FEMMINICIDIO: ESITO TRAGICO DELLA VIOLENZA DOMESTICA COME NORMALITA’ DEL VIVERE

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L’ultimo femminicidio che ha destato grande scalpore e indignazione è stato quello di , una 29enne incinta di sette mesi, uccisa da Alessandro Impagnatiello, il quale avrebbe voluto così liberarsi di lei per viversi un’altra relazione. E non è la sola vittima.
Secondo i dati del Ministero dell’Interno, tra il primo gennaio e il 30 maggio 2023 si sono verificati in Italia ben 23 assassinii che hanno avuto come vittime delle donne, assassinii compiuti da loro partner, oppure da parenti molto stretti, come quello di un uomo 86enne di Monopoli, in provincia di Bari, che avrebbe ucciso
la figlia di 57 anni per una lite familiare.
Li chiamano femminicidi. La parola “femminicidio” è entrata nell’uso a partire dal 2001, prima nel linguaggio della letteratura giornalistica (famoso il libro di Barbara Spinelli intitolato “Femminicidio” e pubblicato nel 2008) e poi nel linguaggio comune. Perché un delitto venga riconosciuto come “femminicidio” devono verificarsi tre condizioni:

1- la vittima è sempre una donna;
2- l’assassino è sempre un uomo, che ha con la donna vittima un legame “intimo” (di solito è il partner o aspirante tale, ma può anche trattarsi di un parente stretto, come padre, figlio o fratello);
3- L’assassinio avviene, di solito, dopo ripetuti e frequenti episodi di “violenza domestica”.

Quello che colpisce, di questo fenomeno, è la sua alta frequenza.
Scrive Giovanni Rossi su il “Quotidiano Nazionale” del 4 giugno 2023:

L’ ultimo rapporto Onu scrive questo numero: 45mila. Sono le vittime di femminicidio nel mondo nel 2021: donne uccise da partner, ex partner o altre persone della propria sfera familiare. Una ogni 12 minuti; cinque ogni ora; complessivamente, fanno più della metà delle donne decedute per omicidio intenzionale nel 2021 (81mila). Come nei casi recenti di Giulia e Pierpaola, è la conferma globale del fatto che gli assassini delle donne sono molto spesso le persone più vicine: partner, ex, o familiari.
Il 56% degli omicidi femminili avviene infatti nella sfera relazionale più intima contro l’11% del corrispondente dato maschile.

E non solo nei Paesi di solito considerati più arretrati con costumi sociali più tradizionalisti, ma anche nella “civilissima” Europa il fenomeno è davvero inquietante. Che la violenza sulle donne in quanto tali, riconosciuta legittima e addirittura codificata per legge sotto varie forme, dalle pesanti limitazioni alla libertà personale all’esclusione dai diritti come quello all’istruzione, per finire alle vere e proprie condanne a morte, sia diffusissima in molti Paesi del mondo a cominciare dall’ambito familiare per estendersi a quello pubblico, è un fatto risaputo. E’ un fatto “strutturale”, cioè rientra nell’ordinamento della società e nei costumi
generalmente accettati dalla coscienza collettiva. Ma nella “civilissima” Europa, la patria delle lotte femministe e del riconoscimento formale dei diritti umani?

Riporto i dati, seppure incompleti, da parte di due rilevazioni effettuate una da Openpolis, nel 2021, l’altra da Voxeuro nel 2023, che riguardano i femminicidi compiuti in vari Paesi europei.

Nel 2018, una donna europea ogni 100mila è stata uccisa. Un dato che supera tale media in 14 dei 24 paesi considerati nell’analisi da Eurostat. I tassi di omicidi femminili più elevati si rilevano in alcuni paesi dell’Europa orientale e meridionale, tra cui due delle repubbliche baltiche, Lettonia e Lituania. La Lettonia, in particolar modo, risulta avere il tasso più elevato dell’Unione europea pari a 4,12 donne uccise ogni 100mila residenti. Seguono Lituania (3,57), Malta (1,70), Cipro (1,36) e Bulgaria (1,05).
Openpolis 23 novembre 2021

I dati Eurostat indicano 6.593 omicidi volontari di donne in Europa nel periodo 2011-2021, di cui 4.208 compiuti da partner e 2.385 da familiari (le cifre riguardano questi venti paesi: Austria, Croazia, Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Italia, Lettonia, Lituania, Malta, Paesi Bassi, Serbia, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia).
Voxeurop 8 marzo 2023

C’è da dire che le cifre riportate nelle statistiche non rispecchiano la vera, drammatica consistenza del fenomeno. Non sempre e non in tutti i Paesi del mondo i femminicidi sono riconosciuti come tali. Manca un riconoscimento specifico di questo crimine e quindi spesso i conteggi, nelle statistiche, sono molto approssimativi per difetto.
Quello che colpisce comunque, di questo fenomeno, è la sua alta frequenza, la sua diffusione e la sua ripetitività. Non si tratta di casi – limite!

Ora, dopo, un efferato femminicidio, come quello di Giulia Tramontano, l’opinione pubblica insorge, ma si levano anche le voci compiacenti “a difesa” dei colpevoli maschi, oppure per cercare ad essi delle “attenuanti” ampiamente riconosciute anche sotto il profilo giudiziario.
Si tratta di “raptus”, quindi di stato alterato della coscienza, oppure di incapacità d’intendere e di volere a causa di forti turbamenti emotivi, oppure di “personalità disturbata” magari con problemi psichiatrici sottovalutati… Eppure, molte volte queste “persone” così squilibrate avevano persino il porto d’armi, come la guardia giurata Massimo Bianco che ha ucciso la moglie a Torino.

Se si pensa che molti di questi femminicidi vanno a segno dopo ripetuti atti di violenza, magari anche denunciati ma non presi molto sul serio, quello che colpisce non è l’eccezionalità con cui essi si verificano, bensì la loro aberrante, tragica “normalità”.

La violenza domestica, se pure non sfocia in un femminicidio, è talmente estesa e talmente pervasiva (come dimostrano anche i dati registrati dai numerosi Centri Antiviolenza) da risultare un fenomeno “normale”, anche nei Paesi a civiltà giuridica più avanzata. E questo perché anche in questi Paesi il patriarcato, cioè il dominio dell’uomo sulla donna che si estrinseca come “possesso” della donna che gli appartiene per legami affettivi o familiari, è “strutturale” e profondamente radicato, nonostante tutto, nella coscienza collettiva. Se poi, dopo il ”fattaccio” se ne cercano le attenuanti, il disturbo di personalità maschile, in qualche modo, subdolamente o meno, viene messo in carico alla donna, la quale avrebbe rotto le regole ad essa imposte e non sarebbe stata in grado di “stare al suo posto”, ledendo in qualche modo l’autostima del maschio.

Ora, non voglio dire con questo che le donne “hanno sempre ragione” e che siano sempre e comunque immuni da torti. Quando in una coppia si crea una forte situazione conflittuale non è mai facile ricostruire in modo imparziale i torti e le ragioni. Quello che, in ogni caso, è inaccettabile e inammissibile, è il ricorso alla violenza fisica, di solito ampiamente tollerata nell’uomo come fosse una sua specifica prerogativa, che, in quanto uomo, occorre riconoscergli. Che poi l’uomo, a sua volta, nella strutturazione della sua personalità poggi molto la sua autostima sul “possesso” di una donna e quindi sul potere di abusare di lei, fino all’eliminazione fisica, lo dimostra il fatto che, in molti casi, a un femminicidio segue il suicidio dell’uomo stesso. E non tanto per il timore delle conseguenze giudiziarie, ma proprio perché il maschio si sente , a sua volta, deprivato di un “potere” (quello di dominio integrale su un altro essere umano) senza il quale la sua struttura di personalità perde di senso e di valore.

L’aberrante “normalità” della violenza dell’uomo su una donna cui è legato da relazioni intime affettive e/o familiari, è quindi ancora profondamente radicata nell’inconscio collettivo, perché deriva da una millenaria strutturazione della relazionalità primaria fondata sul “diritto di dominio” dell’uomo nei confronti della donna con cui ci sarebbe un legame intimo riconosciuto e sancito. “Sarai attratta da tuo marito ed egli dominerà su di te” sono le due valenze su cui, nel mito di Genesi, si costruisce la relazione uomo – donna: rapporto di attaccamento affettivo e di dominio – sudditanza. Infatti, proprio questa inestricabile coscienza millenaria rende difficile capire perché sia così difficile combattere la violenza maschile sulle donne in ambito domestico, proprio per evitare l’esito tragico del femminicidio e sia così ancora diffusa (e per molti versi accettata) la “normalità” della violenza, anche da parte delle stesse donne e anche in Paesi evoluti, malgrado le lotte femministe e i diritti conquistati. Questo perché combattere il “nemico” violento, in casa propria, cui si è legate da profonda relazionalità, non è così semplice come combattere, almeno ideologicamente, il nemico di classe (lo sfruttatore) o il nemico etnico (lo straniero invasore). Per le donne, eliminare questo “nemico” vorrebbe dire distruggere la stessa rete affettiva che dà senso alla propria vita, qualora questo “nemico” si configurasse come il partner, o il padre, o il figlio, o il fratello.
Allora? Accettare la violenza domestica? Considerare il femminicidio il possibile, inevitabile esito di un rapporto privato, su cui nessuno ha il diritto di intervenire? Assolutamente no!
La grandezza (e anche la peculiarità) della lotta femminista sta in quella frase che tutte noi donne della mia generazione pronunciammo quando, da giovani, scendemmo in piazza per rivendicare il nostro diritto alla libertà e alla vita: “Il personale è politico!”.

Quindi, la violenza domestica non è un fatto privato, in ogni donna picchiata o umiliata tutte, in quanto donne, ci riconosciamo offese dalla violenza patriarcale. La violenza domestica, ancora prima che sfoci nel femminicidio, è un problema sociale contro cui bisogna lottare, cui bisogna trovare degli antidoti “qui e ora”. Certo, non si può eliminare il genere maschile e nemmeno si può aspettare che venga educato ad altre modalità relazionali.

La violenza domestica, sin dal suo sorgere, deve essere contrastata, sanzionata, ostacolata. L’uomo violento deve percepire che esiste una forza maggiore del suo potere, che lo deve fare restare entro certi limiti comportamentali. Certo, per fortuna non tutti gli uomini sono violenti, molti hanno conquistato una nuova consapevolezza. Ma non possiamo aspettare che la “rivoluzione culturale” riguardi tutti e tutte, bisogna agire subito. Ci sarà tempo poi per l’educazione, l’informazione, la formazione culturale. Ora la violenza domestica deve essere considerato un disvalore sociale, da ostacolare e sanzionare in modo efficace. Il reato di “femminicidio” deve sparire dall’orizzonte umano. Non si tratta solo di proteggere la donna, già si cerca di farlo con i Centri Antiviolenza e con le Case Rifugio, come se il problema riguardasse solo ed esclusivamente lei. La violenza domestica è un problema maschile ed è sugli uomini che bisogna agire! E’ un problema di salute? Certo, lo è, perché il benessere relazionale è la base fondamentale della salute e del “benvivere”. Ma, se il problema della violenza domestica inflitta dall’uomo alla donna è la “normalità” del vivere la relazione uomo – donna, allora quella normalità è altamente patologica. E’ la cultura maschilista a essere patologica, oltre che ingiusta. Per questo bisogna intervenire non solo sulle donne che chiedono aiuto, ma anche sugli uomini che commettono violenza e da subito, molto prima che si arrivi al femminicidio. Se l’uomo violento è colpevole, allora deve essere sanzionato e messo in condizione di non nuocere. Anche con la perdita di libertà e di diritti. Se è malato, allora deve essere curato. Forse, oltre ai Centri antiviolenza programmati per aiutare le donne vittime, dovrebbero sorgere delle strutture territoriali – tipo Centri di Igiene Mentale – in grado di intervenire sugli uomini violenti.

Eppure, ho l’impressione che purtroppo anche la Giustizia in Italia, Paese dell’U.E., sia tuttora impregnata di mentalità patriarcale e “giustificazionista” nei confronti della violenza maschile su una donna, in quanto donna. All’indomani del delitto di Giulia Tramontano è apparsa su “Repubblica” la testimonianza di una donna palermitana, Barbara Bartolotti, 49enne sopravvissuta a un tentato femminicidio, nel 2003, per mano di un collega.

Ho sofferto molto leggendo la storia di Giulia Tramontano. Anch’io, quando sono stata aggredita, aspettavo un bambino. Ogni femminicidio riapre le mie ferite, ma non mi stupisco più: ormai la violenza di genere è un’emergenza quotidiana“.
Il collega, perché rifiutato come partner affettivo, avrebbe colpito Barbara, sposata e incinta, con martellate al cranio, coltellate all’addome (e conseguente perdita del feto), calci e pugni. Infine le ha dato fuoco. Barbara si è salvata perché si è finta morta, poi è fuggita, mezza carbonizzata, sulla tangenziale, dove ha chiesto aiuto. E’ stata dieci giorni in coma, ha fatto sei mesi di ospedale e ha subito ventisette interventi. L’ aggressore è stato condannato a ventun anni di carcere. Ma, poiché reo confesso e avendo patteggiato, gli hanno dato quattro anni di domiciliari, cui ha fatto seguito l’indulto. Barbara si è ripresa, ma ha perso il posto di lavoro e altri non ne trova perché “fa impressione”.

Lui ha fatto carriera, lavora in banca e si è sposato. Barbara è una donna molto coraggiosa. Ha fondato l’Associazione “Libera di Vivere”. Ma il suo caso è emblematico per dimostrare la vergognosa sottocultura maschilista che, in uno Stato di diritto come l’Italia, ancora imperversa.
E poi non c’è da stupirsi se purtroppo la violenza domestica, con il frequente esito di un femminicidio, costituiscono la tragica “normalità” del vivere, per ancora molte, troppe donne!

Rita Clemente

Scrittrice. Collaboratrice redazionale di Lavoro e Salute

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