Dossier/ 75 anni di Nato

a cura di Raffaele Crocco e Alice Pistolesi

Per i 75 anni della Nato vale la pena ricordare una data. Non il 4 aprile, giorno della nascita formale dell’Alleanza Atlantica nel 1949. Vale la pena ricordare il 24 marzo 1999, 25 anni fa. Quel giorno scattò l’operazione “Allied Force”. Senza mandato nelle Nazioni Unite, solo con l’ordine formale dell’allora segretario generale della Nato, Javier Solana, i primi cacciabombardieri della Nato decollati dalla base di Aviano, nel Nord Est dell’Italia, iniziarono a bombardare Belgrado e la Serbia, in nome della libertà e dell’indipendenza del Kosovo. L’Onu non aveva chiesto o immaginato alcun intervento. Fu una guerra voluta e decisa dall’Alleanza. Durò sino al 10 giugno, quando a Kumanovo lo Stato maggiore serbo firmò un accordo con la Nato. Furono 78 giorni di guerra e di bombardamenti. Morirono 2.500 persone e almeno altre 12mila furono ferite.

Partiamo da questa vicenda di guerra per raccontare i 75 anni di contraddizioni di un’Alleanza nata e raccontata come difensiva e che, invece, è stata ed è nei fatti lo strumento di controllo e intervento militare di una parte di Mondo a discapito dell’altra. Una realtà contraddittoria, questa, che pochi hanno voluto e vogliono affrontare e discutere serenamente, usando i normali strumenti della democrazia che tutti, ripeto tutti, i Paesi dell’Alleanza teoricamente sostengono di poter mettere in campo. La Nato è una alleanza difensiva, si dice da sempre. Quando il 4 aprile del 1949 i 12 stati membri fondatori, cioè Stati Uniti, Canada, Belgio, Danimarca, Francia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo e Gran Bretagna, firmano a Washington il trattato per unirsi, compiono l’ultimo atto di un lento avvicinamento politico-militare, costruito sul presupposto dell’impossibilità, per i Paesi europei, di difendersi dallo strapotere militare sovietico se fossero rimasti divisi.

Ecco, quello è il punto. L’Alleanza mette insieme gli eserciti e le politiche sull’idea che, se un Paese qualsiasi fosse stato attaccato, tutti gli altri sarebbero corsi a difenderlo. Non è previsto che l’Alleanza supporti o appoggi, invece, eventuali azioni offensive, di attacco, da parte di qualche membro. E’ il presupposto fondamentale per tutto il lungo periodo, fino al 1991, che vede l’Alleanza fronteggiare il blocco sovietico in quella che viene chiamata “guerra fredda”. Solo difesa e attorno a questa idea nei decenni si aggregano altri Stati: Grecia, Turchia, Germania Ovest, la Spagna quando torna democratica negli anni ’70. Fissate questo punto: quando torna democratica. Perché una regola severa dell’Alleanza è che i Paesi che la compongono devono difendere i valori liberaldemocratici. Non ci sono dittature nella Nato, anche se nella realtà la Grecia dei colonnelli degli anni’ 60 e la Turchia in mano ai generali nei decenni successivi lasciano un po’ perplessi. Ma la democrazia resta un “pilastro” ideale fondamentale, utile soprattutto a spiegare e giustificare la lotta al comunismo e quindi al sistema sovietico.

Questo abito teorico non ha retto alla prova del tempo. Il quesito oggi, infatti, è: dati i presupposti, perché la Nato non si è sciolta o trasformata in una alleanza diversa, con regole diverse, quando nel 1991 il nemico, cioè la ragione per cui era nata, si è dissolto? Con la caduta dell’Unione Sovietica, l’Alleanza aveva l’esigenza di diventare altro oppure doveva sparire. Invece è cresciuta, banchettando sulle ceneri del sistema sovietico defunto. Si è allargata a dismisura negli ani ’90, accogliendo i Paesi dell’Est Europa. Poi, ha creato un nuovo nemico comune, di cui non c’è quasi traccia – potete verificare – sino a quel momento: l’integralismo islamico. Soprattutto, però, ha iniziato a perdere la propria “anima difensiva”, per diventare uno strumento militare utile a difendere e promuovere interessi specifici dei Paesi che la formano.

L’impiego nella guerra contro la Serbia per il Kosovo, ricordato in apertura, è stato solo il primo esempio di questa trasformazione politica e di sistema. Il 12 settembre 2001 è, infatti, la Nato ad invocare l’uso dell’articolo 5 dello statuto per difendere gli Stati Uniti. Il giorno prima, c’era stato l’attacco alle Torri Gemelle a New York. L’Alleanza lo classifica come un “attacco ad un Paese membro” e quindi chiama all’intervento tutti gli altri Paesi. E’ la scelta che giustificherà, in qualche confuso modo, l’assalto e l’occupazione per 21 anni dell’Afghanistan, con la formalizzazione del comando delle truppe d’occupazione, assunto dalla Nato nel 2003.

Una giustificazione assente, invece, nella decisione dell’Alleanza di intervenire militarmente nel 2011 nella prima guerra civile libica, aiutando i ribelli che cercavano di rovesciare Gheddafi. Decisioni e scelte che, nei decenni, hanno mostrato un volto sempre più aggressivo. Soprattutto, hanno trasformato la Nato in uno strumento politico, di garanzia di un sistema di interessi. L’Alleanza si è sentita “vincitrice” nel confronto con l’Unione Sovietica e quindi autorizzata a trasformarsi nello strumento di controllo degli equilibri mondiali, in rappresentanza degli Stati Uniti e dell’Europa. Una scelta che si è concretizzata nelle azioni militari dirette e nel continuo allargamento a Paesi sempre più geograficamente vicini alla Russia. Tutto questo, è bene ricordarlo, senza mai cambiare le proprie regole formali.

Oggi, ricordiamolo, sono 32 in Paesi che fanno parte dell’Alleanza, con Finlandia e Svezia entrate sull’onda dei timori scatenati dalla guerra in corso fra Ucraina e Russia. Una crescita, quella dell’Alleanza, pianificata, pur conservando, in modo ipocrita, una struttura formale “difensivistica”. La realtà della Nato, oggi, è semplice: non è più un’alleanza difensiva. E’ diventata uno strumento di “pressione-controllo” planetario, nelle mani degli Stati Uniti e dell’Europa. La certezza è che nessuno parla, come sarebbe logico e doveroso fare, di riforma dell’organizzazione e men che meno, dopo il ritorno del “caro nemico” Russia”, di scioglimento.

Ma gli scogli sono tanti. Il primo e più urgente è la nomina di un nuovo segretario generale. Jens Stoltenberg è in carica dal 2014 ed è stato già prorogato, per l’incapacità di trovare un sostituto. I candidati alla carica devono essere solidi. Soprattutto, devono convincere Washington e quindi devono appartenere a Paesi considerati “virtuosi” nell’impegno militare – leggi percentuale di spesa sul Pil – nei confronti dell’Alleanza. Sul tavolo ci sono i nomi di Mark Rutte, l’ex primo ministro olandese, di Ursula von der Leyen, presidente uscente della Commissione Ue, della prima ministra estone Kaja Kallas e della premier danese Mette Frederiksen. L’altro problema, enorme, è dato dall’eventuale ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump. Il candidato repubblicano della Nato non sa che farsene e ha sempre detto – lo diceva anche durante la precedente presidenza – che l’Europa deve difendersi da sola. Una scelta in linea con l’antico e sempre vivo isolazionismo statunitense e che sarebbe la pietra tombale sulla Nato per come l’abbiamo sin qui conosciuta.

Aumentano gli investimenti

Nel febbraio 2024 il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha annunciato che 18 Stati membri spenderanno per la difesa il 2% del loro Pil nell’anno in corso. Si tratta di una risposta indiretta alle richieste avanzate da anni dagli Stati Uniti (e in particolare dall’ex presidente e attuale candidato repubblicano Donald Trump) che richiedono un maggiore contributo da parte degli alleati europei.

Secondo quanto riferito da Stoltenberg, gli Stati europei investiranno per la prima volta 380miliardi di dollari, ovvero il 2% del loro prodotto interno lordo combinato. Questo incremento deriva da un trend già in crescita. Le spese militari in Europa e Canada erano infatti impennate dell’11% nel 2023. Un aumento di sei volte rispetto al 2014, quando solo tre alleati raggiungevano la linea guida del 2%. Nell’ultimo decennio, gli alleati della Nato in Europa hanno costantemente aumentato i loro investimenti collettivi nella difesa, dall’1,47% del loro Pil combinato nel 2014 al 2% nel 2024, quando investiranno un totale combinato di 380miliardi di dollari.

L’orientamento del 2% per gli investimenti nel settore della difesa è stato deciso nel 2006 dai Ministri della Difesa della Nato. Gli effetti della crisi finanziaria del 2007-2008 e la diminuzione della quota di risorse destinate alla difesa in molti paesi alleati fino al 2014, avevano evidenziato lo squilibrio tra l’investimento degli Stati Uniti e quello degli alleati europei.

Una tappa importante è stato il vertice del Galles del 2014, convocato in risposta all’annessione della Crimea da parte della Russia. In quell’occasione i leader della Nato concordarono un impegno di investimento nella difesa, stabilendo che gli alleati che già rispettavano la linea guida del 2% avrebbero dovuto continuare a farlo, mentre gli stati con investimenti inferiori si sarebbero dovuti impegnare a raggiungere la soglia per “colmare le carenze di capacità della Nato”. Un impegno da soddisfare entro il 2024, insieme al raggiungimento del 20% della spesa annuale per la difesa per le nuove principali attrezzature.

Ma è dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia nel febbraio 2022la maggioranza degli alleati ha cominciato ad investire di più e più rapidamente nella difesa. Al vertice di Vilnius del 2023, i leader della Nato hanno concordato un nuovo impegno per gli investimenti nella difesa, affermando che in molti casi saranno necessarie spese superiori al 2% del Pil. Il Defence Investment Pledge torna infatti a chiedere agli alleati di rispettare il 20% delle linee guida annuali di spesa per la difesa per le nuove attrezzature, compresa la ricerca e lo sviluppo.

Secondo i dati forniti dalla Natonel 2014 solo Grecia, Regno Unito e Stati Uniti, (3 paesi su 31), avevano raggiunto o superato il 2% del Pil. Nel 2022 il numero era salito a 7, mentre nel 2023 siamo arrivati a 11 paesi (Grecia, Regno Unito e Stati Uniti, Polonia, Estonia, Lituania, Finlandia, Romania, Ungheria, Lettonia e Slovacchia). La Francia si è fermata all’1,9%, la Germania si è attestata all’1,57% e l’Italia all’1,46%.

La Germania, però, secondo l’agenzia stampa tedesca Dpa, per la prima volta in tre decenni la Germania, ha comunicato, nel febbraio 2024, una spesa per la difesa pari al 2% del suo Pil. Secondo il rapporto, il governo tedesco ha presentato un importo per l’anno in corso che corrisponde a una somma di 73,41miliardi di dollari: una cifra record per la principale economia europea. La Germania aveva raggiunto la soglia di spesa per l’ultima volta nel 1992, mentre negli anni della Guerra Fredda, il rapporto era solitamente superiore al 3%.

Dove si trovano i soldati Nato

La Nato è oggi attiva in vari contesti internazionali. In Kosovo sono circa 4.500 i soldati dell’Alleanza che fanno parte della Forza per il Kosovo della NATO (Kfor). La missione aveva preso il via nel giugno 1999 “per porre fine alla violenza diffusa e fermare il disastro umanitario che si stava verificando”. Dopo la dichiarazione di indipendenza del Kosovo nel febbraio 2008, la Nato ha deciso di continuare a mantenere la propria presenza sulla base della risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

La Nato conduce poi operazioni nel settore marittimo: le forze navali permanenti dell’Alleanza, l’operazione Sea Guardian e l’attività Aegean. Le Forze Navali Permanenti, o Snf, sono le uniche forze permanenti della Nato nel settore marittimo e possono essere rapidamente dispiegata in tempi di crisi o tensione. Svolgono esercitazioni programmate, manovre e visite ai porti, per rafforzare la posizione marittima dell’Alleanza. Le Snf sono composte da quattro gruppi e operano nell’Oceano Atlantico, nel Mar Baltico, nel Mar del Nord, nel Mediterraneo e nel Mar Nero.

L’operazione Sea Guardian, invece, è in corso da novembre 2016 ed è succeduta all’Active Endeavour. Ogni anno conduce cinque o sei operazioni mirate in specifiche aree di interesse nel Mediterraneo. Le operazioni includono anche visite nei porti di paesi non Nato “per contribuire allo sviluppo delle capacità di sicurezza marittima nella Regione”.

Dal febbraio 2026 le forze marittime Nato svolgono anche attività di ricognizione, monitoraggio e sorveglianza nel Mar Egeo, in cooperazione con le guardie costiere greche e turche e attraverso l’instaurazione di collegamenti diretti con Frontex (l’agenzia di gestione delle frontiere dell’Ue).

La Missione Nato Iraq è stata lanciata al vertice di Bruxelles del 2018. Si tratta di “una missione di consulenza e di rafforzamento delle capacità non bellica che mira a rafforzare le istituzioni e le forze di sicurezza irachene in modo che loro stesse possano prevenire il ritorno dell’ISIS, combattere il terrorismo e stabilizzare il loro paese”. La Nato coopera in questo caso con le forze di sicurezza e le istituzioni irachene. Nel febbraio 2021, i ministri della Difesa della Nato hanno deciso di espandere la missione al più ampio settore della sicurezza iracheno, su richiesta del governo iracheno.

Dal 2005, poi, la Nato coopera e sostiene l’Unione Africana. Dopo aver fornito per la prima volta un trasporto aereo strategico alla missione dell’Ua in Sudan nel 2005, l’Alleanza ha assistito la missione dell’Ua in Somalia (Amisom) fornendo trasporto aereo e marittimo. Nel 2023 è stato deciso di proseguire con l’operazione successiva,la missione Atmis. La Nato mantiene poi un ufficio di collegamento nella sede dell’Ua ad Addis Abeba, in Etiopia.

Infine c’è la Nato Air Policing, una missione che mira “a preservare, in maniera continuativa, la sicurezza dello spazio aereo dell’Alleanza”. Dall’annessione della Crimea e dall’invasione dell’Ucraina nel febbraio 2022, la Nato ha infatti potenziato le missioni di polizia aerea. La polizia aerea della Nato fa parte del sistema integrato di difesa aerea e missilistica.

L’ultima missione risale al febbraio 2023 ed è seguita ai terremoti in Turchia. In quel caso la NATO ha fornito centinaia di rifugi temporanei e coordinato voli per l’arrivo degli aiuti umanitari. L’Alleanza ha costruito e mantiene ancora oggi tre siti di soccorso temporaneo che ospitano migliaia di persone ad Antakya, Iskenderun e Defne, oltre a varie strutture sanitarie fornite allestite vicino agli ospedali danneggiati della zona.

3/4/2024 https://www.atlanteguerre.it/

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