I doni della natura

L’alluvione di Faenza ci insegna che la riorganizzazione della modalità in cui gli umani abitano il mondo non può essere lasciata alla logica del profitto

on uno dei sassi che si sono staccati dalle colline romagnole ha sofferto il colpo. Non uno dei fiumi (queste infrastrutture natural-culturali) ha pianto per essere uscito per qualche ora dal suo corso, né il cielo si è commosso vedendo gli esiti della sua furia. La disperazione, come la gioia e così l’errore e la giustezza sono caratteristiche dei viventi e, in un modo particolare, del vivente umano. 

Al contrario di quanto si potrebbe supporre, non vi è umanismo in questa affermazione, se non in una forma volutamente ironica. La natura non si è ribellata a un male che la abiterebbe da millenni (che sarebbe l’umanità, questa categoria indistinta e ideologica): ha reagito a un’attività che si esercita entro i confini che essa stessa garantisce da qualche centinaio di anni, a un modo di abitare la Terra che è una modalità di operare e di riprodursi del modo di produzione capitalistico. Il danno, tuttavia, è esclusivamente sociale (di una società che include i viventi non umani): le colline non piangeranno certo i loro pezzi separati. Per una collina, trasformarsi, crollare, espandersi significa essere: la solidità che gli riconosciamo deriva solo dalla breve durata delle nostre vite sulla Terra. La crisi ecologica non è «l’umanità che distrugge il pianeta», il quale da sempre e per sempre è indistruttibile, ma un pezzo di umanità che distrugge pezzi di vita.

Certamente va riconosciuto che questa attività da noi chiamata «abitare», o se si preferisce la produzione dello spazio propria del modo di produzione capitalistico, tenta di annientare sé stessa: «abitare», per l’eternamente sghignazzante proprietario dei mezzi di produzione, significa costruire uno spazio tutto uguale a sé stesso, piatto, privo di determinazioni specifiche, caratterizzazioni proprie. Non ci sono colline, laghi, fiumi nel mondo destinato al profitto, ma solo risorse: è la piantagione il modello dello spazio capitalistico. Ma questo non è quasi mai l’esito effettivo di codesta operazione di ricostruzione del mondo: è la via che il modo di produzione persegue senza riuscire a ottenerne l’esito sperato se non localmente. 

La crisi ecologica planetaria, che in questi giorni ha fatto visita a Faenza (declinandosi in questo luogo specifico), non è che la storia di tale tentativo e del suo fallimento. È un destino curioso, quello dell’operazione di produzione dello spazio propria del modo di produzione capitalistico (che qui consideriamo privandolo delle sue – notevoli – differenze storico-specifiche): in fondo lo spazio astratto non prevede alcuna crisi, è per definizione piatto e interamente dominabile. Non c’è catastrofe in un deserto di cemento. La Terra, alla fine di tutto, si è rivelata non essere riducibile a questa astrazione: alcuni luoghi sono forse crollati sotto i colpi martellanti dei rapporti di produzione dettati dal capitalismo (che prevedono non solo la distinzione tra due classi, ma anche tra due regni dell’essere: natura e cultura. Il capitalista non sa quello che fa, ma sa farlo bene). Non è forse questo che è successo in Romagna? Non si è forse manifestata, cioè, la potenza indomita di un mondo naturale che reagisce alle attività che si esercitano su di esso? Ecce Natura!

Sarebbe ben poco notare questa potenza: in questi termini astratti, si tratterebbe di un alibi. Non possiamo, infatti, farci bastare che il nostro destino sia segnato da un Sistema Terra che reagisce sprezzante ai furibondi tentativi di abolirne la potenza. Faenza sorge intorno a un fiume antico, il Lamone, relativamente tranquillo e anzi negli ultimi anni quasi inesistente a causa della siccità. Quest’ultima ha reso il terreno meno capace di assorbire acqua rispetto al solito; le violente piogge che si sono abbattute sul suolo hanno trovato un terreno ancora più impermeabile all’acqua di quanto non lo sia il pesantemente cementificato territorio in oggetto (l’Emilia-Romagna subisce uno dei consumi di suolo tra i più alti del continente europeo). D’altra parte, l’impermeabilità è una caratteristica ancestrale dell’argilloso territorio romagnolo (noto per i suoi calanchi, appunto). Natura e cultura, storia naturale e storia sociale, sono inestricabili in questa alluvione e nei suoi esiti. 

Peraltro, come è chiaro, due giorni di pioggia a questo livello (circa 180 mm di acqua caduti in alcune zone) rimangono inediti, come inedita è la situazione degli argini, dei fossi, dell’infrastruttura fluviale della Romagna: distrutti, abbandonati, crollati (da ben prima di oggi). Il territorio rurale della campagna faentina ha subito danni molto più gravi di quelli che i telegiornali riportano, concentrandosi esclusivamente su Faenza. Dall’Appenino alla pianura, larghi pezzi di territorio sono impercorribili; comuni già flagellati nel recente passato da frane hanno perso pezzi enormi di strade e, come è già stato detto, le riprese che i droni fanno della campagna collinare romagnola fanno pensare più a un bombardamento a tappeto che a una pioggia. Hanno senso i richiami al New Deal in Emilia-Romagna, che è con ogni probabilità la parte d’Italia più evidentemente costruita dal paradigma social-democratico (per quanto neoliberalizzato in salsa Pd)? 

Forse, come è evidente dal problema rappresentato dalla cementificazione del territorio squassato dalla pioggia, se New Deal ci deve essere deve partire non dalla costruzione sfrenata ma proprio dalla fine di questa edificazione incontrollata. Infatti, proprio perché la produzione dello spazio capitalista non fa che tentare e fallire, come un demonico Sisifo che produce effetti (a differenza della figura mitologica) ben lontani dalla sua volontà, le nostre regioni sono divenute un’accozzaglia di cultura e natura, di cemento, fiumi artificiali e corsi d’acqua millenari, di piogge torrenziali che cozzano contro un terreno secco per l’assenza di pioggia, di argini fragili infestati da detriti, tane di animali e, sotto di loro, case ed edifici. È questo groviglio infausto che rende le piogge un male così grave: esse non sono un male in sé, come non lo sono mesi di sole. Il senso negativo della crisi ecologica, che da un punto di vista planetario è solo l’ennesimo rivolgimento di una storia geologica che prosegue da miliardi di anni, è interamente posto dai viventi umani e non. Sono loro che soffrono e piangono. Cosa ce ne possiamo fare della difesa del pianeta en tant que tel? L’essere inondato non è triste, triste è sperimentare di essere inondato!

Anche ora, a Faenza, uomini e donne reagiscono alla catastrofe spostando mobili, spalando fango, offrendo cibo. Non sono angeli, ma esseri umani inestricabili dai loro rapporti comunitari. Tuttavia, la loro opera non avrebbe senso se prescindesse dalla lezione fondamentale che questa alluvione ci lascia: noi non siamo pronti a vivere nelle circostanze ecologiche che ci sono date. Giacché questa è la lezione che occorre far propria: la crisi ecologica è qui per restare, non se ne andrà, le condizioni di vita dei viventi sulla Terra sono definitivamente mutate e cercare di uscirne è negare la propria condizione di azione. Solo riconoscendo questa circostanza, questa condizione, è possibile criticare l’incompiutezza degli argini, rivedere i criteri di abitabilità di alcune zone senza scadere in una pericolosa (perché antidemocratica e in fin dei conti inefficace) retorica dell’emergenza, nonché prendere in considerazione la possibilità che questo sistema socio-economico, nella sua totalità e nei suoi presupposti, non sia semplicemente adatto alla circostanza in cui ci troviamo. 

Il modo di produzione capitalistico e la sua operazione più caratteristica (è da essa che nasce la cosiddetta accumulazione originaria: non vi è capitale senza una terra privata, interamente disposta alla gestione), cioè la produzione dello spazio come riserva infinita di risorse, è forse semplicemente inadeguato a un fatto che esso stesso ha prodotto ma su cui ha perduto ogni possibilità di controllo: che lo si chiami Antropocene o crisi ecologica non cambia molto.

L’elemento più tipico dell’idea occidentale di Natura, quello che lo caratterizza lungo tutta la sua storia (che inizia ben prima della modernità) è quello di dono. Con questo termine intendiamo una possibilità aperta ai viventi, uno strumento da utilizzare a fini indeterminabili a priori. La Natura ha la caratteristica di donare ai viventi le condizioni delle loro azioni, senza determinarle (in modo speciale per l’animale umano). Le forze radicali che non sono al potere non possono considerare l’alluvione come una catastrofe, sul piano politico. Essa lo è (ma non necessariamente: nessun evento naturale racchiude il suo senso, esso è in ogni caso un dono per l’interpretazione) per le persone che hanno perso denaro e ricordi. Tuttavia, insegna qualcosa di più generale a noi, che proverei a riassumere:

1- I danni delle catastrofi ecologiche non sono equamente distribuiti. Nonostante le frane anche sulle colline prossime a Faenza, la gran parte della classe dirigente della città non vive a fianco del fiume, ma su ville collinari (non nei territori rurali di cui si parlava precedentemente) e/o lontane dal fiume che hanno subito pochi danni. Si ricordi come la divisione della ricchezza non abbandona mai i fatti sociali, ma li attraversa come un fiume carsico. Questo elemento fondamentale impone di tracciare linee di distinzione anche all’interno dei «faentini» di cui parliamo tanto in questi giorni, che non subiscono tutti allo stesso modo l’alluvione.
2- Quest’ultima non è un evento straordinario come non sono straordinarie le condizioni infrastrutturali in cui avviene. Sono, tuttavia, inedite e al cambiamento della circostanza deve fare il paio una trasformazione dell’azione; in caso contrario ci si condannerebbe ad affrontare situazioni inedite con strumenti tarati su altre epoche geologiche/condizioni ecologiche.
3- Queste ultime, a loro volta, sono le condizioni in cui è nato, è cresciuto ed è diventato adulto il modo di produzione capitalistico. È molto dubbio che esso sia in ogni caso la forma di azione più adeguata a ogni circostanza. 

Ciò non significa certamente che la crisi ecologica in quanto tale condanni il capitalismo alla morte: come è nato socialmente, questo morirà socialmente, cioè all’interno dei rapporti di forza tra esseri umani (non perché ogni agentività sia loro, bensì perché il capitalismo lo è). Esso può rimanere un parassita che tenta di innovarsi e di spingere in alto la sua pietra (Sisifo, appunto) disseminando effetti lungo il tragitto. Tuttavia, questa sua inadeguatezza alla gestione di una trasformazione ecosistemica su scala globale va sottolineata con maggiore veemenza ed è un possibile elemento di un discorso contro-egemonico: la riorganizzazione della modalità in cui gli umani abitano il mondo non può essere lasciata alla logica del profitto. Ecco perché, come ogni evento naturale per gli umani, l’alluvione è un dono, il cui uso spetta solo a noi.

Paolo Missiroli è dottore di ricerca in Filosofia presso la Scuola Normale Superiore e l’Université Paris Nanterre e cultore della materia in Storia della Filosofia presso il Dipartimento di Filosofia e Comunicazione dell’Università di Bologna.

8/5/2023 https://jacobinitalia.it/

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