Appunti sulla pandemia nella città di muri

La globalizzazione dello spazio urbano in questione
Il XXI° Secolo è stato definito come il periodo storico dell’urbanizzazione definitiva e del dominio delle città globali, quelle che concentrano il maggior livello di risorse e di persone ricche, sede delle principali corporations, delle borse valori e dei centri finanziari internazionali. Questo centralismo urbano, che si presenta come un fenomeno irreversibile, come l’esplicitazione fisica dei postulati postmoderni, è in realtà lo specchio rovesciato dei sogni urbanistici della modernità, dove si realizzerebbero gli ideali di urbs e civitas, l’esercizio pieno della cittadinanza e dell’equità sociale, insieme alla potenzialità creativa, all’inventiva e alle possibilità di progresso. Gli effetti fulminanti della pandemia sono tornati a riproporre con forza una revisione di questi postulati e ci presentano la sfida di pensare tra la continuità riformata dell’esistente, con più vigilanza e controllo, in un mondo delivery carico di timore o la possibilità di creare un nuovo paradigma dell’urbano.
Si può seguire la storia delle grandi epidemie associandole alle condizioni della vita e dell’evoluzione dello spazio delle città, tuttavia, al di là delle impattanti immagini degli inediti paesaggi di strade vuote, della vita sociale congelata e delle molteplici ipotesi sulla trasformazione nelle relazioni e nei legami interpersonali, poco o nulla si legge in questi giorni rispetto all’evidenza che mostra come la propagazione della pandemia di COVID 19 si dispiega e ha la maggiore percentuale di vittime per abitante nei principali centri urbani del Pianeta.
La valutazione degli spazi pubblici e privati, i limiti tra individuale e collettivo, la trama di nodi e nessi spaziali tessuta dai legami metabolici del commercio e dall’universo degli affari, che funzionano a tutta velocità per garantire la maggiore circolazione di persone e merci, sono finiti gambe all’aria. Il ritmo della globalizzazione capitalista si è paralizzato e ha messo in crisi la quota di profitto basata sul rapido riciclo di denaro e beni. A titolo di esempio, è sufficiente uno sguardo sui due siti iconici che rappresentano questo circuito: centri commerciali e aeroporti, consumismo e flusso mondiale di passeggeri, sono rimasti entrambi vuoti e ammutoliti. Un altro anello di questa dinamica è il controverso turismo internazionale che satura la geografia di tutto il pianeta, con un miliardo e quattrocento milioni di viaggiatori all’anno, i quali ricevono il premio, loro concesso dal capitalismo, di fuggire transitoriamente dalla società che li sottomette ad una alienazione quotidiana; questo comparto è crollato e ha messo in terapia le città che si sostentano, pulsano e soffrono al ritmo delle sue moltitudini.
Non dobbiamo farci illusioni con le immagini di animali che compiono incursioni nelle strade vuote, pensando ad una resilienza della natura che non passa da qui; la città non è posto per la fauna selvatica e la tregua del produttivismo è un sospiro: il cambiamento climatico prosegue il suo inesorabile corso e non si può analizzare la pandemia senza considerarla anche un prodotto della nostra negligenza rispetto all’ambiente.
Le misure urbane che si stanno adottando pensando al post-pandemia ci parlano di strutture delle città che consolidano il distanziamento, il controllo e relazioni sociali più gelide e mediate, norme concordate in base alla paura e non del superamento positivo della forma nella quale abbiamo organizzato il mondo urbano.
New York, Londra, Parigi, Milano, Madrid, una parte della élite del sistema di città globali, hanno mostrato la loro vulnerabilità; rapidamente tutta la ricchezza accumulata si è dimostrata impotente nell’arrestare la diffusione dei contagi e delle morti. New York, l’urbe paradigma, sintesi e modello, la più riverita e brillante, che Scott Fitzgerald ha battezzato per sempre come “La Grande Mela”, è stata la più castigata; lì, i più deboli, gli immigrati, i latinos, gli afroamericani, i senza tetto, sono le vittime più numerose.
Non hanno trovato posto nelle cliniche private, che si sono viste sommerse, evidenziando la perversità di un sistema sanitario mercificato; i morti non hanno avuto neppure la possibilità di un commiato dignitoso. Il COVID 19 ha ucciso, nella città, sei volte più persone dell’attentato terrorista alle torri gemelle, che è stato utilizzato per un cambiamento di strategia, non solo in campo militare, ma anche nei meccanismi di vigilanza e di controllo mondiale; la pandemia sarà utilizzata per un nuovo adeguamento dei già limitati spazi di libertà?
Gli USA, la più forte potenza militare del pianeta, la nazione che possiede il più sofisticato arsenale accumulato per minacciare e ricattare tutta l’umanità, quella che investe miliardi di dollari in ricerche su come ammazzare a distanza, con una tecnologia di sterminio chirurgico, non è stata capace di garantire le condizioni sanitarie necessarie a salvare le vite di centinaia di migliaia dei suoi abitanti. Le attuali urgenze e i flussi finanziari che alimentano diversi laboratori farmaceutici sono dovuti più al tentativo di recuperare nel più breve tempo possibile l’attività produttiva e finanziaria e a riprogettare una nuova normalità che consenta di ridurre i danni in futuro che alla preoccupazione per la salute della popolazione mondiale.
Anche Villa miseria è America
Il panorama mondiale sulla situazione nelle grandi metropoli è più drammatico nella regione latinoamericana, poiché in pochi decenni le sue principali città sono cresciute esponenzialmente quanto a dimensioni e popolazione, superando i loro limiti senza alcuna pianificazione, saccheggiate dalla logica di mercato, come conseguenza degli attuali modelli di accumulazione capitalista, della speculazione immobiliare e degli espulsivi risultati dell’agrobusiness e della megaestrazione mineraria predatori, con la conseguente pauperizzazione di centinaia di villaggi che generano costanti ondate migratorie in cerca di una nicchia di sopravvivenza nelle città centrali.
Nelle megalopoli del continente, alla sinergia di fenomeni negativi quali inquinamento e contaminazione ambientale, congestione del traffico, frammentazione socio-spaziale, un violento approfondimento dell’impronta ecologica, enormi distanze da percorrere per accedere ai posti di lavoro e alle lunghe ore di viaggio, bisogna aggiungere ora il fatto che il trasporto pubblico è divenuto uno dei principali mezzi di contagio e che per la loro densità, le città sono tra i maggiori centri di diffusione del virus, con la maggiore percentuale di contagi per quantità di abitanti.
Lima, che raccoglie il 30% della popolazione del Perù, accumula il 68% dei contagiati di tutto il Paese, la stessa relazione vale per Santiago del Cile con 40% e &8%, e per San Paulo che, insieme a Rio de Janeiro, con il 13% della popolazione totale del Brasile presentano il 27% degli infetti. La regione metropolitana di Buenos Aires, l’AMBA, è il caso più estremo di questa relazione: ha il 30% della popolazione di tutto il Paese e il 90% dei casi, anche se l’Argentina si differenzia dagli altri Paesi per avere la minore percentuale di contagiati e deceduti.
Così come il virus ha esposto le piaghe del sistema socioeconomico del capitalismo nella sua attuale fase neoliberista, la città celata è divenuta drammaticamente presente sui media e nelle preoccupazioni poco credibili della classe politica. La città dei muri, quelli materiali e quelli del disprezzo, ha mostrato il suo lato oscuro, miseria, abbandono e segregazione; quelli eufemisticamente chiamati “quartieri popolari” o “di urbanizzazione informale” nel gergo professionale, ricevono il colpo più duro dalla pandemia. Le consegne e i metodi per la città formale, come “resta a casa”, “lavati le mani” e altri simili, hanno dimostrato la loro inefficacia lì dove l’inerzia e l’emarginazione hanno fatto sì che la combinazione tra il virus e la fame divenga un letale meccanismo di selezione sociale.
“Anche Villa miseria è America”, è il titolo del libro pubblicato da Bernardo Verbitsky nel 1957 ed è più attuale che mai; in America Latina 100 milioni di persone, il 25% della sua popolazione, vivono in villas miseria, baraccopoli, favelas, tuguri, città perdute, accampamenti: nomi diversi per territori accomunati da povertà, dolore e rabbia.
In Italia si individua il primo caso di COVID il 30 gennaio 2020, il Brasile rende noto il 26 febbraio che, con il suo primo contagiato, il virus sarebbe arrivato nel continente, in Argentina il primo infetto si registra il 3 marzo. Lo scorso 20 maggio, quando i casi erano ormai più di 500000, la burocratica OMS dichiara che l’America Latina è l’epicentro mondiale della pandemia per i livelli di povertà e per i numerosi casi di contagio che si registrano in questa regione.
Nessuno, tantomeno gli specialisti e consulenti, può sostenere di non avere saputo che così come in Europa le maggiori quantità di vittime si sono avute nelle residenze per anziani, nel nostro continente ai geriatrici, nucleo fragile per età e mancanza di supervisione, si sarebbero aggiunti, su vasta scala, gli abitanti delle villas miseria e degli altri insediamenti poveri. Tutte le diagnosi su questa situazione esistono da decenni, sono fornite da organizzazioni sociali presenti in questi territori, da molteplici studi di ricercatori di varie discipline, da ONG nazionali e internazionali e, ovviamente, dalle istituzioni dello Stato che hanno condotto rilevamenti e sono in possesso di rapporti e statistiche che non lasciano spazio a dubbi circa la vulnerabilità di coloro che abitano questi territori.
Nel Gran Buenos Aires esistono 1800 villas e insediamenti, dove abita quasi mezzo milione di famiglie, storicamente rese invisibili, in condizioni di precarietà, carenza di infrastruttura basica per acqua potabile, sistemi fognari e pluviali, servizi di raccolta rifiuti e in case piccole nelle quali si stringono famiglie intere. Solo di recente, ora che, come prevedibile, l’asse della pandemia percorre implacabile queste enclave, dove si registra la più alta percentuale di contagi per abitanti, esse prendono corpo e acquisiscono notorietà per i media; nelle notizie gli abitanti sono solo numeri per le statistiche, disumanizzati, senza volti né storie. Le opinioni, caricate di pregiudizi e stigmi, esprimono la preoccupazione per “la bomba nucleare”, secondo le parole del Ministro per la Sicurezza di Buenos Aires Sergio Berni, un ordigno infetto che se scoppiasse e tracimasse, colpirebbe la “società formale”, coloro che sanno come prendersi cura di loro stessi.
Molti di coloro che si trovano nelle migliori condizioni per trascorrere la quarantena nelle loro case, che già da tempo si sono reclusi in rifugi di autoisolamento, nelle gabbie dorate circondate da mura dei quartieri chiusi detti gated communities, coloro che si attribuiscono il ruolo di stabilire le categorie di merito nella gerarchia sociale, reclamano misure urgenti, flessibilizzate nei loro countries, ma rigide e fatte rispettare da cordoni sanitari per i quartieri poveri, con mano dura per chi le viola; pensano solo alla loro sicurezza, poco importano le vite dei dimenticati.
La loro solidarietà declamata e applaudita, arriva a quelli della loro stessa classe, per gli altri, i differenti, i nessuno, ci sono i ghetti contemporanei, dove contenere le vittime frutto della combinazione di processi selettivi che Loic Wacquant caratterizza con il concetto di “isolamento urbano”; secondo questa posizione, si dispiegano forze di polizia con la debole scusa di proteggere le persone, aggiungendo misure più coercitive che solidali. I debiti storici dello Stato e le promesse mancate hanno già fatto il resto; i miglioramenti sono sempre stati prodotto dello sforzo proprio e di anni di richieste e lotta.
L’operazione ritorno per decine di migliaia di turisti bloccati all’estero è stata avviata immediatamente: aerei, test e alloggi hanno risposto alle richieste delle classi alte e medie, ma le misure per proteggere e curare i più poveri e gli anziani delle residenze geriatriche sono più che insufficienti e sono arrivate troppo tardi.
La crescita sostenuta degli habitat fragili e inumani che si pensavano transitori ma che, invariabilmente, diventano permanenti, dovrebbe ottenere una risposta integrale che non neghi ma che superi gli incompiuti piani urbanistici che, inoltre, non sono applicabili a tutte le situazioni. È necessaria una vera e praticabile strategia a lungo termine; una politica basata su progetti regionali che aspirino ad una distribuzione razionale della popolazione sul territorio, che si scontri con le corporation estrattiviste e con altre pratiche predatrici dell’ambiente, che smetta di considerare il suolo, compreso quello urbano, come una merce sulla quale speculare. È imperativo lavorare su un modello sociale che garantisca il buen vivir in armonia con la natura.
C’è bisogno di una società nella quale, quando si parla di salute, non si esibiscano solo statistiche su ospedali, attrezzature e medici, perché salute, come la definisce l’OMS, non è solo assenza di malattia, ma benessere fisico, mentale e sociale; questo significa che una popolazione in salute è quella che riceve alimentazione adeguata a ciascuna fase della vita, servizi di base indispensabili come acqua potabile, luce e raccolta dei rifiuti efficiente, abitazioni con le dimensioni e le condizioni di ventilazione e illuminazione necessarie, inserite in uno spazio amichevole, che permetta interazioni sociali, con un’ubicazione tale da rendere accessibili i servizi sanitari, educativi, ricreativi e prossima ai centri di lavoro: questo dovrebbe essere l’orizzonte da tenere come obbiettivo in un progetto di società degna e ugualitaria, a partire dalla pandemia e al di là di questa.
“Nulla sarà uguale” è la frase ripetuta in questi giorni, ma tutto indica che la presunta nuova normalità progettata dall’attuale ordine mondiale non riserva a milioni di esseri umani una collocazione di marginalità differente da quella che stanno subendo da generazioni.

Silvio Schachter
da http://silvioschachter.blogspot.com/
Traduzione per Lavoro e Salute cura di Gorri

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