Da Ambrì a Gaza, per poter continuare a chiamarci umanità

Vanni Bianconi
Intervista allo scrittore ticinese Vanni Bianconi che sarà ai comandi di una delle navi svizzere della Global Sumud Flotilla in partenza per portare aiuti in Palestina
Vanni Bianconi, classe 1977, scrittore, traduttore, operatore culturale, già responsabile cultura della RSI, sarà il comandante di una delle cinque navi battenti bandiera svizzera che la settimana prossima partiranno per Gaza assieme a oltre 60 barche della Global Sumud Flotilla. L’obiettivo non è soltanto quello di portare aiuti umanitari e di rompere l’assedio israeliano, ma anche quello di scuotere le coscienze e lanciare un segnale ai Governi occidentali, silenti, inerti e complici di fronte a un genocidio. Per conoscere le motivazioni profonde della sua scelta, siamo andati ad Ambrì dove Vanni
Bianconi si è da poco trasferito in cerca di solitudine e concentrazione. Ma prima di tornare alla scrittura, immerso nella pace oscura della Leventina, lo scrittore ha una missione da compiere. Ecco la nostra intervista.
Vanni Bianconi, è pronto a salpare?
Sì, diciamo che sono mentalmente pronto. Anche se sono giorni molto intensi e molti dettagli pratici devono essere ancora affinati.
Quando è maturata la sua scelta di partecipare alla Global Sumud Flotilla?
È una scelta figlia di un lungo processo interiore iniziato la scorsa estate, a Sarajevo, dove l’angoscia costante per quanto stava accadendo a Gaza si rispecchiava in un passato che conoscevo. Nella capitale bosniaca ho osservato come, a trent’anni dalla guerra del 1992-1994, le persone con cui discutevo, gli anziani, sì, ma anche i giovani, dopo due frasi tornassero sempre a parlare di quel conflitto. Così ho percepito chiaramente come la Storia sia discontinua. Alcune ferite sono particolarmente significative, e rivelatrici. Alcuni momenti sono spartiacque. Lo sono stati la guerra in Vietnam, la guerra civile spagnola, l’assedio di Sarajevo e lo è oggi quello che sta succedendo a Gaza. Sono un dramma tremendo, e sono uno specchio del tempo, in cui, come individui, dobbiamo guardarci. Io che ho sempre cercato di utilizzare l’arte e la cultura come strumento di attivismo ho capito in quel momento che non era più abbastanza. Mi sono quindi ripromesso che avrei agito diversamente.
Lo scorso mese di gennaio si è così ritrovato in Cisgiordania. A fare cosa?
Sono andato a fare quella che viene definita “presenza protettiva”. Dopo una formazione a Ramallah, mi sono recato al nord, vicino alla città di Jenin e al fiume Giordano, per stare alcune settimane con delle famiglie beduine. Si tratta di una popolazione che vive di pastorizia, in condizioni arcaiche, tra basi militari e insediamenti di coloni sempre più fanatici e legittimati, protetti da stato, esercito e polizia. Lì ogni famiglia beduina svolge praticamente il lavoro di un’Autorità nazionale, perché dal momento in cui vengono uccisi o fatti sfollare e le loro terre vengono portate via, una fetta in più di Palestina diventa Israele. La presenza di delegazioni internazionali come quella di cui facevo parte ha come obiettivo quello di proteggere i beduini e di documentare le azioni illegali da parte dei coloni e delle autorità israeliane.
Con che sentimento è tornato a casa?
Ho visto il fanatismo e la violenza dei coloni, che di fatto dettano legge. L’esercito e la polizia israeliana sono al loro completo servizio. Avere a che fare con questi coloni e con queste autorità può essere brutale. Ricordo un ex militare che era soprannominato Shia il decapitatore, rispettato per avere decapitato sei palestinesi. La situazione era disperata, anche se è ancora peggiorata negli ultimi mesi. Questa esperienza è stata però una lezione di vita potente, con aspetti umani indimenticabili e anche, malgrado tutto, belli.
Dopo aver tentato altre azioni, ora ha deciso di aderire all’iniziativa della Global Sumud Flotilla…
È difficile tornare a casa da un’esperienza come quella che ho vissuto in Palestina, osservarla peggiorare di giorno in giorno mentre la comunità internazionale si limita a proclami e risoluzioni cosmetiche, e rimettersi a coltivare il proprio giardino, a scrivere poesie. Il mio progetto di vita rimane quello di concentrarmi in un luogo remoto come Ambrì e continuare a scrivere. Prima di farlo, però, ho deciso di partire per quella che sarà la più grande flottiglia di pace della storia.
>> GUARDA ANCHE: «Con cinque navi svizzere vogliamo rompere il blocco israeliano»
Quale sarà il suo ruolo?
Sarò il responsabile di una delle cinque navi svizzere: gestirò un equipaggio vario e in condizioni probabilmente estreme, i rapporti con il resto dell’organizzazione, le interazioni con la marina israeliana. Lo skipper sarà un altro ticinese, Fabrizio Ceppi, giornalista in pensione e con un’esperienza transoceanica in termini di navigazione.
La nave si chiamerà “Alfonsina e il mare”, in onore della poetessa Alfonsina Storni. Come mai?
Penso che questa missione pacifica sia qualcosa di concreto e necessario, ma è al contempo simbolica, e la poesia i simboli li conosce bene. “Alfonsina e il mare” è il titolo di una bellissima canzone di Mercedes Sosa su Alfonsina Storni, poetessa nata in Capriasca ed emigrata in Argentina. Alfonsina Storni ha spesso scritto rivolgendosi al mare, chiedendogli forza, coraggio, costanza, quello che in palestinese possiamo chiamare “sumud”.
Alfonsina Storni si è suicidata in mare. Non ha paura?
Eccolo, un problema dei simboli, contengono mondi anche contrastanti… La situazione comporta certamente dei rischi molto alti. Qualche anno fa sono stati uccisi degli attivisti. I membri dell’equipaggio delle due navi partite quest’anno sono stati arrestati in malo modo in acque internazionali, in totale violazione del diritto internazionale secondo cui i civili che vanno per mare per motivi pacifici sono persone da proteggere. Se con una barca alla volta il diritto internazionale non ha avuto presa, vedremo cosa succede con sessanta imbarcazioni e come reagirà la marina israeliana. Se l’ampiezza della nostra azione sarà per loro un deterrente, o un aggravante. Non si sa come andrà a finire. Ma arriverà il momento in cui succederà qualcosa. Pensandoci adesso, sento soprattutto un acuirsi della concentrazione. Cosa sentirò nel momento reale, glielo racconterò poi.
Lei e Ceppi sull’“Alfonsina e il mare” di fronte all’esercito israeliano sembrate un po’ Don Chisciotte, Sancho Panza e Ronzinante che si lanciano contro i mulini a vento…
Dato che Ceppi ha indubbiamente la fisionomia di Don Chisciotte, preferisco proporle un’altra coppia, di Emilio Salgari: Sandokan, lui, e il flemmatico Yanez, io. Questa associazione, oltre a essere un po’ meno disfattista, ha il vantaggio di strizzare l’occhio alla flotilla del Sud-est asiatico che salperà insieme a noi verso Gaza. Sandokan e Yanez sono i pirati della Malesia.
Di fronte al silenzio e all’inazione delle autorità elvetiche, quale segnale dà il fatto che cinque navi battenti bandiera svizzera salperanno per Gaza?
È un segnale molto forte. Penso che la flotta svizzera sia proporzionalmente una delle più numerose. Qualche giorno fa le Nazioni Unite hanno confermato che fame e carestia vengono usate come armi di sterminio. Mentre parliamo, l’esercito israeliano sta sparando sui civili a Ramallah, la sede amministrativa dello Stato palestinese, una città che non è in guerra. In un contesto del genere se non si reagisce si è complici. Il dubbio lacerante che questa situazione suscita è che lo scollamento tra la società civile e chi ci governa sia totale. Questo non vale purtroppo solo per la Svizzera. Ma con la nostra storia di mediazioni, neutralità, convenzioni è svilente osservare come proprio chi si considera conservatore non cerchi di conservare quanto di buono la nostra nazione ha dato al mondo.
In gioco vi è qualcosa in più che la sola questione palestinese. Cosa stiamo vivendo in termini di umanità?
Sono decenni che non assistiamo a un sopruso così devastante di tutto ciò che ci rende umani: dignità, rispetto, compassione, solidarietà. La Palestina è una cartina al tornasole dello stato delle democrazie occidentali, e un prisma per osservare l’intera umanità. Vi è una spaccatura tra quello che affermiamo di essere in occidente – democrazie che rispondono al volere del popolo, con tanto di carte dei diritti umani, obblighi di diritto internazionale da rispettare – e quello che siamo: degli Stati paralizzati e silenti, complici di fronte a un genocidio, che privilegiano interessi economici (l’UE è il principale partner commerciale di Israele) o geostrategici.
Con quali conseguenze?
Questa situazione ha delle ripercussioni in termini di sanità mentale, non solo degli individui, ma anche della società degli uomini nel suo intero. Una scissione ripetuta, protratta, costante tra quello che si afferma di essere e il modo in cui si agisce è la radice delle psicosi. La frustrazione e l’impotenza di fronte a questa crudele ipocrisia collettiva mi fa temere l’emergere di psicosi tanto individuali, e credo che molti di noi sappiano a cosa mi riferisco, quanto collettive, a livello globale, umano. Non scivolare nell’apatia e la depressione, ma continuare a cercare di fare qualcosa, per quanto minimo, potenzialmente inefficace, è un modo di essere solidali con Gaza e con una concezione accettabile di umanità, ma anche di prendersi cura della propria salute psichica.
Un’ultima domanda. C’è un libro che porterà con sé?
Porterò Dettaglio minore, della scrittrice palestinese Adania Shibli, e tre diverse versioni dell’Odissea. In fondo facciamo un po’ il viaggio di Ulisse al contrario, dall’amore (sotto assedio, e da riconquistare) verso la guerra.
Federico Franchini
27/8/2025 https://www.areaonline.ch/










Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!