Amazon spreme, Amazon paghi
C’è un altro black friday in tutto il mondo. Non per vendere smartphone, giochi, maglioni e scarpe, ma per chiedere che Amazon retribuisca in modo equo i lavoratori, paghi le tasse nei Paesi in cui è presente, compensi le tonnellate di anidride carbonica emesse. Per il terzo anno una giornata di azione globale con scioperi, proteste e mobilitazioni il 25 novembre, proprio in concomitanza con la festa dello shopping in circa 30 Paesi, dall’Argentina al Sud Africa passando per Usa, India, Giappone, Polonia, Ungheria, solo per citarne alcuni.
L’iniziativa è della campagna Make Amazon Pay, promossa da una coalizione di oltre 80 sindacati, organizzazioni della società civile, ambientaliste e autorità fiscali tra cui Uni Global Union, Cgil, Progressive International, Greenpeace, 350.org, Tax Justice Network e Amazon Workers International.
Salari, tasse, ambiente
Tutti accomunati dalle stesse accuse: il colosso dell’e-commerce spreme i dipendenti, perché mentre i salari reali diminuiscono, la multinazionale registra ricavi da record, 121 miliardi di dollari nel secondo trimestre del 2022, e rafforza le sue tattiche per arrestare l’azione sindacale; spreme le comunità, dato che non ha pagato alcuna imposta sul reddito in Europa nel 2021 e ha invece ricevuto 1 miliardo di euro di crediti d’imposta su 55 miliardi di vendite; spreme il pianeta, considerato che contabilizza solo l’1 per cento di tutte le vendite nel calcolo delle sue emissioni, ma la produzione di CO2 è aumentata del 18 per cento l’anno scorso.
Volantinaggi e presidi
In Italia la Cgil e le categorie Filt, Nidil, Filcams e Slc aderiscono e partecipano alla giornata di mobilitazione con presidi e volantinaggi davanti ai siti produttivi sparsi in tutto lo stivale. “A differenza di altri Paesi, noi abbiamo un sistema di relazioni che si è sviluppato fin dai primi giorni in cui il gigante si è insediato in Italia, nel 2012 – spiega Manola Cavallini, dell’area contrattazione Cgil nazionale -. Dal primo magazzino di Castel San Giovanni a Piacenza Amazon è cresciuta, e noi abbiamo cercato un confronto e ottenuto accordi, l’ultimo dei quali garantisce a tutte il personale un incremento della retribuzione del 2 per cento, del buono pasto a 7 euro, e riconosce un importo di 500 euro in buoni acquisto”.
Le iniziative italiane sono in solidarietà verso quei Paesi dove i lavoratori non hanno relazioni sindacali, dove come in Germania devono fare sciopero perché vengano applicati i contratti collettivi di settore. E alle denunce e richieste avanzate a livello globale si aggiungono quelle specifiche, tutte nostrane. “Ci mobilitiamo per gli orari, i ritmi e in generale l’organizzazione del lavoro di tutti gli addetti, anche dei somministrati – riprende Cavallini -, per la stabilizzazione dei precari, per affrontare la questione delle tecnologie di sorveglianza e della protezione dei dati. In una parola, per i diritti dei lavoratori”.
Ridurre la precarietà
Il numero dei precari che supera quello dei fissi, contratti che vengono rinnovati di tre mesi in tre mesi, fino a un massimo di 12, la somministrazione usata come forma di ingresso nell’azienda. “La precarietà in Amazon ha queste caratteristiche in tutti i siti ed è strutturale – afferma Francesco Melis di Nidil Cgil -. Vede lo scaricamento e l’assunzione di nuove persone. Un turn over talmente alto che in alcune aree economicamente depresse i lavoratori svantaggiati, il cui impiego massiccio è consentito alla multinazionale in deroga ai limiti fissati dalla legge, si stanno esaurendo. E così si assiste all’arrivo di addetti da fuori provincia”.
Con tutte le criticità che questo comporta, legate ai trasporti innanzitutto e alle necessità abitative. “Una delle cose di cui ci siamo resi conto – conclude Melis – è il fortissimo impatto che questi insediamenti logistici hanno sui territori: i servizi sono pochi e naturalmente Amazon non si preoccupa di fornirli”.
“Dopo l’accordo di ottobre c’è ancora molto da fare – dice Michele De Rose, Filt Cgil nazionale -. L’obiettivo prossimo più importante, che stiamo perseguendo insieme al Nidil, è aumentare la quota dei lavoratori stabili: c’è un rapporto troppo sbilanciato tra tempi determinati o somministrati e impiegati a tempo indeterminato. Inoltre, vogliamo mettere a valore l’esperienza dei Cae, organismi europei dove saremo presenti con tutte le categorie Cgil, punti di osservazione importanti per capire le scelte che farà Amazon nei prossimi anni e le sue strategie. Accertarci che il momento di contrazione non ricada anche sui livelli occupazionali in Italia. E nei territori abbiamo la necessità di verificare e negoziare alcune specificità, a partire dai carichi di lavoro”.
Orari e ritmi
Quello degli orari e dei ritmi di lavoro è il tema al centro di un tavolo di contrattazione che si sta riaprendo nell’hub di Castel San Giovanni. “Parliamo dell’organizzazione dei turni e delle nostre richieste di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, un’interlocuzione su un accordo scaduto, che è stata sospesa ad aprile – sostiene Alberto Zucconi, di Filcams Cgil Piacenza -. Per questi temi nei mesi scorsi abbiamo anche proclamato lo stato di agitazione chiedendo di aprire un dialogo e trovare un accordo. Il 25 novembre siamo fuori dallo stabilimento a distribuire volantini e ricordare le rivendicazioni della campagna”.
I turni sono una spina nel fianco anche nei siti piemontesi, dove si è passati dai classici tre a cinque: i lavoratori hanno difficoltà ad abituarsi a cinque cicli diversi, che si sviluppano su cinque settimane. “Senza contare i problemi di conciliazione legati anche alla presenza di numerose donne, pari al 30-35 per cento dei 5mila lavoratori tra diretti e indiretti – aggiunge Stefania Pugliese, segretaria Cgil Piemonte -, tanto che per il polo di Torrazza (Torino) è stata avanzata la richiesta di creare un nido aziendale. Poi c’è la questione dei carichi. Il lavoro è duro e ripetitivo e iniziano a emergere le prime patologie. La sfida adesso sarà farle riconoscere come malattie professionali tabellate”.
Lasciare qualcosa al territorio
Per la giornata di mobilitazione Make Amazon Pay oltre ai presidi e ai volantinaggi in tutti e sei gli hub piemontesi, è a Torrazza il camper itinerante della Filt, a cui partecipano le Camere del lavoro, i responsabili degli uffici migranti, le categorie provinciali. Tra i servizi offerti, lettura delle buste paga, informazioni sulla maternità, sugli assegni al nucleo familiare, supporto sui permessi di soggiorno ai tantissimi dipendenti immigrati.
“Abbiamo aperto un tavolo in Regione per ricondurre dentro un alveo istituzionale questioni importanti come la contrattazione con Amazon – prosegue Pugliese -. Queste realtà logistiche stanno diventando delle vere e proprie città, sorgono in mezzo al nulla, in zone industriali che non sono servite da niente. Per questo, l’azienda, le istituzioni e gli enti locali devono trovare una soluzione al problema del trasporto pubblico. Bisogna responsabilizzare le multinazionali affinché quando arrivano in un territorio lascino qualcosa alla collettività. A Torino per esempio la contrattazione che ho coinvolto anche il Comune ha permesso di istituire una navetta a disposizione dei lavoratori. Ma il ragionamento da fare è più ampio”.
Chi controlla i controllori?
Altra questione aperta è l’uso delle tecnologie di sorveglianza da parte della multinazionale, che devono essere coerenti con le norme, non devono creare controllo dei dipendenti, con le immagini o con i dati, per spingerli a lavorare più intensamente o più velocemente di quanto sia accettabile in termini di sicurezza e tutela della salute, né possono produrre interventi disciplinari.
Su questo fronte dopo un anno e mezzo di trattative in Sardegna i sindacati Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom insieme alla Rsa hanno raggiunto un accordo che riguarda i 1.700 lavoratori del customer care, operanti prevalentemente nel sito di Elmas (Cagliari). “Abbiamo ottenuto un reale rispetto della privacy e dell’articolo 4 dello Statuto – spiega Antonello Marongiu, Slc Cgil Sardegna -. I dati che sono registrati e raccolti devono essere analizzati dall’azienda in forma aggregata e non uno per uno. In questo modo non possono essere usati per valutare le prestazioni del dipendente. Adesso l’intesa, che prevede anche un trattamento di miglior favore sui buoni pasto, dovrà passare al vaglio dei lavoratori”.
Patrizia Pallara
24/11/2022 https://www.collettiva.it
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