Corpo migrante e frontiera
Roberta Derosas 1
«Non è solo una questione di parole. Non riguarda solo i termini giusti da trovare per descrivere ciò che avviene ai bordi dell’Europa. È come se la consapevolezza del sommovimento del mondo vada scemando a mano a mano che ci si allontana da quei bordi e si penetra nel cuore dell’Occidente.
Accade a Roma, Milano, Parigi, Francoforte. E invece c’è una faglia sotterranea che taglia in due il Mediterraneo da est a ovest. Dal Vicino Oriente fino a Gibilterra. Una linea fatta di infiniti punti, infiniti nodi, infiniti attraversamenti. Ogni punto una storia, ogni nodo un pugno di esistenze. Ogni attraversamento una crepa che si apre. È la Frontiera. Non è un luogo preciso, piuttosto la moltiplicazione di una serie di luoghi in perenne mutamento, che coincidono con la possibilità di finire da una parte o rimanere nell’altra» (Alessandro Leogrande) 2
La narrazione dell’attraversamento dei confini da parte delle persone migranti che ho incontrato durante gli anni di accompagnamento sociale, talvolta dettagliata e drammaticamente cruda, talvolta rapida e carica di silenzio e vuoto, è stata sempre fonte di domande per me.
Col tempo, la conoscenza più approfondita della rotta libica, l’ascolto di storie che parlano dell’attraversamento del territorio nordafricano e dei trattamenti inumani e degradanti riservati agli esseri umani che tentano, talvolta per anni, di raggiungere la Fortezza Europa, hanno alimentato la mia riflessione.
La relazione tra di Corpi migranti e frontiere e i naufragi raccontati dalle immagini più crude, è stata facilitata anche dalle reti sociali: dal naufragio di ottobre 2013 al largo di Lampedusa; alle foto del corpo del piccolo bambino dalla maglietta rossa, Aylan Kurdi, tristemente accarezzato dalle onde di una spiaggia della costa turca fino al naufragio di Cutro.
Quello al largo di Portopalo di Capo passero del 1996 raccontato di Giovanni Maria Bellu 3 è forse uno dei primi che ha attirato la mia attenzione.
Che la migrazione sia un fenomeno che esiste da sempre, non è una novità. Quello che cambia, sempre meno spesso, è il tipo di narrazione che se ne fa.
Si parla di flussi, leggi, confini geopolitici quando si affronta l’argomento in termini politici; se osservato da un’ottica economica, ci si concentra sul lavoro, sulle risorse e sulla gestione dei movimenti delle persone in relazione al mercato globale; in sociologia, si pensa alle “sfide” che la migrazione invita a raccogliere in relazione ad aspetti come integrazione, cultura, istruzione.
In diritto, leggi e trattati provano a gestire il fenomeno. In ambito sociale, si riflette spesso sull’accoglienza delle persone che arrivano da altri paesi, ma raramente si ha tempo di incontrarle davvero, per ragioni politiche, di governance, per questioni economiche, di finanziamenti e di fondi.
Troppo spesso il racconto del fenomeno migratorio dimentica di lasciare posto a chi è il vero protagonista del processo: la persona migrante.
Le analisi, le ipotesi, le narrazioni, non interpellano l’Altro. Si parla di migranti, con, a favore o contro, ma raramente si ascolta la loro parola per definirsi e raccontare quale sia la loro intima e personale esperienza di e in frontiera.
Questo lavoro, che è solo all’inizio, è una voce tra la moltitudine di quelle esistenti che parlano di migrazione e frontiere. Alcune di esse sono più fedeli, più evocative, precise, intense. Quelle che si traducono in immagini e in video sono probabilmente le voci che hanno un impatto più forte, forse più immediato.
Ma questo non significa che tutte siano necessariamente le più corrispondenti alle persone che sono raccontate o che si raccontano attraverso di esse 4, perché l’osservatore non sparisce mai quando racconta, se riesce nello sforzo di non essere l’unico soggetto.
Tra le voci che raccontano la migrazione, i processi migratori, gli sbarchi, “le invasioni”, le morti in frontiera, alcune riescono, con la loro esattezza e fedeltà, a proiettare chi osserva nel mondo di chi compie un viaggio e attraversa paesi compiendo un processo migratorio. Queste voci traghettano l’osservatore-lettore nel mondo di chi percorre, nell’universo del corpo migrante.
La mia voce, qui, tenta di fare la stessa operazione e raccontare la migrazione nel rispetto della dignità di chi attraversa i confini. L’immagine cerca di narrare la migrazione mettendo al centro ed evidenziando le persone in movimento, nel tentativo di restituire loro dignità.
Le foto sono “una realtà nuda”: veicolano la narrazione di chi racconta e non la volontà di chi ascolta, possono permettere di ritracciare percorsi, di vedere la realtà dei corpi in movimento, di ascoltarla con le immagini, la libera dall’obbligo della prova, a cui la persona migrante è costretta.
Per restare all’interno della fortezza che hanno tentato di attraversare, i corpi migranti devono apportare prove, mostrare che le cicatrici del corpo corrispondono alla narrazione orale del racconto del movimento attraverso le frontiere.
Le politiche di frontiera impongono la ricerca di una Verità 5 impossibile da dimostrare, in cui si domanda di rendere oggettivo il vissuto e l’emozione: quanto di più complesso. I segni, che siano sul corpo o nell’anima, vanno esposti come trofei che testimoniano. Soprattutto permettono di ottenere un merito: quello di restare nel paese che si è raggiunto.
Questo lavoro nasce proprio dalle cicatrici dei corpi, dalle parole che non possono essere dette, i racconti che non hanno spazio d’ascolto perché chi li porta non è stato accolto, o non è mai arrivato a destinazione. La necessità di questa mia narrazione nasce dal mio incontro con un uomo ceceno, richiedente asilo a Marsiglia, a cui fu chiesto dalle amministrazioni competenti della sua domanda di protezione, di fornire prove concrete per sostenere la veridicità della sua storia.
A quell’uomo fu domandato di recarsi da un medico che potesse certificare che i segni del suo corpo corrispondevano al tipo di tortura subita e che uno psichiatra, allo stesso modo, dimostrasse che la patologia da cui era affetto fosse in legame diretto con la sua storia di persecuzione e tortura.
La volontà alla base della domanda non era quella di conoscere la storia di una persona, ma di provarne l’autenticità. Non importava cosa l’uomo sentisse o avesse provato, come lui fosse riuscito a sopravvivere alla tortura.
Bisognava provare che le cicatrici presenti nel suo corpo fossero state causate dai fili elettrici con cui raccontava di aver subito tortura. Dopo la liberazione dal carcere in cui era stato violentato, questo uomo era riuscito ad attraversare numerose frontiere e tutte avevano lasciato segni visibili, nel suo corpo e nella sua psiche.
Il dovere di fornire una prova mi ha spianta a interrogarmi sull’impatto che l’attraversamento delle frontiere ha sul corpo delle persone migranti, che portano tutte i segni del loro percorso migratorio.
Ma non solo.
Accanto ad essa, vi è la consapevolezza che ciascuno di questi corpi si è reso Soggetto dell’attraversamento, del percorso, del viaggio e ha agito forme di resistenza. Le persone migranti continuano ad attraversare il Mediterraneo nonostante le politiche restrittive sono spesso descritte come una minaccia alla sicurezza dell’Unione Europea.
Eppure, “perseveranza” 6 è il termine che ha forse più senso usare perché definisce la continua lotta, la forte e costante resistenza di chi, nonostante gli ostacoli, le barriere, le frontiere, appunto, cerca e attraversa nuove rotte, per giungere a una destinazione che ha scelto o vorrebbe scegliere.
I corpi migranti, dunque, si adoperano a cercare tragitti alternativi, ad affidarsi a mercanti di esseri umani al fine di attraversare i confini protetti. Per contenere questi movimenti e sconfiggere questa minaccia, definita da Frontex come una “forza“ o pressione che agisce sui suoi confini esterni, gli stati costieri europei e i loro “vicini” meridionali hanno dispiegato una gamma sempre più ampia di pratiche e tecniche militarizzate al confine marittimo dell’UE.
Queste politiche hanno soprattutto contribuito allo spostamento dei corpi migranti su nuove rotte e alla creazione di strategie sempre più pericolose per varcare i confini. Eppure, questi esseri umani continuano ad affrontare il Mediterraneo, mare che è uno spazio di attrito, in cui le traiettorie dei corpi migranti hanno continuato ad evolvere in risposta al dispiegamento da parte degli Stati di mezzi sempre più militarizzati per controllare i loro movimenti nel tentativo di renderli mobilità governabili 7.
Non definirò cimitero questo mare, perché in esso non esiste traccia dei corpi, che sono invece inghiottiti e raramente restituiti alle sponde, perché non è luogo di raccoglimento o preghiera, né di estremo saluto, ma luogo di lotta.
Il corpo migrante è una merce: è venduto, violentato, violato, sfruttato e la frontiera non è solo una linea da attraversare, ma uno spazio invisibile che si insinua nelle persone, nei loro corpi, nelle loro relazioni e nei loro progetti di vita.
Allora cos’è un corpo migrante e cosa definisce una frontiera? Quale relazione esiste tra questi due soggetti? Questo va chiesto a chi attraversa. E se manca lo spazio della parola, va “chiesto” agli oggetti che restano a galleggiare in mare o sono volontariamente abbandonati.
Raccontare e dare voce, perché esiste un dovere di testimonianza che mi appartiene come operatrice sociale, ma che ci riguarda tutti, come esseri umani. Troppo spesso e da troppo tempo, si ascolta una narrazione della migrazione distorta e semplicistica, parziale, complicata, ma raramente complessa.
Innumerevoli sono le storie e le immagini di persone annegate nel tentativo di attraversare il Mediterraneo o di corpi dagli arti congelati che cercano di attraversare il confine alpino.
L’immagine dell’orda che invade, coesiste con quella macabra dei corpi che galleggiano. Max Hirzel la definisce l’iconografia dei giubbotti salvataggio che affianca l’immagine della vittima sacrificale a quella dell’occupazione. E tutte sembrano, ancora una volta, reificare il corpo migrante e renderlo esclusivamente vittima del sistema migratorio. Eppure, è proprio quel corpo migrante a esercitare una scelta: quella della partenza da un paese in cui non vuole o non può più restare, per raggiungere una destinazione che ha scelto.
Non si discute qui l’importanza data ai discorsi di salvataggio. Non è questo il punto. Ma credo sia necessario testimoniare un’altra immagine delle persone migranti che li rende o individui in fuga da guerra e da violenza, e quindi titolari di diritti, o in “semplici” naufraghi, vittime passive in attesa di essere salvate.
Le persone migranti non sono binariamente descrivibili corpi da escludere, i cui diritti sono sfrattati” 8, o corpi da salvare.
Queste persone non possono e non devono essere solo definite alternativamente come vulnerabili o come invasori. Sono soggetti attivi, persone che affermano e si affermano durante il processo di migrazione. E soprattutto: a loro va lasciata la parola. Per smettere di parlare su e con i corpi migranti, ma permettere loro di definirsi.
Esiste un dovere di una narrazione, che per me si traduce nel tentativo di descrivere il rapporto esistente tra corpo migrante e frontiera, al di là della normalizzazione di un’anomalia che condanna a morte esseri umani in movimento, li rende colpevoli anche quando la loro vita finisce per mano di altri, li trasforma in responsabili dei trattamenti disumani e degradanti che subiscono, li criminalizza o, più di rado li vittimizza, mantenendoli, comunque, sempre in una dimensione di oggetto, ma mai li descrive per quello che sono davvero: esseri umani agenti.
La frontiera è metodo, il confine è spazio liminale e tempo liminale.
La fotografia è uno strumento per veicolare.
Gli scatti che si riportano di seguito sono l’inizio di questo lavoro, di una storia che si vuole raccontare. Sono stati catturati a Lampedusa, tra giugno e settembre/ottobre 2024. Queste immagini non hanno nulla di “artistico”: vogliono semplicemente documentare quello che resta dei corpi migranti nella frontiera lampedusana, vogliono lasciar parlare questi oggetti.
Perché questi raccontano. Ciò che è abbandonato al molo parla di un pezzo di vita della persona che lo ha portato: un cappello, una sciarpa, un paio di scarpe, giacche, coperte, salvagenti di fortuna, coperte termiche.
Pezzi di un percorso che raccontano storie: cominciate un tempo, concluse al molo, perché percorsi in trasformazione. Gli oggetti parlano, evocano quello che è servito e che non è più indispensabile, perché rotto, spaiato, inutile, superfluo. Perché ha perso la sua funzione. E quindi può essere lasciato indietro. Può definire un cambiamento di identità: il migrante si trasforma: da persona che parte a persona che arriva. Che inizierà un’altra lotta.
La fotografia è un tentativo, è uno strumento potente per esprimere diversamente, oltrepassando le difficoltà linguistiche: descrive il momento degli arrivi, immortala quello che di uno sbarco resta, simbolo di un cambio identitario. È uno strumento potente che esprime diversamente, oltrepassando le difficoltà linguistiche.
Le fotografie non sono mai neutrali: la scelta del soggetto da fotografare, come inquadrare l’immagine, la sequenza, il momento, parla di come di come, chi fotografa, interpreta e percepisce ciò che osserva.
Eppure, perché arte visiva, ha il potenziale di produrre immagini potenti che possono avere un impatto più immediato su chi osserva. Mi paiono capaci di raccontare, non al posto di, ma con.
Sono un filtro, come una penna che annota su un taccuino, un oggetto che si frappone e fra sé e l’Altro o, in questo caso, di quello che dell’Altro resta e che racconta, pur sempre, ciò che non serve più. Un oggetto che si abbandona è un pezzo che è servito per un tempo e che non è più necessario al resto del viaggio che deve continuare, attraverso altre frontiere.
Per me, fotografare questi oggetti significa permettere alle persone che li hanno portati, di spiegare una parte della loro storia. Abbandonati al molo o persi in acqua.
Per tradurre in qualche modo quello che Marx Hirzel ricorda nel suo lavoro sui corpi migranti, le immagini riproducono «l’anomalia, un’aberrazione percepita collettivamente come fatalità, come si trattasse di un’imprevedibile e inevitabile tragedia. Così non è» 9.
Le foto riportate di seguito intendono rendere conto di come i corpi attraversano i confini (quelli fisici, ma anche quelli culturali, simbolici e politici) e di come questi confini che sono eretti possano influire e avere un impatto sulla vita delle persone che intraprendono un percorso migratorio.
Esplorare questo tema serve a raccontare le persone migranti senza ridurle a categorie.
Vuole invitare a osservare cosa si lasci in frontiera, in uno spazio/ tempo che è liminale, in bilico tra un prima, ora e dopo, a interrogare sulla relazione che le persone tessono con i confini: per raggiungerli, per oltrepassarli..
- Ho una lunga esperienza in ambito sociale tra Italia e Francia come operatrice e coordinatrice in associazioni che accolgono persone migranti e vittime della tratta ai fini dello sfruttamento sessuale. Ho fondato con compagni e colleghi italiani e francesi una rete transnazionale che si chiama Beyond the Borders. Da diversi anni svolgo azioni di osservazione e monitoraggio delle frontiere interne, in particolare Ventimiglia e Lampedusa. Il lavoro di osservazione ha fatto l’oggetto di lavoro della mia tesi di Master II livello in Diritto delle Migrazioni. A maggio parteciperò alla mia prima missione di Search and rescue nel Mediterraneo Centrale. Vivo a Marsiglia ↩︎
- A. Leogrande, Il naufragio. Morte nel Mediterraneo, Feltrinelli, Milano 2011, pp. 39- 40 ↩︎
- G. M. BELLU, I fantasmi di Portopalo. Natale 1996: la morte di 300 clandestini e il silenzio dell’Italia, Mondadori, Milano 2004 ↩︎
- In uno scambio con Max Hirzel, fotografo, ha parlato del dovere della narrazione libera dalla “retorica dei giubbotti salvataggio”, come la definisce lui, una narrazione che sappia davvero e autenticamente raccontare ↩︎
- Si usa volontariamente il maiuscolo per indicare la ricerca di una Verità in termini assoluti, una sola, possibile: generalmente quella che si vuole ascoltare e non quella che la persona ha vissuto ↩︎
- Si veda C. HELLER, L. PEZZANI, Les périls de la migration : médiations conflictuelles du risque aux frontières maritimes de l’Union européenne, in CAIRN. INFO, 2019/2 N° 83, pp. 101- 123 ↩︎
- Si veda C. HELLER, L. PEZZANI, Les périls de la migration : médiations conflictuelles du risque aux frontières maritimes de l’Union européenne, in CAIRN. INFO, 2019/2 N° 83, pp. 101- 123 ↩︎
- M.BASSI, F. SOUHIA, La violence du régime des frontières et ses conséquences létales: récits et pratiques autour des morts et disparus par migration, in Critique internationale, 2019/2 N° 83. Il termine preciso utilizzato dalle autrici è «évincé», «spodestato» ↩︎
- M. HIRZEL, Corpi migranti, Emuse, Milano 2021, p. 13 ↩︎
14/4/2025 https://www.meltingpot.org/
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