Autonomia Differenziata. Separati in casa con diritti diseguali
AUTONOMIA DIFFERENZIATA: CI RISIAMO!
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di Marcella Raiola
Comitati per il ritiro di qualunque autonomia differenziata

A Napoli, quando ci si trova di fronte a situazioni ampiamente prevedibili a partire da presupposti particolarmente evidenti, si usa l’espressione: “nun ce vuleva ‘a zingara pe’ ‘nduvina’ ” (non ci voleva certo una veggente per prevederlo). È proprio il caso del progetto politico di disarticolazione e decostituzionalizzazione del paese denominato “autonomia differenziata” e portato avanti con particolare spregiudicatezza e pervicacia dal ministro per gli affari regionali Roberto Calderoli. Non ci voleva la sfera di cristallo, infatti, per prevedere che la bocciatura del Referendum abrogativo della Legge 86 del Giugno 2024 contenente le “disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, comma 3 della Costituzione” avrebbe fornito a Calderoli l’assist per ripresentare nuovamente la sua legge, giustamente denominata Spacca-Italia, con qualche emendamento di pura facciata, tanto per millantare l’accoglimento dei pesanti rilievi avanzati dalla Consulta con la sentenza 192 del 3 Dicembre 2024.
La Corte, che ha esaminato la Legge 86/2024 a partire dai ricorsi avanzati da alcune Regioni, tra cui Puglia, Sardegna e Campania, non solo ha sancito l’incostituzionalità di ben 14 punti dell’articolato, ma ha scardinato la ratio sottesa alla devoluzione selvaggia e massiccia di intere materie (cioè ambiti entro cui si possono esigere i diritti fondamentali: Salute, Istruzione, Lavoro, Ambiente…), riconducendo a un modello cooperativo-solidaristico quell’interazione tra poteri e territori che il separatismo leghista – cui fin dal 2018 ha strizzato l’occhio anche il PD, con Bonaccini – sta tentando di ancorare definitivamente ad un paradigma egoistico-competitivo, sulla base di considerazioni speciose abilmente tradotte in retorica della differenza “naturale e strutturale” tra un Nord produttivo, “locomotiva” economica del paese, e un Sud parassita, da trasformare in una colonia estrattiva di forza-lavoro e risorse.
Illustri costituzionalisti hanno severamente criticato le motivazioni con cui la Consulta ha impedito al popolo sovrano di esprimersi sul quesito referendario depositato il 5 Luglio 2024 per l’abrogazione totale, non solo perché la comprensione degli elementi tecnico-giuridici non è necessaria laddove si chieda l’azzeramento di un intero provvedimento, ma anche per il paternalismo sottile che le permea. La Corte si è praticamente sostituita al popolo, proponendosi come organo esclusivamente qualificato e abilitato ad esercitare controllo e vigilanza sui passaggi da seguire per attuare l’autonomia differenziata (resa comunque legittima e possibile dal Titolo V, così come maldestramente rinnovellato nel 2001) entro una cornice definita di regole e di principi inderogabili.
È andata tuttavia persa (deliberatamente, strategicamente?), con il Referendum negato, la grande occasione di archiviare e proscrivere dal basso, con un effetto politico ben più dirompente, la tentata, inaccettabile “secessione dei ricchi”. Soprattutto, cosa di cui rammaricarsi non poco, specie nell’attuale congiuntura, è stata dissipata quell’immensa, vitale, corroborante energia politica da tempo sopita che si era sprigionata con la campagna di raccolta firme della scorsa, torrida estate; un fenomeno, questo, che ha fatto sperare che quel 1.300.000 persone che si sono indignate e mobilitate, spesso dopo anni di astensionismo e disilluso ripiegamento, potessero costituire il prodromo di un nuovo contropotere popolare, finalmente determinato ad arginare le derive neoliberiste e a riattivare una dialettica politica spenta dal fattuale “commissariamento” della democrazia da parte della finanza e dell’onnipervasivo Mercato, che oggi impone l’economia di guerra e la militarizzazione della società come aberrante exit strategy da una crisi divenuta strutturale, costruendo nemici di comodo su cui convogliare l’odio sociale con la complicità dei media mainstream (gli stessi che hanno del tutto ignorato il tema dell’Autonomia differenziata per anni).
Si deve soprattutto alla costanza e alla caparbietà dei Comitati per il ritiro di qualunque autonomia differenziata, per l’unità della Repubblica e l’uguaglianza dei diritti il raggiungimento dei traguardi di consapevolezza sociale e di contrasto materiale al progetto eversivo costituito dall’Autonomia differenziata.
È grazie ai loro appelli e agli sforzi di controinformazione e protesta profusi per sette anni, a partire dalla stipula, nel 2018, delle prime, segrete pre-intese tra Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e governo, che sindacati e partiti hanno assunto diversi impegni di lotta, avendo compreso la reale portata della legge Spacca-Italia e l’impatto devastante che avrebbe se andasse in porto.
In un recente incontro online promosso dai suddetti comitati, il Prof. Vincenzo Tondi della Mura, docente di Diritto Costituzionale presso l’Università del Salento, ha conferito speciale rilievo all’azione dei Comitati e, in generale, alla mobilitazione dal basso, a partire dalla considerazione che le riforme intraprese nel 2001 e sfociate nella richiesta abnorme di autonomia da parte delle regioni sono trasversali, sicché i partiti si trovano ad assumere la difesa di interessi antitetici nelle diverse aree del paese. Da ciò derivano ambiguità e ondeggiamenti che rischiano di trasformare i diritti imprescrittibili e costituzionalmente esigibili in merce di scambio o in un privilegio associato alla residenza.
Non bisogna pensare che il termine “eversivo” sia ideologicamente caricato o iperbolico. Il ministro Calderoli, infatti, il 30 Agosto scorso, parlando alla festa del Carroccio, ha definito la Padania indipendente “un bel sogno” da non abbandonare, suscitando lo sdegno di alcuni parlamentari dell’opposizione, che hanno denunciato, chiedendo provocatoriamente un pronunciamento alla Meloni, l’incompatibilità tra il vagheggiamento nostalgico del progetto di distruzione dell’unità del paese – che nel 1996 mostrava chiaramente la mai rinnegata matrice razzista e violentemente antimeridionalista – e il ruolo istituzionale attualmente rivestito dall’esponente della Lega.
Al silenzio del presidente del Consiglio non è estraneo il tacito patto sull’altra riforma istituzionale, quella del premierato forte, un do ut des su cui Calderoli può fare conto. Ma queste sono cose note, ovvero già ipotizzate con buoni margini di verosimiglianza prima del varo della legge 86/2024.
Di nuovo c’è che Calderoli ha ottenuto la convocazione di un tavolo (10 Settembre) per procedere celermente alla devoluzione di quelle materie che, secondo lui, non richiedono la determinazione dei LEP (i Livelli essenziali di prestazione, cioè i livelli irrinunciabili e invalicabili di erogazione dei servizi al di sotto dei quali non si può scendere senza negare l’uniformità e l’uguaglianza sostanziale sancita dall’art. 3 Cost.). La tesa situazione internazionale ha distolto e distratto la presidente del Consiglio, che ha lasciato il tavolo per volare a Bruxelles dopo l’avvistamento di droni nel cielo della Polonia, ma l’intenzione di chiudere la partita, da parte di Calderoli, c’era tutta e resta tutta.
Le materie che secondo il ministro potrebbero già essere oggetto di trasferimento sono la Protezione civile, la Previdenza complementare (per i dipendenti pubblici) e le Professioni che non contemplano l’iscrizione a un albo.
Già la pretesa di trasferire in toto alle Regioni istanti (Piemonte, Liguria, Veneto e Lombardia) intere materie e non singole funzioni disattende le indicazioni della sentenza 192/2024, che il governo è tenuto ad osservare per non incorrere nuovamente nella bocciatura per incostituzionalità. Ma c’è di più.
La sentenza della Consulta ha stabilito che va seriamente riconsiderata la distinzione tra “materie LEP” e “materie non-LEP”, perché non esistono, a rigore, ambiti o settori del tutto privi di impatto sul godimento dei diritti civili e sociali, per cui è chiaro che il ministro abbia forzato la mano, probabilmente perché persuaso che “cosa fatta capo ha” e anche, forse, nella speranza di annunciare con solennità, al raduno del “popolo padano” a Pontida (21 Settembre), l’avvenuta e agognata separazione, almeno per quanto attiene al regime economico e fiscale, dal resto del paese.
Ridurre, tuttavia, ad esigenza elettoralistica o propagandistica la trattativa che Calderoli vuole intavolare, o minimizzarne gli effetti, non è prudente né lungimirante, perché non bisogna dimenticare che la Sanità figura parimenti tra le materie immediatamente trasferibili, per via dell’esistenza dei LEA (Livelli essenziali di assistenza), che mai hanno garantito, come i rapporti GIMBE hanno più volte illustrato, un’equa distribuzione delle risorse tra territori.
Il presidente della regione Veneto Zaia ha già dichiarato che con l’autonomia differenziata sarà possibile offrire stipendi più alti al personale medico e paramedico, impedendone l’emorragia verso la Svizzera (ma anche attirare forza-lavoro da un Sud lasciato al suo destino di spopolamento e desertificazione progressiva). Anche il Rapporto sulla sussidiarietà relativo all’anno 2023/2024 (https://www.foe.it/news/fondazione-sussidiarieta-il-rapporto-sussidiarieta-2024) parla chiaro: il divario Sud/Nord riguardo alle infrastrutture sociali e alla spesa per i servizi socio-assistenziali è enorme, e ancora di più crescerebbe con l’AD.
Queste manovre, con i loro esiti sperequatori e iniqui, dimostrano che non esiste un’autonomia “buona”, e che la creazione di “piccole patrie” regionali va scongiurata. Le regioni, del resto, nacquero per compensare la conventio ad escludendum delle forze politiche maggioritarie a danno delle sinistre, che però rappresentavano, negli anni ’70, una cospicua fetta di elettorato. Con l’autonomia differenziata, esse smetterebbero definitivamente di essere unità amministrative e diventerebbero in tutto e per tutto organi di governo esposti al ricatto clientelare e a quel cacicchismo che mina alla base il ricambio, l’efficienza e la trasparenza, come dimostrano inequivocabilmente i tentativi, riusciti o falliti, di ottenere un terzo mandato da parte dei “governatori” del Veneto e della Campania.
La sentenza 192 della Consulta illustra e argomenta in modo dettagliato ed esemplare i principi inderogabili e i limiti invalicabili superati o colpevolmente trascesi dalla “bulimia competenziale” (cit. M. Villone) delle regioni desiderose di autogestirsi, ma Calderoli ha brutalmente semplificato la logica del testo, sostenendo a più riprese che la sola eccezione sollevata dalla Corte o, almeno, la sola che secondo lui abbia una cogenza e un valore condizionante rispetto alla riformulazione della sua legge, è la determinazione e quantificazione dei LEP prima della concessione delle funzioni (non materie!) alle regioni aspiranti all’AD.
Per questo ha presentato, il 19 maggio scorso, un disegno di legge-delega (una bozza) contenente 33 articoli e diviso in tre parti: nella prima, sono indicati i principi e criteri di determinazione dei LEP comuni alle diverse materie da devolvere; nella seconda, invece, tali criteri vengono associati e calcolati per settori contigui, identificando le prestazioni relative e suddividendo i LEP in “quantificabili” e “non quantificabili”; nella terza, infine, sono prospettate le disposizioni finali e finanziarie, che ovviamente precisano come ogni operazione debba essere fatta “senza ulteriori oneri” (a costo zero), e demandano al governo l’individuazione delle strategie idonee a tenere in pari i bilanci.
Nozze coi fichi secchi, dunque, ma anche schiaffo procedurale, perché la “delega” viene data dal parlamento al governo per emanare decreti legislativi, il che vuol dire che il governo resta decisore primaziale e unico, in opposizione netta a quanto intimato dalla sentenza 192, che insiste più volte sull’esclusiva e specifica competenza del parlamento in merito ad ogni questione che riguardi il riconoscimento e il godimento dei diritti.
Decidere sui diritti da garantire e sul loro finanziamento non è compito che possa essere svolto da un organo meramente “tecnico”. Tanto più che la CLEP, cioè la Commissione per i LEP presieduta da Sabino Cassese, destituita di ogni legittimità dalla sentenza 192 e abbandonata per tempo da illustri componenti (Giuliano Amato, per esempio) per le gravi carenze rilevate nel metodo e nel merito, non era né ha agito mai da organo apolitico.
La Commissione, infatti, come l’economista Gianfranco Viesti ha denunciato in un articolo del 20 Settembre 2024 su Il Fatto Quotidiano, aveva individuato nelle caratteristiche dei territori, nel costo della vita della singola Regione, nel clima (sigh!) e negli aspetti socio-demografici della popolazione residente i “criteri” per determinare i LEP. La curva demografica in picchiata, in particolare, si sta rivelando l’alleata più solida dei fautori dell’autonomia differenziata e del disinvestimento al Sud. Il ragionamento è apparentemente lineare: meno nati = meno asili, meno scuole, meno trasporti etc., ma si tratta di un sillogismo che andrebbe rovesciato, perché la presunta conseguenza, cioè la mancanza di servizi e infrastrutture, è in realtà la premessa maggiore della coatta limitazione delle nascite e della progettualità dei residenti!
In pratica, le esigenze delle regioni ordinarie con minore gettito fiscale verrebbero fissate, con valutazioni arbitrarie o sulla base di triti luoghi comuni “ai livelli più bassi possibile, soprattutto al Sud, in modo da renderli compatibili con gli attuali assetti di bilancio” (G. Viesti).
L’opzione penalizzante per il Sud è confermata dall’attuale dibattito sul PSNAI (Piano Strategico Nazionale per le Aree Interne), che ha additato al paese l’incredibile soluzione prevista per le zone di forte emigrazione e sottosviluppo: l’eutanasia pianificata!
Per tali aree, infatti (più di 900 comuni dell’entroterra del Sud), è previsto un “accompagnamento” alla fase terminale della loro vita civica, anziché una robusta iniezione di investimenti per promuovere attività e garantire lavoro e servizi.
Se la CLEP, sui cui lavori preparatori Calderoli continua a modellare le sue proposte di legge, è tutt’altro che un organismo tecnico, ancora più sfacciatamente parziale e faziosa è la Commissione tecnica per i fabbisogni standard, tra i cui membri si contano esponenti della delegazione veneta che ha trattato con il governo per il trasferimento delle 23 materie pretese.
Questa seconda e complementare commissione avrebbe il compito di quantificare i LEP determinati dalla CLEP, ma si tratta di un ingannevole finzione perequativa, come è facile capire. I LEP, cioè i diritti “essenziali” da garantire, già nella loro denominazione negano l’uniformità e l’uguaglianza dei diritti, indicando solo la soglia di allarme sociale che si raggiungerebbe in loro assenza, ma non la soglia di eccedenza su cui attestarsi per evitare che i diritti di chi ha più risorse si trasformino, tramite la privatizzazione e territorializzazione dei servizi aggiuntivi, in privilegi.
Stabilire cosa sia “essenziale” in ogni settore, poi, è impresa pressoché impossibile, mentre è facile – come spesso accade, infatti, nei documenti di questi organi “tecnici” – che si utilizzi l’aggettivo “essenziale” come sinonimo di “minimo”, il che è del tutto fuorviante, perché il nucleo minimo dei diritti sociali deve essere garantito indipendentemente dalla copertura finanziaria, anche eventualmente derogando dai tetti di spesa pubblica fissati, mentre i LEP attengono a una tutela superiore al minimo e legata all’uguaglianza sostanziale sancita dall’art. 3 Cost, tenendo conto delle risorse e degli attori territoriali coinvolti nell’erogazione (comuni, regioni etc.). Da qualsivoglia parte li si esamini, insomma, i LEP si rivelano un grande bluff e una grande presa in giro!
Anche la Scuola, che la 192 ha raccomandato di stralciare da ogni ipotesi autonomistica e di considerare tra le materie “geneticamente intrasferibili” (M. Villone), viene invece scorporata e ridisegnata, nella legge-delega che Calderoli ha fatto approvare. È un attentato alla libertà di insegnamento, alle pari opportunità dei giovani, all’unità culturale e linguistica del paese; è un pericoloso passo verso la dissipazione di un’identità faticosamente costruita e negoziata, verso il mancato riconoscimento reciproco, e, in prospettiva, perfino verso la guerra civile.
Il governo si è dato solo nove mesi di tempo per attuare i LEP tramite decreti-legge. La Lega ha fretta di compiere il suo misfatto in un momento in cui può essere certa della “distrazione” generale.
L’autonomia differenziata, dunque, sta per tornare ad essere una minaccia gravissima all’integrità del paese, con la differenza che, rispetto all’estate scorsa, l’allarme è molto meno percepito, sia perché la massa dei firmatari e, in generale la cosiddetta opinione pubblica si è persuasa che il progetto sia stato totalmente e permanentemente bocciato dalla Consulta, ovvero che l’AD non possa più sfasciare il paese, essendosi la Corte costituzionale assunta l’onere di vigilare sulle modalità e sui limiti della sua attuazione, sia perché la cornice entro cui ci si muove è drammatica come non mai.
È in atto, infatti, un genocidio, quello del popolo palestinese, condotto con spietata e disumana freddezza da parte del governo sionista di Israele, cui il governo italiano sta fornendo armi, logistica e appoggio diplomatico contro ed oltre ogni denuncia e ogni decenza.
L’orrore della pulizia etnica, dell’uso della fame come trappola di morte, del sistematico omicidio di giornalisti, medici e operatori umanitari, trasmesso “in diretta” e con la copertura inverosimile e sfacciata dei media, che giustificano le patenti violazioni di Israele e la brutalità dei suoi metodi azzerando gli 80 anni precedenti di esproprio e colonizzazione delle terre palestinesi, nonché ignorando dichiarazioni inequivocabili dell’ONU e storiche o recentissime sentenze di condanna della Corte internazionale di Giustizia e della Corte Penale internazionale, relega fatalmente in secondo piano le vicende nazionali.
Del resto, la congiuntura è tale da mettere a rischio sia la tenuta del quadro assiologico del superbo “Occidente”, che sta mostrando la natura predatoria e prevaricatoria delle sue vantate istituzioni democratiche, sia la credibilità delle istituzioni internazionali e dell’Unione Europea, convertitesi ad un’economia di guerra gradita agli USA ma devastante per i popoli, cui sono sottratte le ultime risorse del welfare per un folle progetto di riarmo che prosciuga le casse e vincola gli Stati con nuovi piani pluriennali di indebitamento.
Eppure, non bisogna abbassare la guardia. I Comitati per il ritiro di qualunque AD continuano a sollecitare interventi e risposte, ad esempio con la richiesta di accesso civico generalizzato agli atti riguardanti eventuali istanze regionali di autonomia differenziata, e a mantenere alta l’attenzione, riscuotendo, in qualche circostanza, clamorosi successi. È il caso dell’atto di indirizzo emanato il 19 Febbraio scorso dalla Regione Emilia Romagna – anche grazie alla petizione locale e alla LIP (legge di inziativa popolare) presentate dal locale Comitato -, con il quale la Regione sconfessa le pre-intese siglate da Bonaccini e si impegna formalmente a non chiedere trasferimenti di funzioni, avendo compreso la natura intrinsecamente involutiva dell’AD e prevedendo un regresso non solo nell’accesso ai servizi ma anche nella distribuzione dei carichi fiscali e nella gestione dei costi dell’amministrazione.
Non bisogna dimenticare, infatti, che l’AD comporta la devoluzione di un certo numero di funzioni per ogni comparto, non di tutte, il che vuol dire raddoppiamento degli uffici (centrali e periferici), con pesanti ricadute sull’iter burocratico.
Sulla scia di quest’affermazione incoraggiante, i Comitati hanno deciso di lanciare delle petizioni regionali per vincolare le Giunte e i presidenti – attuali e futuri, vista l’imminente tornata elettorale – ad assumere pubblicamente ed ufficialmente un impegno simile a quello che si è preso il presidente dell’Emilia Romagna.
Attualmente, le regioni impegnate nella raccolta firme, che possono essere apposte sia ai banchetti che online (piattaforma: openpetition), sono Lazio, Lombardia, Campania e Piemonte.
Oltre 3000 le firme già raccolte nel Lazio in pochi mesi, grazie al poderoso sforzo dei tenaci attivisti e alla determinazione dell’infaticabile portavoce nazionale dei Comitati, la prof.ssa Marina Boscaino, che ha coordinato e promosso una mole enorme di interventi, incontri, webinar e assemblee, favorendo e suscitando riflessioni utili, analisi autorevoli e momenti proficui di divulgazione.
I Comitati attivi nelle regioni in cui si voterà per il ricambio della Giunta regionale si stanno predisponendo a contattare i candidati perché includano il “no” all’autonomia differenziata tra i punti programmatici della loro piattaforma, o sostengano apertamente le petizioni popolari, affiancando i membri dei Comitati.
Qualcuno potrebbe pensare che gli stravolgimenti in atto a livello mondiale, con la probabile, traumatica revisione degli assetti geopolitici in vista, vanifichino de facto le preoccupazioni per gli effetti contingenti e circoscritti di un provvedimento che, in fondo, certifica e istituzionalizza divari già esistenti, ai quali, come l’emigrazione giovanile e la curva demografica calante dimostrano, le popolazioni sono praticamente rassegnate.
Non è così. Tutto si tiene. L’AD è la disperata, squallida risposta che la borghesia in crisi del Nord vorrebbe dare al processo inarrestabile di concentrazione dei capitali nelle mani di quei pochissimi magnati che dettano le priorità ai governi, “affittano” intere città d’arte per farne la scenografia delle loro feste private e guardano con appetiti sempre crescenti alle risorse di Stati che possono essere strumentalmente e agevolmente rappresentati come potenziali o effettivi nemici. Contrastare l’Autonomia differenziata significa rifiutare la logica della guerra come strumento ordinativo degli interessi e regolativo dei diritti. Respingere ogni ipotesi di autonomia differenziata significa respingere moralmente l’ipotesi di salvare la propria vita e garantire il proprio benessere a detrimento della vita e della dignità dell’esistenza altrui; significa rifiutare l’inferiorizzazione funzionale degli altri, che sempre si accompagna ad un’autoassoluzione di comodo. Significa, insomma, restare umani.
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