Colonialismo. La passione di Montanelli per gli ustascia

Si sa delle omissioni di Indro Montanelli sul colonialismo. Meno noto è il suo interesse per il mondo reazionario balcanico, in particolare per Ante Pavelić e il suo movimento politico

Reporter di guerra, editorialista brillante, divulgatore storico, direttore e fondatore di quotidiani, Indro Montanelli è forse il più noto giornalista italiano. La sua fama è tale che la città di Milano gli ha addirittura dedicato una statua. Una statua, anche questo è noto, che ha suscitato feroci critiche, tanto da essere stata più volte l’obiettivo di proteste simboliche da parte di attiviste femministe e anticolonialiste. 

Montanelli non è stato infatti solo un giornalista. Da giovane studente universitario si è arruolato volontario nell’esercito fascista partecipando entusiasticamente alla guerra d’Etiopia. Un entusiasmo che non ha mai nascosto nemmeno in tarda età, negando fino all’ultimo i crimini di guerra e ammettendo l’uso delle armi chimiche da parte dell’esercito italiano solo dopo molti anni di scontri dialettici con lo storico Angelo del Boca. Più di tutto è stupefacente la sua incapacità di confrontarsi, anche a distanza di decenni, con le proprie avventure «sentimentali» in terra d’Africa, tra cui un presunto matrimonio con una bambina eritrea di 12 o 13 anni (a seconda delle versioni). 

Meno noto è l’interesse di Montanelli per il mondo balcanico, e in particolare per Ante Pavelić e il suo movimento politico, gli Ustascia (Ustaše). Pochi anni dopo l’avventura africana, il giornalista toscano pubblicava infatti un lungo reportage in quattro puntate dalla Croazia. Era passato un anno dalla creazione, grazie all’alleanza con l’Italia fascista, dello stato collaborazionista croato guidato dal poglavnik Ante Pavelić. Quei territori erano devastati dalla guerra civile, innescata dall’obiettivo di creare uno Stato «etnicamente» puro, ripulito da ogni minoranza. Il governo ustascia aveva messo fuori legge le comunità rom, ebraica e serba, dando poi in breve tempo l’avvio a un vero e proprio sterminio di quelle popolazioni. Conversioni forzate di massa, espulsioni violente, pogrom e campi di concentramento sono lo scenario di terrore e violenza in cui il giovane Montanelli si trova a scrivere in quei giorni. «Succedevano tali cose che non ne riferii quasi nulla perché capivo che il giornale non poteva stamparle», scriverà sessant’anni dopo. 

Dunque Montanelli sa ciò che accade attorno a lui, ma invece di un atteggiamento perlomeno neutrale, preferisce presentare gli ustascia sotto una luce quasi idilliaca. I quattro articoli vengono pubblicati sul Corriere della Sera nel luglio 1942. 

La narrazione è brillante, come spesso accade alla prosa di Montanelli. Si legga per esempio la vivida descrizione dell’atavica vita contadina nel cuore della Jugoslavia dell’epoca: «Le capanne sono costruite di fango e di paglia. C’è un’unica stanza con un focarile in mezzo, e confinata qui dentro dall’inverno vive la famiglia». In questo scenario si staglia la figura di Pavelić e dei suoi ustascia, «uomini nuovi» – scrive il 7 luglio del 1942 – «animati da profonda fede», pronti a «risolvere problemi enormi, complicatissimi. I primi di questi problemi furono quelli delle minoranze». 

Al «problema delle minoranze» è dedicato il terzo articolo, edito il 9 luglio, dove Montanelli presenta il metodo adottato dagli ustascia verso le decine di migliaia di ebrei e rom, e i due milioni di serbi inclusi nello Stato indipendente croato. Si tratta di un reportage dal lager di Jasenovac: l’unico campo di sterminio in Europa non governato direttamente dai nazisti, ma appunto dagli ustascia croati. È un luogo terribile, dove trovano la morte decine di migliaia di persone, lasciate morire di fame e di stenti, ma anche massacrate ogni giorno dai guardiani del campo, spesso con metodi particolarmente brutali. In quei mesi il campo è amministrato da Miroslav Filipović, detto «Fra Satana», un frate francescano noto per il suo estremo sadismo.  

Cosa racconta di tutto questo Montanelli? Sostanzialmente niente. È possibile immaginare che il campo fosse stato preparato per la visita e che il giornalista avesse incontrato soltanto le guardie del campo e qualche detenuto appositamente imbeccato. Tuttavia il giornalista non sembra aver intuito nemmeno lontanamente le reali condizioni del luogo, non pare aver colto niente dell’inferno in cui si trovava. «C’è a Jasenovac un campo di concentramento […] costituito da un insieme di baracche di legno e ha l’aria di un cantiere fra il campagnuolo e l’artigiano, molto ben tenuto e silenziosissimo», scrive Montanelli. «Gl’internati lavorano otto ore al giorno […], non sono nutriti male. Hanno libri da leggere. E una relativa libertà nelle ore di riposo». Insomma, uno dei luoghi di morte peggiori della storia viene rappresentato come un normale cantiere in attività! Certo, «dovunque regna la stessa ferma disciplina, la stessa regola di vita monacale, che le guardie ustascia non solo impongono al loro gregge, ma condividono con esso, soggette anch’esse ad una giustizia amministrata con assoluta inflessibilità, pena la morte». Insomma, Montanelli non pare nascondere una certa fascinazione per la ferma disciplina degli ustascia, che, secondo lui, essi esercitavano anche contro sé stessi. «Tutto questo non faccia trasalire il lettore italiano», scrive il giornalista nello stesso articolo. Ma è difficile non trasalire ancora oggi di fronte a tanto orrore celato. 

Potremmo considerare questa serie di articoli un errore di gioventù, come l’avventura coloniale africana e lo stupro della bambina eritrea. Ma la passione di Montanelli per Pavelić permane anche dopo la guerra, quando i crimini degli ustascia sono diventati di dominio pubblico. In un articolo del 1955, sempre sul Corriere della Sera, il giornalista toscano torna a parlare del leader croato, sostenendo di averlo incontrato nella pampa argentina. Pavelić si era davvero rifugiato in Sudamerica, sfuggendo alla condanna per i suoi crimini, e da lì a poco avrebbe subito un attentato da parte di un agente segreto jugoslavo. Uno dei peggiori criminali della storia, al tempo rimasto impunito come molti altri nazisti, viene presentato da Montanelli come un vecchio muratore in tuta da lavoro, circondato dai suoi fedeli aiutanti. Nessuna critica alla sua politica, né alle modalità della fuga grazie alla complicità del Vaticano, descritta come quella di un normale profugo: «passo passo e col sacco sulle spalle», dall’Austria all’Italia e poi in Argentina.

Ma non è tutto. Sempre sul Corriere della Sera appare un altro pezzo – l’ultimo, che io sappia – datato 2000. Sono passati quasi sessant’anni dal primo incontro con Pavelić e quarant’anni dalla sua morte, eppure Montanelli non sembra aver cambiato opinione. Rispondendo a una domanda di un lettore, Massimiliano Ferrara (più tardi autore di alcuni saggi storici sul tema), racconta ancora una volta dei suoi incontri con il leader croato. È l’occasione per vantare alcune avventure giovanili: un arresto del 1934, l’intervista pericolosa del 1942, la visita in Argentina del 1955. Ma Montanelli non si lascia sfuggire l’opportunità per insinuare alcune critiche feroci alla resistenza jugoslava, perfettamente in linea con il revisionismo storico che cominciava a imporsi in Italia negli anni Novanta. Scrive ad esempio che Pavelić «non mi fece alcun mistero dei metodi con cui il suo regime combatteva le forze partigiane di Tito, che non ne usava di migliori», quasi come se il genocidio perpetrato dagli ustascia non fosse che la logica reazione alle presunte brutalità partigiane. E ovviamente non manca il riferimento alle foibe, del tutto gratuito e fuori luogo: «i reciproci trattamenti erano quelli, che poi dovettero pagare gl’italiani d’istria e Dalmazia nelle ‘foibe’ in cui gli altri italiani, quelli delle brigate comuniste, aiutarono i ‘compagni’ titini a seppellirli». 

Per sessant’anni dunque il giornalista più noto d’Italia, l’autore di innumerevoli editoriali sui più importanti quotidiani italiani, il simbolo dell’egemonia culturale conservatrice che ha dominato tutta la Prima Repubblica, non ha mai cambiato opinione sugli ustascia e sul loro leader. In tutti i suoi articoli, colui che nel 2000 definisce con ironia «un criminale di guerra che più criminale non si può», viene sempre rappresentato come un uomo tormentato ma in fondo giusto, un buon padre di famiglia costretto a ricoprire un ruolo troppo grande per le proprie capacità. I suoi spietati aguzzini, gli ustascia, vengono descritti durante la guerra come asceti dediti anima e corpo alla propria missione, per diventare, dieci anni dopo, pacifici muratori in esilio. Mai, nemmeno molti decenni dopo la fine della censura di regime, Montanelli ha sentito il dovere almeno professionale di descrivere i crimini terrificanti da loro commessi e di cui doveva certamente sapere. Perché? 

Non ci possono essere dubbi: Montanelli ha sempre mostrato empatia per la causa ustascia, è sempre stato dalla loro parte. Possiamo ipotizzare che non ne apprezzasse i metodi (sui quali ha però sempre espresso solo una generica critica), ma certamente ne condivideva la linea politica e gli obiettivi: un nazionalismo estremista e la crociata anticomunista. 

Forse vale la pena che gli amministratori della città di Milano sappiano che, insieme al provetto giornalista e al colonialista distratto e pedofilo, la statua di Montanelli celebra anche il sostenitore degli ustascia, un movimento politico colpevole di genocidio.  

Tutti gli articoli citati sono disponibili on-line sul sito del Corriere della Sera.

Eric Gobetti è uno storico freelance, studioso di Jugoslavia e seconda guerra mondiale. È autore di due documentari , un romanzo ) e diversi volumi di storia editi da Laterza .

19/2/2925 https://jacobinitalia.it

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *