ford, General Motors, Pfizer e General Electric. Le obbligazioni di altre società rappresentano l’80% degli asset di Ebay e il 75% di quelli di Oracle. Le 30 principali società non finanziarie americane detenevano un totale di 423 miliardi di obbligazioni societarie e commercial paper securities, 369 miliardi di debito pubblico e 40 miliardi di prodotti strutturati (titoli garantiti da assets e ipoteche) nel 2017.[]
  14. Secondo il rapporto della FED (maggio 2019), milioni di lavoratori statunitensi non hanno abbastanza risparmi per coprire spese di emergenza di 400 dollari – come una fattura medica imprevista, una riparazione della macchina o della casa -, per cui dovrebbero vendere qualcosa o prendere in prestito denaro. Milioni di americani temono di perdere improvvisamente il lavoro e di non essere in grado di pagare i conti. Hanno poche speranze sul loro futuro e su come dare una vita migliore ai loro figli. Sono spesso esausti e socialmente isolati dal secondo o dal terzo lavoro, da lunghi spostamenti e turni di fine settimana. E spesso i loro sistemi di supporto sociale sono indeboliti da incarcerazione, dipendenze e depressione.[]
  15. Nel 2017, c’erano 23 milioni di migranti negli Stati arabi, principalmente del Golfo. In Qatar e nell’Emirato di Dubai, i lavoratori migranti costituiscono un sorprendente 96% della forza lavoro. I lavoratori migranti entrano attraverso il sistema della kafala (sponsorizzazione), che richiede che un cittadino o un’istituzione locale sponsorizzi i lavoratori migranti. Lo sponsor si assume la piena responsabilità del lavoratore e lui o lei può lavorare e rimanere nel Paese solo con il loro accordo (il datore di lavoro confisca il passaporto del lavoratore migrante). I lavoratori non possono cambiare lavoro, ad eccezione del Qatar; non hanno diritto al ricongiungimento familiare; non ci sono possibilità di residenza permanente; non esiste alcun diritto alle pensioni; e le misure antidiscriminazione non li coprono. I diritti dei migranti sono limitati a un’indennità di fine rapporto, all’alloggio e alla formazione.[]
  16. L’Iraq ottenne anche il significativo sostegno finanziario di oltre 30 miliardi di dollari da parte di produttori di petrolio filoamericani come Arabia Saudita e Kuwait, interessati a contenere il regime antimonarchico e antiamericano della Repubblica Islamica in Iran.[]
  17. Il presidente Bush affermò chiaramente che la sicurezza delle riserve di petrolio del Golfo, e soprattutto di quelle saudite, era un interesse nazionale vitale degli Stati Uniti. Per ristabilire l’”ordine basato sulle regole” e per difendere l’interesse nazionale petrolifero statunitense vennero inviati mezzo milione di soldati.[]
  18. Hansen fa partire la sua narrazione dalla ricostruzione della guerra arabo-israeliana del 1967. La sconfitta inferse un duro colpo al nazionalismo laico panarabo e al socialismo di Stato, consentendo il riavvicinamento politico tra Stati del Golfo, Egitto, Libia e altri Paesi arabi.[]
  19. Il Medio Oriente è la più diseguale regione del mondo: il decile più alto riceve circa il 65% del reddito regionale.[]
  20. A partire dagli anni ’80, l’Arabia Saudita ha speso milioni di petrodollari (dai 350 ai 500 milioni all’anno) per esportare l’Islam wahhabita costruendo scuole e moschee in Egitto, Pakistan e altri Paesi a maggioranza musulmana. Finanziamenti sauditi sono fluiti verso i gruppi mujahideen più conservatori sul piano religioso che hanno combattuto contro i sovietici in Afghanistan, come anche successivamente ai Talebani. Per contrastare l’invasione sovietica dell’Afghanistan, gli Stati Uniti hanno utilizzato la mobilitazione saudita dei musulmani per combattere il comunismo, e il loro potere finanziario, così come il potere militare del Pakistan, per aiutare ad addestrare volontari islamici contro l’Unione Sovietica.[]
  21. Le Primavere Arabe sono state delle ribellioni politiche contro la brutalità della polizia, l’imprigionamento dei dissidenti, la tortura e altre violazioni dei diritti umani. Ma, soprattutto, sono state rivolte contro la povertà, le disuguaglianze, i prezzi alle stelle (benzina, diesel, cibo, ecc.) e la corruzione.[]
  22. La guerra civile siriana si è rapidamente trasformata in una guerra internazionale con Iran, le forze militari di Hezbollah, l’aviazione russa schierati dalla parte di al Assad, e Turchia, Arabia Saudita, Qatar alleati con l’Occidente e i curdi siriani dalla parte dei gruppi di opposizione.[]
  23. Tutte misure (molte delle quali probabilmente incostituzionali) contenute nella nuova legge sull’immigrazione approvata in Francia dai macronisti e le destre dei repubblicani e lepenisti in questi giorni. Non stupisce che Marine Le Pen abbia detto che il suo partito avrebbe votato a favore della legge, definendola una “vittoria ideologica” perché afferma la nozione della “preferenza nazionale” in cui i benefici sociali e gli alloggi dovrebbero essere “prima per i francesi”. Da notare che la legge voluta dal governo Borne contiene anche misure come la regolarizzazione dei lavoratori privi di documenti in settori con carenza di manodopera (quelli che stanno in piedi solo grazie a bassi salari e lavoratori migranti), tra cui l’edilizia, i settori sanitario e assistenziale, nonché gli hotel e i ristoranti. In vista delle elezioni europee della primavera 2024, la stessa UE ha annunciato una svolta nei negoziati tra Parlamento, Commissione e Consiglio sulla riforma dell’asilo. Il sistema di asilo nell’UE viene riformato radicalmente, inasprendo i requisiti di accoglienza. Il piano è quello di trattare in modo molto più duro e stringente le persone provenienti da Paesi considerati relativamente sicuri. Fino a quando non verrà presa una decisione sulla loro richiesta di asilo, dovrebbero poter essere ospitati in campi di detenzione in condizioni simili a quelle carcerarie. Inoltre, i richiedenti asilo respinti dovrebbero poter essere deportati più facilmente verso paesi terzi considerati sicuri.[]

Alessandro Scassellati

20/12/2023 https://transform-italia.it/

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