Assegno di Inclusione: il bilancio Caritas dopo un anno

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L’Italia è oggi l’unico Paese europeo senza una misura di reddito minimo universale. È questo uno dei dati più forti che emergono dal nuovo Rapporto Caritas 2025 sulle politiche contro la povertà, diffuso l’8 ottobre.

Il documento, intitolato “Assegno di Inclusione: un primo bilancio tra dati, esperienze e possibili scenari futuri”, fotografa un anno e mezzo di vita della misura che ha sostituito il Reddito di Cittadinanza, e ne valuta gli effetti concreti su famiglie, lavoratori e servizi sociali.

Povertà senza risposte facili

La Caritas parte da un punto fermo: la povertà non è mai solo economica, ma anche lavorativa, abitativa, familiare, sanitaria e psicologica. Per questo non può essere affrontata con strumenti unici e rigidi. Il Rapporto invita a tornare a un approccio integrato, dove il sostegno economico si accompagna a percorsi di autonomia e inclusione reale.
In altre parole, “non si tratta solo di dare soldi, ma di restituire alle persone la libertà di scegliere e costruire la propria vita”.

Dall’universalismo alla “categorialità”

Con l’entrata in vigore dell’Assegno di Inclusione (ADI), l’Italia ha scelto un modello di welfare “familiare”, che non aiuta tutti i poveri, ma solo quelli che rientrano in alcune categorie: famiglie con figli minori, disabili, anziani sopra i 67 anni o persone non autosufficienti.
Il risultato è che la platea dei beneficiari si è ridotta del 40-47%, senza che le risorse siano state redistribuite ai più fragili.
Restano esclusi soprattutto: famiglie in età da lavoro senza figli minori, lavoratori poveri, stranieri, chi vive nel Centro-Nord, dove oggi si concentra il 41% delle famiglie povere ma solo il 15% dei percettori dell’ADI.

“Si è passati dal principio dell’universalismo a quello della categorialità familiare”, scrive Caritas, “riducendo la protezione proprio per chi avrebbe più bisogno”.

Stranieri, i nuovi esclusi

La riforma aveva promesso di favorire l’inclusione dei cittadini stranieri, riducendo da 10 a 5 anni il requisito di residenza per fare domanda.
Ma la nuova scala di equivalenza – che penalizza le famiglie numerose – ha avuto l’effetto opposto.
Dal 2023 al 2025 i nuclei stranieri beneficiari sono diminuiti del 40%, contro il -35% degli italiani.
Insomma, si è passati da un’esclusione “formale” (per mancanza di requisiti di residenza) a una “sostanziale”, generata dai nuovi criteri di accesso.

Caritas come “paracadute” sociale

La riduzione della copertura pubblica ha spinto sempre più famiglie verso i centri Caritas. Ma, avverte il Rapporto, non si tratta solo di un aumento numerico, bensì di un cambio di paradigma: molte famiglie che prima usavano la Caritas come supporto integrativo, oggi tornano per chiedere beni primari – pacchi alimentari, aiuti per l’affitto o per le bollette.
Questo sposta l’azione Caritas da un “trampolino” verso l’autonomia a un semplice “paracadute” per evitare il crollo, mettendo sotto pressione strutture già al limite.

Il nodo lavoro e formazione

Anche il Supporto per la Formazione e il Lavoro (SFL), nato per favorire l’attivazione dei disoccupati, mostra limiti strutturali: poche adesioni, inserimenti instabili, percorsi di formazione troppo brevi e spesso inefficaci. Molti partecipano “per non perdere il sussidio”, senza reali prospettive occupazionali.
Così, invece di stimolare l’autonomia, il sistema rischia di generare scoraggiamento e precarietà.

Povertà in aumento, fiducia in calo

Il quadro complessivo delineato da Caritas è quello di un’Italia più diseguale, dove il sostegno alla povertà rischia di diventare selettivo e frammentato. Le Caritas diocesane denunciano un “effetto rimbalzo”: famiglie che avevano trovato un equilibrio minimo con il Reddito di Cittadinanza ora tornano in emergenza. Per Caritas Italiana, serve una politica di contrasto alla povertà basata su diritti universali, non su criteri di categoria.
“L’aiuto deve arrivare alle persone in quanto tali – non per ciò che rappresentano in una scheda anagrafica”.

Un appello alla politica

Il Rapporto si chiude con un invito forte: riconoscere che l’inclusione è un processo, non una condizione. Tagliare i fondi o restringere la platea dei beneficiari non riduce la povertà: la sposta, la nasconde, o la delega alla solidarietà privata.
“L’obiettivo non è proteggere alcuni poveri, ma rendere tutti liberi dalla povertà”.

9/10/2025 https://diogenenotizie.com/

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