Dalla Direttiva Bolkestein al Ddl Concorrenza: l’attacco ai servizi pubblici

Il 13 gennaio 2004 la Commissione europea guidata da Romano Prodi presentò la proposta di direttiva relativa ai servizi del mercato interno, conosciuta da allora come Direttiva Bolkestein, dal nome del liberale e liberista commissario olandese al mercato interno, Frits Bolkestein.  La direttiva fu il primo tentativo europeo, strutturato, di uscire dalla ipocrisia della neutralità europea tra pubblico e privato; di dare cioè una spallata al sistema dei servizi pubblici, attraverso un campo di applicazione molto ampio, che prevedeva, esplicitamente, settori come la sanità e l’acqua fino alla legislazione del lavoro, che andavano sottoposti al mercato interno, attraverso il meccanismo del cosiddetto principio del paese d’origine, in base al quale il prestatore veniva sottoposto “unicamente alla legislazione del paese in cui è stabilito e gli Stati membri non avrebbero dovuto imporre restrizioni ai servizi forniti da un prestatore stabilito in un altro Stato membro e il diritto dei destinatari di utilizzare servizi di altri Stati membri senza che questo venisse impedito da misure restrittive del loro paese o da comportamenti discriminatori di autorità pubbliche o di operatori privati.”

Tutto sempre partendo dall’ossessione del superamento degli ostacoli alla concorrenza, che una volta riguardava la “lotta” alle posizioni dominanti delle imprese e che da allora diventerà solo una ideologia per allargare il mercato ai servizi, soprattutto pubblici, che già allora rappresentavano oltre il 70% del PIL europeo.

Quel tentativo, chiaramente provocatorio, fece partire il più ampio movimento di opposizione ad una direttiva europea e una forza larga e trasversale, che portò a miriadi di comitati anti-Bolkestein, alle manifestazioni europee di Bruxelles del 25 novembre 2004 e del 19 marzo 2005, di Strasburgo del 14 febbraio 2006. E non solo, a Roma, il 15 ottobre 2005, una grande manifestazione unitaria, fece sentire la voce dell’opposizione a quel tentativo estremo di liberalizzazione.

Il risultato fu comunque rilevante, la direttiva vide scomparire dal campo di applicazione sia i servizi di interesse generale (sanità, acqua, servizi sociali…) sia la legislazione del lavoro; vide inoltre la scomparsa del principio del paese d’origine e la direttiva finì per limitarsi ad una serie di servizi privati (dai balneari ai taxi agli ambulanti).

Ricordo questa storia perché l’attuale disegno di legge sulla concorrenza, fondato questa volta sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, tenta nuovamente di stringere i rapporti di forza e, tramite l’articolo 6, cerca di rendere nuovamente il servizio in house, in autoproduzione, solo come un ostacolo che si viene a frapporre alla concorrenza, e che perciò l’autorità pubblica deve giustificare, come una colpa grave.

Nelle dichiarazioni del Governo espresse nelle finalità infatti, le regole di mercato, la concorrenza e le privatizzazioni, ancora una volta, dopo decine di anni,  vengono descritte come il rimedio a tutti i mali: garantiranno l’accesso ai mercati delle piccole imprese, gli obiettivi di politica sociale connessi alla tutela dell’occupazione e al rafforzamento della giustizia sociale, il miglioramento della qualità e dell’efficienza dei servizi pubblici e della tutela dell’ambiente, del diritto alla salute dei cittadini e della tutela dei consumatori.

Diciamolo con chiarezza, affermazioni che, oggi come ieri, oggi più di ieri, non hanno nessun fondamento, basti vedere complessivamente le conseguenze dell’attuale sistema basato prevalentemente sulle regole di mercato e sulla ricerca dei profitti, in termini di emergenza climatica e ambientale, crisi sanitaria, sociale ed economica.

Non solo. Il regime degli appalti, anche in alcuni settori specifici, ha prodotto estrema frammentazione nella gestione dei servizi stessi e precarietà della stessa gestione, anche con evidenti difficoltà nella direzione della trasparenza e della legalità in specifiche aree del Paese.

Abbiamo bisogno che la proposta veda la cancellazione, così com’è oggi, dell’articolo 6 sui servizi pubblici locali e che sicuramente vadano perlomeno cancellati quei comma che fanno riferimento all’in-house. Dobbiamo, piuttosto, ragionare su come il pubblico possa riacquistare un ruolo più forte in realtà territoriali in cui servono investimenti rilevanti, laddove il sistema degli appalti non ha prodotto alcun risultato qualificante.

Ne abbiamo bisogno perché si tratta di un attacco senza precedenti, che espropria le comunità locali dei beni comuni, dei diritti e della democrazia e che ne stravolge la storica funzione pubblica e sociale, trasformandone il ruolo in agenzie di collocazione verso la privatizzazione di tutti i servizi pubblici.

Eppure i referendum del 12-13 giugno 2011 avevano detto con chiarezza cosa pensasse la maggioranza assoluta del popolo italiano: contro la privatizzazione dei servizi pubblici locali e per la sottrazione degli stessi, a partire dall’acqua, alle dinamiche di profitto; persino la iniziativa dei cittadini europei del 2012, Right2Water, aveva detto con chiarezza che anche due milioni di cittadine e cittadini europei, interpellati, volevano l’acqua, come bene universale, nella gestione pubblica.

Ma non ci si può neanche troppo stupire sulle capacità e la volontà politica di contraddire il volere popolare. Non bastarono 26 milioni di voti.  Il 5 agosto, solo qualche settimana dopo i referendum del giugno 2011, l’allora presidente della BCE Jean-Claude Trichet e il futuro presidente, della BCE e ora del Consiglio dei Ministri italiano, Mario Draghi scrivevano in una lettera -che andava tenuta segreta…poiché la divulgazione recherebbe pregiudizio alla tutela dell’interesse pubblico “ -….È necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala.

Insomma, non ci possiamo stupire se l’obiettivo è oggi quello di ieri, essendo gli attori più o meno gli stessi, e cioè di ridurre la potestà di scelta degli enti locali, di sindacarne le scelte politiche fondamentali, di limitarne lo spettro delle possibilità di scelta, di ridurne il loro ruolo di enti di democrazia e di prossimità.

Abbiamo allora, ulteriormente bisogno, comunque, che il campo di applicazione, con chiarezza, senza dubbi, non riguardi in alcun modo i servizi pubblici essenziali (sanità, acqua, servizi sociali).

Per questo siamo convintamente nella campagna contro il disegno di legge Concorrenza, che chiede a tutte le realtà politiche e sindacali, alle lavoratrici e ai lavoratori, in primo luogo a quelli pubblici, alle realtà sociali e di movimento, a tutte le comunità territoriali e agli Enti Locali di rifiutare la logica dell’art. 6.  Chiediamo l’apertura di un ampio dibattito pubblico sulla gestione dell’acqua, dei beni comuni, dei servizi pubblici; pretendiamo “l’avvio di una discussione pubblica sul ruolo dei Comuni, dei servizi pubblici, dei beni comuni e della democrazia di prossimità dentro un contesto di ripensamento del modello sociale dettato dalla necessità di affrontare la diseguaglianza sociale e la crisi climatica, evidenziate dalla pandemia”. Chiediamo che con coraggio si esca da un mainstream neoliberista, ideologico, fideistico, sconfitto nelle urne, nelle piazze, nel dibattito scientifico, nella realtà. Chiediamo un dibattito onesto intellettualmente. È in gioco il perimetro pubblico, la nostra capacità di rispondere alle difficoltà aperte dalla crisi economica, climatica, sociale, sanitaria. E oggi anche dalla guerra e dalle minacce nucleari. Possibile che davanti a tutto questo non si abbia nessuna grande idea se non affidarsi, ed affidarci, alla vecchia ideologia del profitto e dell’egoismo?

Enzo Bernardo (Fp Cgil)

Foto: “Attac 20060628_Brüssel-Bolkestein” di Attac ÖsterreichCC BY 2.0.)

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 49 di Marzo-Aprile 2022: “Si scrive concorrenza, si legge privatizzazione

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