Come non stiamo finanziando la cura

Diversamente dal Ponte sullo Stretto, salvo ripensamenti dell’ultima ora, nulla è previsto nella legge di bilancio per l’attuazione della Legge 33, la celebrata riforma per le persone anziane non autosufficienti approvata lo scorso marzo.

Il Piano nazionale di ripresa (Pnrr) prevede l’obbligo, per l’Italia, di emanarne i decreti attuativi entro gennaio 2024 –  che forse sarà formalmente rispettato, ma con il rischio che i decreti delegati, in mancanza di risorse, si limitino a essere vuote dichiarazioni di principio. 

L’ampia coalizione che aveva promosso la riforma, il Patto per la non autosufficienza, ha formulato dettagliate proposte per i decreti legislativi, consegnate alla Viceministra per il welfare Maria Teresa Bellucci.

Anche tenendo conto degli stretti vincoli di spesa che ne limitavano la messa in opera, era lecito aspettarsi  dalla legge di bilancio una manifestazione concreta di attenzione verso la riforma – attenzione che non può prescindere dalla destinazione di risorse economiche, se si vuole uscire dalle pure affermazioni di principio. 

Le associazioni avevano chiesto un miliardo e 300 milioni per partire, su un budget complessivo di legislatura tra i 5 e i 7 miliardi. Al momento, la legge di bilancio non prevede nessuno stanziamento.

Come evitare che la riforma finisca per essere solo una lista di buone intenzioni destinate a rimanere sulla carta? 

I punti fondamentali dai quali “cominciare” – gradualmente ma da subito – per mettere in atto la riforma, sostiene il Patto, sono principalmente un’assistenza domiciliare specificamente progettata per la non autosufficienza, finora assente – quella attuale è a carattere unicamente sanitario e non sociale, limitata nel tempo (non oltre due o tre mesi) e nell’intensità delle prestazioni (circa 18 ore l’anno), destinata a pazienti in uscita da un ricovero ospedaliero. 

Il Pnrr prevede attualmente il raddoppio della platea delle persone destinatarie, fino al 10% di chi ha più di 65 anni, senza però modificarne le caratteristiche. La nuova assistenza domiciliare dovrebbe differenziarsi per la lunga durata, adeguata ai bisogni delle persone anziane non autosufficienti, per la molteplicità degli interventi sanitari e sociali previsti e per il coordinamento tra Asl e Comuni.

Nei servizi residenziali dovrebbe essere migliorata la qualità dell’assistenza fornita alle persone anziane che vivono al loro interno, facendo in modo che si occupa professionalmente di cura dedichi più tempo a ogni persona assistita. 

Nei trasferimenti monetari, la prestazione universale deve integrare l’indennità di accompagnamento, che oggi è uniforme anche in presenza di bisogni differenziati. Gli importi della prestazione universale devono essere superiori per chi versa in condizioni più gravi e per chi sceglie di impiegare la prestazione per ricevere servizi di qualità, assumendo come badanti persone formate e regolarizzandole. 

Infine, occorre introdurre un sistema di monitoraggio dei livelli essenziali di prestazioni sociali (Leps) finora mancante, che consenta alle Regioni di verificare l’adempimento effettivo di quelli teoricamente già in essere – percorso assistenziale integrato, assistenza domiciliare sociale, dimissioni protette, servizi sociali di sollievo, servizi sociali di supporto.

La stessa situazione di stallo si verifica per le altre due riforme incardinate nel Pnrr che dovevano funzionare in parallelo con quella per la non autosufficienza: quella sulla disabilità, realizzata con la legge delega 227/21 e di competenza del Ministero per le disabilità, e quella sulla medicina territoriale (Decreto ministeriale DM 77/2022), di competenza del Ministero della Salute. 

Quest’ultima prevedeva per ciascun distretto delle Asl una centrale operativa territoriale, a cui dovevano afferire un ospedale della comunità (uno ogni 100 mila abitanti), due case della comunità (una ogni 40-50 mila abitanti) e tutta la rete di assistenza domiciliare, residenza sanitarie assistenziali e hospice.

La recente rimodulazione del Pnrr ha introdotto sostanziali ridimensionamenti rispetto a questi standard: sono state eliminate così 414 case di comunità su 1.350, 76 centrali operative territoriali su 600, e 96 ospedali di comunità su 400. 

Le case della comunità, in particolare, sarebbero state la sede naturale dei Punti unici di accesso previsti dalla Legge 33, dove persone anziane e caregiver avrebbero potuto ricevere informazioni e supporto per una presa in carico, in un’ideale “città dei 15 minuti“. 

Le difficoltà a reclutare per le case di comunità il personale sanitario, in particolare di medicina generale, e l’impossibilità di destinare alle spese correnti di funzionamento le risorse dei fondi del Pnrr, vincolate a nuovi investimenti, hanno fatto il resto.

In compenso, la legge di bilancio – oltre a non aver dato risorse per l’attuazione della riforma – tenta di ricavare (piccole) risorse finanziarie combattendo l’evasione fiscale di colf e badanti

Ma attenzione: non si combatte l’evasione contributiva di tante famiglie e datori di lavoro, ma l’eventuale mancato pagamento dell’Irpef da parte di colf e badanti, conosciute dal fisco perché destinatarie di regolari contributi Inps e che non rispettano l’obbligo di pagare il 23% di Irpef sulla parte di reddito che supera la no tax area, pari a circa 8 mila euro annui. 

Con l’ovvio risultato di incentivare il nero – anche le famiglie avrebbero una ragione in più per evadere i contributi previdenziali. 

Che il fisco cominci dalle colf per perseguire l’evasione, è un amaro paradosso. Che poi ascriva i potenziali proventi della “caccia” al capitolo entrate aggiunge, al danno, la beffa.

Leggi il dossier di inGenere su come cambia il lavoro di cura

Mara Gasbarrone

7/11/2023 http://www.ingenere.it/

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