Capitalismo finanziario: il problema che Trump fa finta di non vedere

di Luigi Pandolfi (giornalista)
Ci vuole un po’ di pazienza per capire quello che sta accadendo e quello che potrebbe accedere a seguito della – annunciata – guerra protezionistica scatenata da Donal Trump. In premessa, come una parte della stessa sinistra americana riconosce (Bernie Sanders, in primis), c’è da dire che il punto di partenza del tycoon non è affatto sbagliato. Gli Stati Uniti scontano un problema di deindustrializzazione e questo ha fatto molto male ai lavoratori e alle classi popolari. È sbagliato però ricondurre questo fenomeno esclusivamente a un problema di equilibrio nel commercio mondiale. La narrazione dell’America vittima dei suoi furbi partner commerciali non regge alla prova dei fatti, e della storia. Tanto quanto i parametri adottati per quantificare i dazi che gli altri Paesi imporrebbero alle merci americane (la famosa formuletta che divide i surplus di ciascun Paese per le esportazioni totali verso gli Usa).
Da cinquant’anni gli Usa importano più di quanto esportano e questo ha determinato un’esplosione del debito estero pubblico e privato, ovvero uno squilibrio nella contabilità nazionale? Sì, certo. Ma a pensarci bene, si è trattato più che di una punizione di un privilegio concesso all’impero, che, a differenza dei Paesi ’normali’, non si è mai dovuto preoccupare della sostenibilità dei propri bilanci, potendo stampare dollari a piacimento per la sua spesa pubblica in disavanzo (un fenomeno favorito dalla totale smaterializzazione del denaro dopo la fine di Bretton Woods).
Certo, di questo ne hanno risentito pezzi di manifattura locale, ma Trump si guarda bene dal denunciare l’affarismo dei pescecani di Wall Street, che, con i soldi dei Paesi in surplus, hanno realizzato in questi anni le proprie fortune stramiliardarie a suon di bolle speculative. Soldi che poi, per una parte, sono stati impiegati per colonizzare la stessa industria europea (e non solo), dalle armi alle telecomunicazioni, fino all’automotive.
Come dimostra la composizione della ’bilancia dei pagamenti‘ americana, che, come si sa, non è fatta solo dal conto commerciale (merci), ma anche dal conto dei servizi, da quello del capitale e da quello finanziari. E per quanto riguarda i ’servizi‘ e le ’attività finanziarie‘, la bilancia Usa è addirittura in attivo (+294 miliardi di dollari nei servizi nel 2024), il che significa che ci sono partner che su questo versante vanno sistematicamente sotto (servizi finanziari, circuiti bancari, piattaforme), come Washington su quello dei beni.
All’operaio che si è portato sul palco allestito nel Giardino delle Rose della Casa Bianca, The Donald avrebbe dovuto spiegare perciò che i suoi problemi sono figli del capitalismo finanziario, più che del vino italiano o della lana cinese. Che gli Stati Uniti rappresentano l’hub finanziario del mondo e che la finanziarizzazione dell’economia, nel quadro della globalizzazione neoliberista di cui proprio gli americani sono stati gli alfieri, è alla radice del fenomeno della svalutazione del lavoro e dell’esplosione delle disuguaglianze e della povertà (il tasso è ormai sopra il 16%).
Non l’ha fatto perché egli stesso, insieme alla sua corte, rappresentano pezzi importanti del sistema parassitario costruito negli ultimi decenni. Non è un caso che alla guida del Tesoro abbia messo un gestore di hedge fund, il miliardario Scott Bessent. E sebbene ci siano grossi fondi come BlackRock che stanno criticando la sua furia protezionista, tanti altri finanzieri, speculatori e magnati dell’industria stanno dalla sua parte, convinti di potersi ulteriormente arricchire grazie allo scossone dazi.
Lo stesso crollo delle azioni delle big tech dopo l’annuncio dei dazi va letto in questo quadro. Titoli sopravvalutati rispetto ai fondamentali aziendali dentro un sistema in cui la ’sovrastruttura finanziaria‘ (senza considerare i derivati e il sistema bancario ombra) è il doppio del Pil del Paese.
La finanziarizzazione dell’economia negli Stati Uniti — un processo iniziato in modo marcato dagli anni ’70 e accelerato negli anni ’80 e ’90 — ha avuto infatti profonde conseguenze sull’economia reale, sul tessuto industriale, sull’occupazione e sulla distribuzione della ricchezza.
C’è stato un progressivo disinvestimento nella produzione, con le imprese che hanno sempre più privilegiato la rendita finanziaria (ad esempio buyback azionari, investimenti speculativi) rispetto all’investimento in impianti, macchinari o innovazione tecnologica industriale. Un fenomeno che è andato di pari passo con la delocalizzazione produttiva. Il risultato è stato un calo vigoroso del peso della manifattura sul Pil, con la deindustrializzazione di interi territori, come la Rust Belt.

Quindi un’esplosione delle occupazioni nei servizi, spesso più precarie e peggio pagate, crescita dell’economia gig [modello economico basato sul lavoro a chiamata, occasionale e temporaneo, NdR] e del lavoro part-time, spesso senza benefici o sicurezza occupazionale.
Il crescente potere del settore finanziario ha comportato pertanto una concentrazione della ricchezza nelle mani di manager, azionisti e investitori. I salari reali della maggior parte dei lavoratori sono rimasti stagnanti, mentre i profitti aziendali e le remunerazioni del top management sono esplosi. Non solo. L’accesso al credito è stato utilizzato come surrogato del reddito (il cosiddetto keynesismo privatizzato), con le classi popolari che hanno fatto sempre più affidamento sul debito (mutui, carte di credito, prestiti studenteschi) per mantenere un certo standard di vita, contribuendo in questo modo a rendere più instabile il sistema (l’ultima crisi finanziaria è figlia di questo meccanismo).
Evidenze che dovrebbero rappresentare un promemoria per Donald Trump e i suoi collabori che vogliono rilanciare l’industria americana e tutelare la classe operaia, che invece spostano all’esterno lo sguardo, rovesciando i fondamentali della storia economica e sociale del Paese.
Che la ricetta di Trump, comunque pasticciata e gravida di rischi per lo stesso ambiente finanziario americano, sia interna a una strategia neo-conservatrice, lo dimostra anche la riproposizione di politiche economiche e fiscali di stampo neoliberista. Lo Stato che combatte la sindacalizzazione dei lavoratori e riduce le tasse ai ricchi (tra queste la riduzione della tassazione sulle società dal 21% al 15%). Meno entrate che però producono più disavanzi, ragione per cui il tycoon ha messo nel mirino tutte le istituzioni di governo e di controllo indipendenti, a cominciare dalla Federal Reserve. Lo schema è semplice: il debito per favorire imprese e magnati della finanza, secondo la logica vecchia e fallace del Trickle down (favorendo i ricchi ci saranno benefici per tutti).
Ma il debito è un problema oggi per gli Usa. Una montagna di 34 trilioni di dollari che genera una spesa annua per interessi di circa mille miliardi. Il dollaro è ancora forte nelle transazioni internazionali, ma non come un tempo. Dopo molti decenni, si affaccia anche a Washinton un problema di sostenibilità della finanza pubblica. Da qui l’idea di usare i dazi come arma di ricatto verso i partner commerciali per costringerli a sottoscrive obbligazioni a lunghissima scadenza, fino a cento anni.
Un modo per continuare a vivere sulle spalle del mondo. Se ci riusciranno.
15/4/2025 https://attac-italia.org/
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 54 di Aprile- Maggio 2025: “L’Europa che non c’è“
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