Guerre e crimini

La guerra è inevitabile? Esistono guerre giuste? Un vademecum dal passato per capire il presente e gli orrori che si affacciano ormai da mesi

Confrontarsi con la nostra storia nazionale, con particolare riferimento alla Seconda guerra mondiale e alle guerre italiane in epoca fascista, può permetterci di offrire uno sguardo storico su guerre e crimini, per aiutarci a rispondere ad alcune domande sulle situazioni di guerra e sui crimini di guerra che stiamo vivendo negli ultimi mesi.

La guerra è un elemento insopprimibile delle società umane? 

Le guerre, come si dice spesso, ci sono sempre state. Alcuni studi archeologici e antropologici sembrano però smentire la tesi secondo cui siano inevitabili. In ogni caso la storia, anche nella sua versione più tradizionale, dimostra che ci sono innumerevoli modi di affrontare un contrasto: attraverso il dialogo, il confronto, la trattativa. La guerra è sempre il modo peggiore, quello più nefasto, che oltre a produrre morte e distruzione nell’immediato, semina odio e rancore, terreno fertile per nuove guerre.

Si dice anche che nel corso del Novecento si sia invertita la percentuale di morti civili e militari: dai 90% militari della Prima guerra mondiale, ai 90% civili delle guerre jugoslave degli anni Novanta. Ma prima del Novecento si sono sempre combattute solo guerre fra eserciti? Niente affatto. Anzi, la «professionalizzazione» della guerra è un fenomeno recente e molto raro. L’Impero romano che codifica la carriera militare e gli eserciti professionali del Settecento e Ottocento sono un’eccezione nella storia; la regola è invece quella di civili assoldati temporaneamente per combattere guerre decise e guidate dalle classi dirigenti. 

Ci sono state sempre anche rivolte, ribellioni, rivoluzioni, guerre popolari condotte volontariamente contro l’oppressione o per modificare l’ordine sociale, ma nella maggior parte dei casi le guerre sono volute e guidate dai potenti e vanno a vantaggio dei potenti stessi, i quali mostrano spesso molta più empatia verso i «nemici» del proprio rango che verso i propri soldati. Un caso emblematico è la Prima guerra mondiale, condotta in gran parte da casate reali imparentate fra loro e in cui la decimazione contro i soldati che rifiutano la morte quasi certa in battaglia è la norma in ogni esercito.

La guerra è sempre «criminale»? 

Questa è una questione filosofica complessa. L’uccisione di un proprio simile è moralmente condannata in ogni cultura e in ogni società; tuttavia la guerra è stata anche codificata per renderla eticamente accettabile e in ogni caso ci sono modi diversi di condurla. Il modo che alla nostra sensibilità pare «corretto» (pur essendo comunque omicida) è lo scontro fra eserciti armati e addestrati, in cui i contendenti possono potenzialmente colpire e difendersi in maniera paritaria. Infierire sui nemici feriti o prigionieri è un crimine di guerra codificato da tempo. Nella Seconda guerra mondiale i prigionieri di guerra erano protetti da leggi e enti internazionali (la Croce Rossa) e godevano di uno status privilegiato fra i detenuti in campi di concentramento e/o prigionia. Ciò non ha impedito comunque maltrattamenti (ad esempio a opera dei francesi e dei sovietici contro i prigionieri italiani), l’utilizzo illegittimo nel lavoro anche a fini bellici (praticamente da parte di tutti i contendenti), la violenza gratuita (verso gli Internati Militari Italiani, per esempio, a cui non venne riconosciuto lo status di prigionieri) e la soppressione fisica di milioni di soldati catturati (quelli sovietici da parte dei nazisti). 

Anche nei conflitti fra eserciti ci sono però spesso vittime civili, inermi, che vengono considerate «danni collaterali», o vittime involontarie dello scontro militare. Ovviamente quando non vengono prese di mira volontariamente. In quest’ultimo caso si parla di «guerra ai civili». C’è una distinzione importante fra guerra civile e guerra ai civili. La prima è condotta fra parti della stessa comunità (territoriale o etnica), sia civili che militari; la seconda è condotta da un forza armata contro civili disarmati. Ovviamente i due fenomeni possono intersecarsi, ma sono strutturalmente diversi. 

Un esempio estremizzato è il contesto degli «anni di piombo» in Italia: la lotta armata di stampo comunista interpretava quel periodo come una guerra civile, colpendo singoli rappresentanti del fronte avverso, sia civili che militari; lo stragismo fascista aveva come scopo quello di destabilizzare la società attraverso il terrore e colpiva indiscriminatamente italiani generici, sempre civili e sempre disarmati. Mentre il nemico dei brigatisti rossi era politico e ideologico, quello delle stragi fasciste, condotte con la connivenza di importanti organi dello Stato, era tutto il popolo italiano, anche se con l’intento di depotenziare le istanze democratiche rappresentate da una parte di quel popolo.

Un popolo disarmato o una parte di esso può dunque essere individuato come obiettivo, come target, anche in un contesto non bellico. Ciò può avvenire a opera di uno Stato o di un esercito sulla base di appartenenze religiose, etniche, nazionali, politico-ideologiche, sociali o culturali. Gli obiettivi dell’identificazione (su base etnico-nazionale-culturale) di un popolo intero come nemico possono essere diversi: l’emarginazione o ghettizzazione; l’espulsione mediante spostamento forzato o pulizia etnica (il massacro con metodi brutali di una parte di popolazione per spingere la restante a scappare in preda al terrore); o il genocidio (l’eliminazione fisica dell’intero popolo). Questo genere di violenze sono condotte spesso da forze militari e in contesti di guerra (il genocidio degli armeni o la Shoah, ad esempio), ma non necessariamente: l’eliminazione dei disabili nella Germania nazista avviene prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale.

I civili poi sono spesso considerati il target delle operazioni militari nei contesti di guerre di invasione, coloniali o imperialiste. Si tratta in questi casi di conflitti asimmetrici, in cui la grande disparità delle forze pone l’intero popolo sconfitto alla mercé degli aggressori. Le guerre, le invasioni e le occupazioni militari condotte dall’esercito italiano durante il Ventennio fascista hanno tutte queste caratteristiche: i combattimenti fra eserciti, quando ci sono, durano poche settimane; per il resto del tempo le forze occupanti esercitano un dominio assoluto su una popolazione assoggettata. Ciò vale per la campagna di conquista della Libia (fino al 1931), la guerra d’Etiopia (1935-1941), le invasioni di Albania, Grecia e Jugoslavia (1939-1943), e per la partecipazione alle occupazioni di parte della Francia e dell’Unione Sovietica.

Lo scopo di queste operazioni è rendere schiavo un popolo e appropriarsi delle sue risorse. La logica conseguenza è lo sviluppo di forme di resistenza più o meno armata e più o meno efficace contro l’invasore. In questi casi la reazione degli eserciti invasori è ancora più brutale e spietata, arrivando fino alla devastazione di intere regioni, alla deportazione di intere comunità e alle stragi di massa. Tutto questo non avviene solo a opera di forze armate fasciste, naziste o comunque espressione di sistemi politici autoritari. Eserciti di paesi democratici hanno commesso crimini analoghi, perseguitando intere popolazioni sulla base del principio della colpa collettiva, come è avvenuto spesso in teatri coloniali o post coloniali, ad esempio da parte degli statunitensi in Vietnam; dei francesi in Algeria o degli israeliani in Palestina.  

Questi crimini vanno messi in relazione non solo con il contesto delle guerre d’invasione, imperialiste e coloniali, ma anche con il sistema di pensiero condiviso che li rende possibili. Si tratta di un pensiero basato su razzismo, nazionalismo, tradizionalismo religioso e culturale, maschilismo esasperato, culto della gerarchia, del rispetto degli ordini e della violenza considerata come sinonimo di forza e potenza, e come l’unico strumento di risoluzione dei conflitti. È ciò che Umberto Eco ha definito, con una brillante intuizione, il «fascismo eterno»: un fenomeno che l’Italia ha sperimentato durante il ventennio mussoliniano, ma che va al di là di quell’epoca e del nostro paese. Non è detto che tutti gli elementi identificati da Umberto Eco siano presenti nei fenomeni di crimini contro i civili inermi, e ce ne possono essere altri specifici di una data epoca e di una data società, ma una buona parte di essi sono riscontrabili in tutti i contesti storici di questo tipo in età moderna. 

Esiste una guerra giusta?

Ovviamente si tratta di utili categorie per identificare e distinguere i fenomeni che si svolgono attorno a noi, ma non sono sufficienti. È sempre necessario tenere presente le innumerevoli sfumature, i diversi contesti, la complessità di ogni scenario. Per provare a capire e a giudicare le guerre del presente e del passato dovremmo comunque chiederci alcune cose. Innanzitutto qual è la dinamica, chi ha invaso chi, quanto è equilibrato lo scontro? Non è facile, perché spesso entrambi i contendenti si presentano come vittime di un’aggressione, in lotta per la propria difesa territoriale (come Israele nelle operazioni a Gaza) o per difendere popoli considerati parte della propria sfera culturale-linguistica (come afferma la Russia nei confronti degli abitanti del Donbass e della Crimea). Anche la disparità delle forze dipende talvolta dalle contingenze e dai punti di vista: Israele è incomparabilmente più forte dei suoi avversari palestinesi, ma cosa succederebbe se i paesi arabi che lo circondano si schierassero compattamente contro di lui? E quale sarebbe il contesto di guerra in Ucraina se la Nato non avesse offerto immediato supporto militare all’esercito più debole?  

Un’altra domanda da porsi riguarda i metodi di guerra usati dai combattenti. Si cerca di combattere contro i militari, contro i nemici in armi, o si identifica l’interno popolo avversario come nemico? Al di là della disparità di mezzi a disposizione, non c’è dubbio che nel contesto mediorientale sia Hamas che l’esercito israeliano colpiscano indiscriminatamente i civili dell’altro popolo, con analogo disprezzo della vita umana altrui. 

A questo punto quindi bisognerebbe porsi la domanda su quali siano le motivazioni, i valori, che ispirano i contendenti, quale sarebbe il risultato di un’eventuale vittoria di uno dei due. In sostanza, e in termini più filosofici e globali: esiste una guerra giusta, una violenza giusta? Tale può essere considerata la guerra di resistenza o di liberazione da un’invasione o da un’oppressione? 

Nelle due guerre maggiormente presenti sui nostri mass media (Ucraina e Palestina) tutti e quattro i rappresentanti politici e militari delle forze in campo (Hamas e i governi russo, ucraino, israeliano) affermano di combattere per la «liberazione» del proprio popolo o di un popolo affine, ma lo fanno in una logica brutalmente esclusivista. Tutti in sostanza sembrano operare, in maniera più o meno evidente, nella logica del «fascismo eterno» di cui si è detto: obiettivi nazionalisti, culto della violenza, machismo militarista, disprezzo razzista dell’altro popolo. 

Tornando al modello della Seconda guerra mondiale, la nostra Resistenza (che è stata più volte evocata) non è stata semplicemente una «guerra di liberazione», come è stato poi ufficialmente tramandato. In tutta Europa partigiani di diverse provenienze nazionali e politiche combattevano fianco a fianco non solo per liberare quel singolo territorio dall’occupazione, ma anche per cambiare radicalmente il modello politico e il sistema di pensiero dominante. Pur con prospettive politiche molto diverse fra loro, i resistenti europei mostravano dunque un rifiuto di tutti o gran parte di quegli elementi che caratterizzano appunto il «fascismo eterno», compresa la guerra come strumento di risoluzione dei conflitti, come sancito infatti dalla nostra Costituzione.

Si può distinguere la guerra da altri fenomeni di violenza?

Vorrei chiudere queste brevi note con uno scarto nel ragionamento fin qui apparentemente lineare. Sappiamo cos’è esattamente una guerra, la possiamo distinguere in maniera così netta da altri fenomeni di violenza? Nella nostra società ci sono violenze che sono il frutto di precise scelte politiche o di un contesto sociale che non si vuole modificare, che producono ogni giorno la morte di civili inermi. Penso alle vittime di femminicidio, ai caduti sul lavoro (tre al giorno in Italia), alle vittime da armi da fuoco o di abusi della polizia negli Usa, delle discriminazioni razziali e religiose, della fame, dell’emarginazione sociale, del disagio psichico o infine, per guardare alla nostra esperienza più vicina e macroscopica, alle decine di migliaia di migranti uccisi o lasciati morire dalle leggi discriminatorie dell’Unione europea. Siamo proprio sicuri che non si tratti anche in questo caso di una guerra, magari non dichiarata ma che fa comunque morti e feriti e contribuisce a disgregare intere società, a seminare odio e rancore per le generazioni future?

Se osserviamo i responsabili di tali politiche discriminatorie, ma anche di molte guerre vere e proprie condotte contro popoli inermi o parte di essi, sarebbe il caso di mettere in discussione uno dei «feticci» del nostro sistema di pensiero: quello della democrazia. Siamo proprio sicuri che abbia senso distinguere in maniera così netta i comportamenti degli Stati democratici da quelli che consideriamo autoritari? Molte democrazie hanno commesso crimini analoghi a quelli dei paesi dittatoriali, e lo fanno ancora oggi. Alcune dittature d’altra parte non hanno mai condotto guerre d’invasione, hanno svolto a lungo un ruolo di pace e hanno talvolta prodotto benessere per i propri cittadini, come la Jugoslavia di Tito negli anni Sessanta-Ottanta o la Cuba socialista da quando esiste. Inoltre è sufficiente un sistema elettorale pluripartitico per distinguere una democrazia da una dittatura? Nel momento in cui molte democrazie del mondo non riconoscono uguali diritti a gran parte dell’umanità (come nel caso del diritto allo spostamento) o di una parte dei propri stessi cittadini (ad esempio Israele) non dovremmo semplicemente definirle come regimi orientati alla difesa (anche armata) dei privilegi delle oligarchie dominanti? In questa logica le guerre (anche quelle non dichiarate di cui si è detto) ci appaiono più come il frutto della volontà di dominio, di appropriazione delle risorse o di difesa di privilegi ottenuti in precedenza attraverso l’uso indiscriminato della forza (come nel caso dei frutti del colonialismo europeo). 

In qualunque modo la si voglia guardare, e gli sguardi sono sempre molti e articolati, è comunque fondamentale non perdere di vista la dignità e la vita degli individui che le guerre concretamente le subiscono. Se non vogliamo svuotare di senso uno dei pilastri del pensiero moderno, dobbiamo ammettere che i diritti umani devono essere di tutta l’umanità, che ciò che diamo per scontato per noi deve valere per chiunque, e che il rispetto per la vita umana deve avere la precedenza su qualunque altra considerazione politica o economica. Per questo non solo si deve operare per risolvere ogni conflitto senza l’uso delle armi, ma anche, attivamente, per combattere le disuguaglianze e le ingiustizie che le nostre democrazie continuano a produrre e incentivare in ogni parte del mondo. 

Eric Gobetti è uno studioso di Seconda guerra mondiale, Resistenza e storia della Jugoslavia. Autore di documentari e monografie, è un esperto di divulgazione storica, viaggi e politiche della memoria. Sui partigiani italiani in Jugoslavia ha realizzato il film Partizani (2015) e il libro La Resistenza dimenticata (Salerno editrice, 2018).

28/3/2024 https://jacobinitalia.it/

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