Crimini ambientali

rifiuti e corruzione

Carabinieri infedeli, tra loro anche un ex barba finta, e imprenditori disonesti. Sei arresti tra Roma, Bologna e Catania. Uno di loro, a Ferrara, era già stato protagonista di una storia simile. Stavolta erano riusciti ad arrivare a persone delle istituzioni e anche della politica, che usavano per «porre in essere gli intrallazzi necessari per i loro scopi illeciti». Lo scrive il gip di Roma, Laura Alessandrelli, nell’ordinanza di custodia che ha portato in carcere sei persone, tra cui quattro militari dell’Arma “infedeli” nell’ambito di un’inchiesta sul traffico di rifiuti. Protagonisti della vicenda i due imprenditori Valerio e Matteo Fiori, padre e figlio, titolari della Italferro, che, si legge nel provvedimento, «hanno dimostrato capacità di realizzare e proficuamente utilizzare la loro fitta rete di informatori, costituita da pubblici ufficiali infedeli ed altri soggetti idonei a penetrare gli ambienti istituzionali e politici per indirizzare al loro vantaggio le attività delle persone e delle istituzioni». Gli arrestati sono accusati a vario titolo di traffico illecito di rifiuti, corruzione, rivelazione del segreto d’ufficio ed accesso abusivo a sistema informatico. I due imprenditori avevano «costruito intorno a loro una fitta rete di relazioni da sfruttare per le loro necessità imprenditoriali, lecite ed illecite, costituita da ex carabinieri, carabinieri, ex magistrati, soggetti operanti nell’ambito delle istituzioni che, ciascuno per la sua parte, consentono ai medesimi di poter organizzare la gestione aziendale in modo da ottenere il maggior profitto possibile, anche attraverso la commissione di illeciti di ogni tipo».

Le loro talpe erano Ciro Paone, responsabile informatico del Noe e Andrea Pilu che aveva «funzioni assimilabili pur in assenza di incarico formale». In base a quanto scrive il gip, Paone dava notizie a Sergio Amatiello, «ex comandante del Noe di Bologna poi trasferito a Roma ma dipendente di fatto delle società riconducibili alla famiglia Fiori, proprietaria della Italferro». Pilu – secondo l’accusa – dava anche informazioni coperte da segreto e documenti a Santo Caldareri, «luogotenente dei carabinieri in servizio al Noe di Roma fino a dicembre 2016 e poi al nucleo informativo di Catania che le girava ad Amattiello». Beneficiari finali della catena di comunicazione delle rivelazioni degli atti e documenti erano i Fiori e l’ex giudice diventato manager, Mauro Monti.

L’ex Aisi, Caldareri era rientrato nell’Arma dopo lo scandalo Consip. In quel caso la procura di Roma aveva scoperto che alcuni militari dell’allora Noe, in particolare il capitano Giampaolo Scafarto, avrebbero continuato a collaborare con i loro ex colleghi transitati all’Aise “a totale insaputa di tutti i vertici del comparto creando di fatto la fine del rapporto di fiducia”. Questo aveva sancito la fine del rapporto di lavoro tra l’Aisi e tutti i carabinieri che erano arrivati insieme a Sergio De Caprio, conosciuto come “Ultimo”. Nell’inchiesta che ha portato all’arresto di sei persone questa mattina risultano indagate a piede libero altre sei persone tra cui M. M., ex magistrato bolognese di 71 anni, oggi Presidente di Amministrazione della società capofila degli imprenditori indagati.

Amatiello – ricorda il magistrato – è stato condannato in via definitiva ad un anno ed 8 mesi per tentata concussione. Si tratta della vicenda Niagara/Noe: anche questo caso è una vicenda di malapolizia, di abusi in divisa, e di mala-impresa. Niagara è una ditta di Ferrara, specializzata in smaltimento di rifiuti. Il Noe, invece, è il nucleo operativo ecologico dei carabinieri. Dovrebbe vigilare sulle aziende ma, in questa storia, alcuni militari tentavano di taglieggiare un imprenditore onesto con la complicittà di un altro “capitano d’industria”. Dopo dieci anni il caso si chiude definitivamente la notte del 6 aprile 2018 quando la Corte di Cassazione rigettato il ricorso degli avvocati di Sergio Amatiello, ex luogotenente dei carabinieri dei Noe di Bologna, ritenuto responsabile di tentata concussione ai danni della ditta di smaltimento rifiuti speciali Niagara di Poggio Renatico.

Amatiello era già stato condannato a luglio 2017 a un anno e otto mesi dalla terza sezione della Corte di Appello di Bologna. In precedenza, nel marzo 2016, la Cassazione aveva confermato le condanne per i due coimputati, l’allora carabiniere dei Noe Vito Tufariello e per l’imprenditore Marco Varsallona, annullando invece la sentenza di Appello che assolveva il sottoufficiale dell’Arma Amatiello dal reato di tentata concussione.

«Terrore creato ad arte», scrissero i giudici. Gli dicevano di tenersi liberi per Natale chè tanto li avrebbero sbattuti dentro. Sembra un romanzo noir e invece è la sentenza del processo Niagara/Noe che ha portato alla condanna per tentata concussione di due sottufficiali dell’Arma e di un loro amico imprenditore e dirigente dell’Unione industriali di Bologna all’epoca dei fatti. Correva l’anno 2008. Secondo l’accusa chiedevano soldi, da 20 a 40mila euro, per ammorbidire un verbale ai danni di un’azienda che smaltisce rifiuti nel ferrarese, la Niagara. Il cardine della tesi accusatoria è che l’indagine dei Noe su Niagara fosse stata gonfiata ad arte dai carabinieri del nucleo operativo ecologico, tanto che il fascicolo sarebbe stato archiviato dal gip di Ferrara, per terrorizzare i vertici dell’azienda che sarebbero finiti a vedere il sole a scacchi mentre la ditta sarebbe finita sotto sequestro. L’imprenditore, anche lui del giro, era partecipe coi due in una società di consulenza che si stava per costituire e che avrebbe dovuto garantire il meccanismo della fatturazione dei soldi provenienti dalla concussione. «Le modalità dell’azione – scrisse la corte presieduta da Rita Zaccariello – hanno evidenziato una attenta attività preparatoria del delitto che ha comportato l’individuazione di un sistema che consentisse da un lato ai carabinieri di esporsi poco in prima persona, dall’altro di percepire l’indebito profitto in forma apparentemente legale, ossia come compenso per una attività di consulenza che veniva imposta come unica via per evitare le estreme conseguenze (sequestro dell’impianto e misure cautelare personali) di una accusa infondata».

«Il sistema escogitato era quello di formulare un’accusa infondata, ma all’apparenza giustificabile con una mancanza di perfetta conoscenza della specifica questione, che sarebbe stata chiarita, e ridimensionata in sede di richieste di misure cautelari, o, eventualmente, nel termine intercorrente tra aventuali provvedimenti cautelari e la procedura del riesame». Il metodo prevedeva una “perizietta” segreta della quale la società di consulenza si sarebbe presa la briga di corroborare i dati per una difesa più elaborata.

Ha avuto ragione la Pm Morena Plazzi e avevano ragione Mauro Carretta, titolare di Niagara (450 controlli in dieci anni e il certificato penale immacolato), e due suoi impiegati: Fabiana Cosmar e Davide Gherardi, tutti oggetto delle mosse dei tre per creare i terrore necessario al pagamento della bustarella. Legali di parte civile Alessandra Pisa, Eugenio Gallerani (che seguiva anche il caso Denis Bergamini) e Fabio Anselmo, più noto per i processi di malapolizia da Aldrovandi in poi, fino a Cucchi, Ferrulli, Uva e Budroni. La tesi difensiva è stata quella di provare a ribaltare l’accusa dimostrando un complotto degli uomini di Niagara contro i carabinieri che li incalzavano e, in seconda istanza, provare a proteggere la figura dell’ex comandante. Ma la strategia difensiva s’è concentrata soprattutto nell’attacco frontale a Fabio Anselmo e Mauro Carretta (proprio come in altri e più celebri storie di malapolizia). Il primo s’è trovato oggetto di denunce sistematiche, il secondo s’è visto trascinare in tribunale in qualità di editore e blogger visto che aveva aperto un blog proprio per raccontare le vicissitudini con i tre imputati e poi il processo. Blog Niagara, la cui direzione fu affidata prorio al sottoscritto, è stato oscurato due volte su richiesta degli imputati, e per due volte riacceso prima dal tribunale di Ferrara, poi dal Riesame, l’ultima volta pochi giorni prima della sentenza. I legali della difesa hanno scelto, per le ultimissime fasi del processo, di ricorrere al rito abbreviato, a porte chiuse, ottenendo l’espulsione dall’aula del cronista (e anche a questo cronista divenuto, nel frattempo, direttore del blog e anche lui denunciato). Ma il blog ha continuato a raccontare la vicenda così come il legale non s’è lasciato intimorire. E, con un tempismo involontario, proprio nel giorno della pubblicazione delle motivazioni di primo grado, dal gip di Modena è arrivata l’ennesima archiviazione di un’accusa di diffamazione dei carabinieri al “blogger” Carretta: «La notizia di reato appare destituita di fondamento dal momento che vi è utilità sociale dell’informazione, verità sostanziale dei fatti e forma civile nell’uso dei termini denunciati». L’impianto accusatorio, al netto delle oscillazioni delle pene, ha retto in tutte le fasi di giudizio. Seguì il trasferimento e la nuova disavventura per l’ex capo dei Noe dell’Emilia Romagna.

Checchino Antonini

26/10/2018 www.popoffquotidiano.it

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *