Il caso Sala-Abedini e gli insegnamenti della Storia

Riflessioni di ampio respiro sulla vicenda della incarcerazione e liberazione di Cecilia Sala e di Mohammad Abedini: ciò che emerge è tutt’altro rispetto a quanto propinato dai mass media

Premessa: Cecilia Sala piccola rotella di un ingranaggio

Lo scambio dei “prigionieri” alla fine si è realizzato: Cecilia Sala è tornata in Italia l’8 di gennaio mentre Mohammad Abedini

è stato liberato e rimpatriato il 12 su iniziativa del guardasigilli Nordio. Da un punto di vista personale entrambi dovrebbero tirare un profondo respiro di sollievo per uno scampato pericolo che, forse, non hanno pienamente apprezzato. Quale? Per esempio, se i due fossero stati imprigionati un anno fa, e non in un periodo di passaggio di consegne alla Casa Bianca, la possibilità che il vecchio e maligno Joe rigettasse senz’appello la richiesta del governo italiano di ritirare l’editto imperiale di cattura nei confronti del cittadino iraniano e di conseguenza negare le condizioni del rilascio di Cecilia Sala, sarebbero state elevate. Abedini sarebbe stato estradato negli Usa dove avrebbe subìto pene detentive draconiane e la Sala sarebbe stata ospite delle carceri iraniane per un lungo periodo. Invece, oggi negli Stati Uniti esiste una “corte di appello” presso la principesca villa di Mar-a-Lago in Florida, dove l’oligarca-magistrato-quasi presidente Donald Trump ha evidentemente accolto l’istanza di Giorgia Meloni, probabilmente facendo pagare un caro prezzo all’Italia. Accenniamo brevemente a Cecilia Sala perché non c’è molto da dire sulla persona: rampolla di una famiglia borghese romana, è una rotella di piccole o medie dimensioni di quel grande meccanismo che è la propaganda di regime che si fa chiamare giornalismo. Nel caso in specie, per chi volesse approfondire il Sala pensiero, suggerisco di vedersi la video intervista su YouTube “Cecilia Sala parla del conflitto a Gaza”1, dove la neoeletta paladina della libertà del giornalismo sfoggia la sua interpretazione del genocidio in corso in Palestina con concetti mai sentiti prima, ovviamente in senso ironico: “conflitto brutale”; “è importante la presenza di giornalisti di terza parte che raccontino i fatti perché le opinioni sono estremamente polarizzate”; “esistono solo soluzioni molto complicate a questo conflitto”; “il presupposto è che non ci siano più il governo più di destra in Israele e Hamas a Gaza per iniziare un percorso che abbia come fine la creazione dei due Stati” (sic); “serve un nuovo piano Marshall per Gaza e la Palestina, in cui la solidarietà e la cooperazione, le Ong, le associazioni sul territorio saranno fondamentali”.

Fa impressione che, tranne l’espressione di conflitto brutale, ogni singolo concetto espresso dalla Sala sia esattamente contrario alla verità e alla realtà, ne accenniamo qui velocemente solo per smascherare questi giornalisti di regime, che sono tali anche quando si travestono da paladini della libertà. Non vi è nessun conflitto polarizzante, vi è un’opinione pubblica mondiale indignata per il comportamento criminale d’Israele, e vi sono i mass media di regime che cercano di difendere l’immagine di Tel Aviv e dell’Idf ancorché il compito sia improbo; il giornalismo a Gaza è una cosa assai pericolosa, non adatta alle penne da salotto oppure a quelle embedded, in quanto, a differenza dell’Iran, Israele elimina fisicamente sul campo i giornalisti sgraditi come accaduto a 200 operatori dell’informazione fino al 24 dicembre scorso2; non vi sono soluzioni complicate per Gaza ma solo quella dettata dal Dio degli eserciti: la conquista manu militari della striscia e della Cisgiordania e lo sterminio dei suoi abitanti; il governo più di destra d’Israele non è un accidente passeggero, la sua anima, il Likud, tranne brevi parentesi è saldamente al potere dal 1996 e il suo attuale leader, Benjamin Netanyahu, è ai vertici della politica israeliana dal 1984, è stato tre volte ministro degli Esteri e tre volte primo ministro, e siccome la Sala ci ricorderebbe orgogliosa che Israele è la più grande democrazia del Medio Oriente, qualcuno ha ben votato e sostenuto nei decenni il governo più a destra di quel Paese; occorre informare la Sala che alla favola dei due Stati in Palestina è rimasta a crederci solo lei (nemmeno Elly Schlein ci crede più anche se finge di farlo); la Sala chiede pure al martoriato popolo di Gaza, decimato da oltre 46.000 morti ufficiali – ma secondo la rivista britannica «The Lancet» sono il 40% di più3 –, di cui la maggioranza sono donne e bambini, per non contare le centinaia di migliaia di feriti, mutilati, affamati, e le migliaia di case, scuole, ospedali rasi al suolo, di far finta di nulla e di iniziare un percorso di collaborazione pacifica coi loro aguzzini secondo la nota canzone napoletana: “chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdámmoce ‘o ppassato, simmo in Palestina paisá”. La madre della Sala ha pubblicamente affermato che il governo italiano doveva fare di tutto per ottenere la liberazione della figlia, non perché fosse sua figlia appunto, oppure in quanto cittadina italiana ingiustamente incarcerata, ma perché: “Cecilia è un’eccellenza italiana, non lo sono solo vino e cotechini. Non può essere segnata per la vita”4. Se queste sono le eccellenze italiane, meglio circoscriverle ai soli vino e cotechini.

Gli scherzi della Storia e delle commemorazioni

Non parleremo più di Cecilia Sala, quindi, ma di quello che è accaduto prima, durante e dopo il suo caso che, invece, è ricco di interessanti riflessioni di vario genere; una vicenda che lega nella sua attualità concetti e avvenimenti lontani secoli tra loro, ma che tutti si riverberano in quello che è successo in questo ultimo mese tra Roma, Teheran e Mar-a-Lago: andiamo con ordine. A mio modesto avviso, forse meglio di volumi storici e sociologici, per spiegare la storia della classe dirigente di questo Paese e di come abbia mirabilmente perduto il ruolo di centro del mondo conosciuto durante il Medioevo a Paese “fuori dalla Storia” come fu l’Italia del XVIII secolo, ridotta a museo a cielo aperto per i viaggi romantici dei nordeuropei (vedasi a tale proposito il mirabile racconto Viaggio in Italia di Goethe), pochi testi sono migliori della Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis pubblicato nel 1870. In questa storia, De Sanctis, tra gli innumerevoli temi trattati, racconta di un idioma, quello volgare italiano, che riesce quasi subito a emanciparsi dal latino e che, tramite le opere poetiche del XIII secolo, struttura le sue due componenti, la parte di suono e quella di significato, la cui ricerca della migliore interazione possibile avrà una immediata, somma ma acerba espressione nella Commedia di Dante Alighieri. Le parole di Dante sono talmente ricche di contenuto, oltre che magistralmente modulate nel “suono poetico” che sono secoli che si scrivono libri sui loro significati. La Commedia di Dante è figlia e manifesto della condizione di progresso e prosperità dell’Italia di quel tempo rispetto al resto d’Europa, anche in considerazione del fatto che, a differenza degli altri potentati europei, poteva contare, per esempio, su tre centri finanziari internazionali: Roma, Firenze e Venezia. Da quel momento topico, De Sanctis inizia a descrivere la parabola discendente della nostra lingua, che faceva da controcanto a quella politica, economica e sociale. In questo processo secolare la parola si svuotava progressivamente di significato, per rimanere puro suono fino a giungere all’estremo opposto della parabola rispetto alla Commedia dantesca: è la lirica dell’Arcadia e di Pietro Metastasio del XVIII secolo, dove la parola cerca esclusivamente il suono sublime privandosi del suo significato, per potere essere meglio apprezzata nelle sfarzose corti europee di quel tempo. Le parole pronunciate da Cecilia Sala sono questo: suoni che debbono essere apprezzati dalla politica e dal potere, guai se queste parole contengono dei significati reali. Sempre nel XIII secolo, tempo particolarmente ricco di progressi, i baroni inglesi si stufano delle prepotenze dei sovrani Plantageneti, vessazioni fiscali e minacce personali, tra le quali l’usanza di arrestare arbitrariamente gli avversari politici di Enrico II prima e dei suoi eredi al trono Riccardo Cuor di Leone e poi Giovanni Senzaterra. A Giovanni va male coi baroni, ed è costretto a emanare la famosa Magna Carta Libertatum nel 1215, che tra i vari cardini giuridici contiene il pertinente, per la nostra analisi, principio dell’“Habeas Corpus”, così spiegato dall’Enciclopedia Treccani: “… il diritto a processi imparziali e secondo la legge venne allargato a tutti i cittadini e il divieto di arresti arbitrari fu garantito dalle successive norme sull’habeas corpus, le quali stabilivano che la persona arrestata (il ‘corpo’) dovesse essere condotta in tempi brevi di fronte a un giudice. La protezione degli uomini liberi contro i soprusi dei feudatari rappresentò la prima affermazione dell’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge”5. Aldo Cazzullo, tra i meno volgari dei giornalisti di regime, forse allo scopo di allontanarsi dal fardello di dover declamare quotidianamente le meraviglie progressive dell’Occidente collettivo almeno in televisione, ha ideato e tuttora conduce una serie di trasmissioni su La7 intitolate “Una giornata particolare” nelle quali focalizza determinati avvenimenti storici circoscritti in un lasso di tempo minimo. Il 16 ottobre scorso, Cazzullo ci raccontava, con un particolare entusiasmo, delle Cinque giornate di Milano del 18486, e del duro confronto tra i milanesi e la guarnigione austriaca agli ordini dell’allora viceré del Lombardo-Veneto maresciallo Josef Radetzky, noto ancora oggi per la famosa marcia scritta in suo onore da Johann Strauss padre che conclude immancabilmente il concerto di capodanno della Wiener Philharmoniker. In quella puntata Cazzullo si distinse per l’enfasi risorgimentale della narrazione, per aver descritto l’eroismo dei milanesi che scacciarono gli odiati austriaci, per la sottolineatura della reciproca stima che si scambiavano in continuazione Alessandro Manzoni e Giuseppe Verdi, entrambi assenti però dalle barricate, e anche per aver accennato a un uomo che ebbe un ruolo centrale nell’insurrezione come Carlo Cattaneo. Infine, riportiamo la dichiarazione della presidente del Consiglio dei ministri in merito alla recente commemorazione del 228esimo anniversario della proclamazione del primo tricolore italiano a Reggio Emilia, vessillo della neonata repubblica Cispadana: “Amore per la Patria, memoria e rispetto per chi ha lottato per la nostra libertà, speranza per un futuro da costruire insieme. Sono tutti valori incarnati dal nostro Tricolore, che celebriamo in particolar modo oggi, in occasione della Giornata nazionale della bandiera. Un ponte che unisce storia e futuro, tradizione e innovazione, le nostre radici con il nostro domani. Simbolo di una nazione forte e unita che sta tornando a farsi valere nel mondo”7. Cerchiamo ora di tenere a mente tutti questi punti sparsi, e che apparentemente non hanno nessuna connessione tra loro, nella ricostruzione del caso Sala, perché saranno le basi delle brevi riflessioni che faremo man mano.

Habeas Corpus? Chi è costui

Il 16 dicembre scorso un ingegnere svizzero-iraniano, Mohammad Abedini Najafabadi, atterra all’aeroporto di Malpensa proveniente da Istanbul, forse per maggiore comodità o forse per non aver trovato un volo diretto su Zurigo. Abedini è titolare di una società svizzera coinvolta nella produzione di droni per il Corpo delle guardie della rivoluzione islamica, i famigerati pasdaran iraniani. Sceso dall’aereo, Abedini viene immediatamente arrestato dalla polizia italiana su richiesta del Dipartimento della giustizia degli Stati Uniti in quanto trasgressore di due normative americane: una riguardante il divieto di esportazione di tecnologie Usa e la seconda riguardante la violazione delle sanzioni comminate all’Iran. Entrambe le leggi violate, però, non sono trattati internazionali firmati dall’Italia, ma sono normative valide solo sul territorio americano. L’ingegnere iraniano, inoltre, non risulta essere un terrorista, tantomeno la sua società svizzera risulta essere iscritta in qualcuna delle numerose liste nere redatte dall’Unione europea. Abedini lavora nel campo della difesa, come si direbbe da noi, alla stessa stregua degli ingegneri, per esempio, della Lockheed-Martin e della Leonardo, solo che il primo costruisce droni per l’Iran mentre i secondi lo fanno per la Nato oppure per l’Ucraina. Tuttavia, lo sceriffo di Nottingham dei nostri giorni (probabilmente Elisabetta Belloni, direttrice del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza), ignaro della Magna Charta, sebbene siano passati otto secoli di storia del diritto, se ne frega altamente dei principi dell’Habeas Corpus, e supervisiona l’arresto senza nessun presupposto giuridico, ritenendo più che sufficiente la richiesta del Giovanni Senzaterra dei nostri giorni che sta a Washington: la cosa fondamentale è che vi sia un totale silenzio sull’operazione. Del resto, in Italia vi è una certa tradizione di arresti arbitrari di cittadini stranieri su ordine degli americani, basta ricordare il rapimento dell’imam di Milano, Abu Omar, a opera della Cia con la collaborazione dei servizi italiani avvenuto nel 2003. In questo caso i servizi americani non fanno nemmeno la fatica di farsi trovare nello scalo varesino e delegano totalmente gli italiani, limitandosi a comunicare che ci si trova di fronte a un pericoloso terrorista; ed ecco che prontamente il malcapitato viene trasferito dal carcere di Busto Arsizio a quello dedicato ai terroristi, appunto, di Rossano Calabro. Veniamo alla riflessione: in passati articoli si è svolto il tema della demitizzazione del diritto internazionale che Israele ha finalmente dimostrato non essere un’entità autonoma e imparziale, tanto meno le organizzazioni da esso emanate, ma di sussistere per la necessità degli alleati della Seconda Guerra Mondiale, e degli amici come Israele, di mascherare il loro diritto esclusivo di vincitori. Per esempio, l’Onu che guida le nazioni nella guerra di Corea del 1950-1953 è una sacra istituzione, l’Onu che infastidisce con timide critiche, e osa fare poco più di questo, il governo di Tel Aviv impegnato nel genocidio a Gaza è un covo di antisemiti. Sul capo di Benjamin Netanyahu pende un ordine di cattura emesso dalla Corte penale internazionale dell’Aja, suscitando proteste e disappunto nelle élite sulle due sponde dell’Atlantico: non è un criminale come Vladimir Putin, lui i bambini ucraini li rapisce. Non è escluso che tra qualche mese il premier israeliano potrebbe fare visita, per esempio, nel bel Paese per vedere “l’effetto che fa”. Lo smascheramento del cosiddetto diritto internazionale e della sua arbitrarietà ha, però, dei risvolti anche sul piano del diritto nazionale in relazione agli interessi stranieri, soprattutto in Paesi totalmente privi di sovranità come l’Italia, essenzialmente sotto due aspetti: uno passivo dettato dalla voluta mancanza di legislazioni atte a contrastare, per esempio, la delocalizzazione selvaggia di aziende finite nella proprietà di fondi d’investimento stranieri; uno attivo sotto forma della negazione di basilari principi di diritto, per esempio l’habeas corpus, come clamorosamente evidenziato nel caso dell’arresto illegale del cittadino iraniano Abedini. Il tema degli arresti illegali va, quindi, sottolineato e tenuto in debita considerazione perché tranquillamente replicabile anche nei confronti di cittadini italiani, dove le difficoltà per il Giovanni Senzaterra di casa nostra sarebbero estremamente minori: l’unico accorgimento da seguire è ottenere il silenzio dei mass media, cosa agevole in un Paese come l’Italia.

La mossa geniale degli iraniani: rompere il silenzio

A differenza di un cittadino italiano, sovente ignorato ovvero abbandonato dalle proprie rappresentanze diplomatiche quando si trova nei guai all’estero, nonché per l’evidente importanza che rivestiva Abedini per il governo di Teheran, l’ambasciata iraniana a Roma viene subito informata dell’arresto e reagisce prontamente, avvertendo però una spiccata mancanza di collaborazione da parte delle autorità italiane preposte, diciamo i servizi di sicurezza. Tali servizi, evidentemente, hanno presunto che gli iraniani si sarebbero limitati a proteste che, non potendo arrivare alla pubblica opinione, si sarebbero esaurite in un nulla di fatto. Evidentemente, a Teheran comprendono la mala parata e decidono di ribaltare il gioco il 19 dicembre attraverso l’arresto arbitrario di una cittadina italiana, come del resto è stato illegale quello di Abedini. Le autorità iraniane individuano, tra le varie possibilità, e secondo me non affatto casualmente, una giornalista organica alla stampa di regime e alla propaganda occidentale. La scelta era strumentale all’intento di rompere il cordone di silenzio che in Italia stava coprendo l’arresto-rapimento di Abedini, quindi si contava sulla capacità della Sala di smuovere i mass media italiani sulla sua ingiusta carcerazione, da collegare però a quello dell’ingegnere iraniano. Tuttavia, il cordone del silenzio in Italia resistette ancora altri otto giorni prima che la notizia dirompesse il 27 dicembre e non grazie alla stampa nostrana, bensì da una nota ufficiale del ministero degli Esteri8. Da quel momento si scatena una canea a reti unificate dove i colleghi dell’eroica reporter si scandalizzano per il crimine commesso dal perfido e vigliacco regime iraniano, dove si inneggia alla libertà di stampa e alla sacralità e inviolabilità della figura dell’inviato, fonte sublime di verità e testimonianza. Non ripetiamo la pretestuosità di queste recite, declamate per la Sala e negate a tutti i reporter uccisi dagli israeliani e dagli ucraini, ma se fossi nella giovane giornalista un pensierino sul perché i suoi colleghi, così attenti alla libertà di stampa, non abbiano scritto e detto nulla dal 19 al 27 dicembre, e sul fatto che la svolta della sua vicenda sia scaturita dalla decisione politica della Farnesina di far uscire la notizia, a mio avviso costretta in qualche modo dalle pressioni dell’ambasciata iraniana e probabilmente della famiglia Sala e dei giornalisti legati affettivamente e professionalmente alla reporter, la farei. Inoltre, sempre in mezzo al coro d’indignazione per il mefistofelico atto degli ayatollah, si comincia a collegare a ritroso l’arresto della Sala con quello di Abedini, e inizia a emergere la tesi che l’arresto della Sala in Iran non sia dovuto alla sua attività giornalistica ma per realizzare un classico scambio di prigionieri: la strategia degli iraniani ha quasi vinto. Facciamo un paio di riflessioni su questo punto. L’isteria collettiva della corporazione dei giornalisti di regime colla quale, del tutto improvvisamente e con sospetto ritardo, ha iniziato a proclamare la sacralità e inviolabilità dei giornalisti, si intende solo quando sono amici, e inveire contro il regime iraniano despota e liberticida cela due aspetti: la loro cattiva coscienza che starebbe alla Sala indagare se le convenisse, e non le conviene essendo diventata una paladina del giornalismo libero e coraggioso, e una brutale chiamata al razzismo ideologico di una casta. Il giornalista occidentale ha il diritto di andare nei Paesi “ostili” a raccontare quello che ritiene giusto dire, e non ha nessuna importanza se corrisponda al vero oppure no, perché è intellettualmente onesto e libero per definizione: perché è occidentale. Al contrario, un giornalista iraniano non potrebbe venire in Italia a raccontare di un arresto illegale di un proprio concittadino, operato su disposizione di una potenza straniera nell’omertoso silenzio della stampa libera a targhe alterne, perché non sarebbe un giornalista libero ma un’agente degli ayatollah per definizione: perché iraniano. Altra riflessione riguarda la pericolosa cialtroneria di certi servizi di sicurezza di casa nostra, che si sono fatti sorprendere dalla contromossa degli iraniani con il fermo di Cecilia Sala, ritenendo che quei regimi si disinteressino delle sorti dei propri concittadini come avrebbero fatto loro in caso di ruoli invertiti.

Simboli decaduti e parole vuote

Abbiamo visto l’entusiasmo risorgimentale col quale Cazzullo celebra le 5 giornate di Milano e la cacciata, seppur momentanea, dell’occupante austriaco. Se chiedessimo, però, allo stesso Cazzullo come vanno chiamati i soldati americani, e quelli della Nato, presenti in 140 basi militari in Italia, aree extraterritoriali incluso il loro personale, non soggetti alle leggi italiane come ha dimostrato clamorosamente il caso della funivia del Cermins del 4 marzo 1999 dove due piloti americani uccisero per divertimento 20 persone e rimasero impuniti9, il conduttore de “Una giornata particolare” molto probabilmente ci risponderebbe tra il crucciato e il seccato: sono nostri alleati, sono il baluardo della nostra libertà. Probabilmente avrebbe ragione lui a non chiamare gli americani truppe di occupazione, come realmente sono, perché prospettive che se ne vadano per ora non se ne vedono. Infatti, proprio sull’onda delle 5 giornate di Milano l’esercito del Regno di Sardegna, non senza un forte ottimismo sulle proprie capacità belliche, sfidò quello austriaco per due anni mettendolo in difficoltà ma non potendo evitare la sconfitta finale; mentre non si vede all’orizzonte nessuno in grado di sfidare la potenza militare americana in Italia: quindi, è più educato chiamarli alleati e non occupanti. Per la Meloni, invece, la difficoltà di trovare la soluzione di un caso così imbarazzante e potenzialmente dannoso è subito evidente in relazione alla sua narrazione di essere un capo di un governo col tricolore in mano “Simbolo di una nazione forte e unita che sta tornando a farsi valere nel mondo”. Se questa narrazione fosse stata vera, la soluzione sarebbe stata semplice: essendo l’arresto di Abedini arbitrario e illegale, il guardasigilli avrebbe dovuto disporre il rilascio del cittadino iraniano immediatamente, scusandosi per l’errore giudiziario. Invece, non poteva andare così; l’Italia non è affatto quel Paese forte e rispettato, che si è vaneggiato successivamente in quanto, per rilasciare Abedini e far rimpatriare la Sala, occorreva il permesso dei padroni americani. Innanzitutto, Giorgia, a mio avviso, si chiede perché non fosse stata informata di quanto stava accadendo, e non vi può essere altra spiegazione per i forti dissapori che si sono avuti con la direttrice dei servizi Belloni tali da indurre la seconda a dare le dimissioni nel bel mezzo della crisi con Teheran. Il capo del governo, essendo italiana e quindi figlia di un noto Paese di esploratori, ha scoperto che i servizi di sicurezza del bel Paese sono alle dirette dipendenze di quelli americani, e che tale dipendenza normalmente esclude il controllo da parte della politica, e tantomeno la necessità di preventiva informazione e successiva autorizzazione. In secondo luogo, non è da escludere che la Meloni, fiutando che la pessima gestione del caso da parte dei servizi la stava spingendo in un pericoloso trappolone, abbia preso in mano la situazione e, per logica competenza, innanzitutto si sia rivolta all’attuale amministrazione Biden evidentemente invano; non è più tempo di bacini con il vecchio Joe. Vista la mala parata, Giorgia si è quindi precipitata di persona alla corte del suo nuovo padrino, Donald Trump, per ottenere la copertura politica necessaria, denunciando magari una macchinazione “democratica” sulle due sponde dell’Atlantico. The Donald, col suo spirito pratico e imprenditoriale, ha risposto positivamente alla richiesta di aiuto della Meloni, chiedendo però un prezzo per tale copertura, prezzo che si sospetta sia un contratto miliardario a favore della società Starlink dell’amico e finanziatore Elon Musk per la gestione satellitare delle comunicazioni e delle informazioni riservate dell’apparato dello Stato. La notizia ha generato sconcerto in Italia, considerando che un privato cittadino, coinvolto nel governo di un Paese straniero, avrebbe libero e diretto accesso alle informazioni riservate di un cosiddetto Stato sovrano, che tanto sovrano ha dimostrato di non essere. Per ora, tutti smentiscono; vedremo nei prossimi mesi.

Un Paese tutto chiacchiere e distintivo

La vicenda di Cecilia Sala e di Mohammad Abedini è stata l’esatto contrario di quello che i giornali vanno starnazzando da qualche giorno, ed è la conferma che Francesco De Sanctis aveva ragione nel denunciare lo svuotamento delle parole e la loro trasformazione in puri suoni, da orchestrare in un’opera lirica. Sono solo suoni parole come libertà, Stato di diritto e sovranità, termini smentiti da questo “affaire”. Si è assistito, invece, a un inquietante arbitrio sulla libertà personale che riporta questo Paese nel pieno del Medioevo, un vulnus che va preso in seria considerazione perché potrebbe riguardare qualsiasi avversario politico in un tempo dove le leggi e le regole sono diseguali per tutti. Sul discorso della sovranità dell’Italia non c’è molto da dilungarsi, questo Paese non riesce nemmeno a mantenere una parvenza d’indipendenza, e non sa come gestire i suoi rapporti con un gruppo di oligarchi che fondono i propri interessi privati con la gestione della potenza americana, modus operandi che la futura amministrazione Trump sta palesando senza troppi pudori: vuoi l’aiuto da parte dell’amico Donald in modo da salvare la tua posizione politica su di un potenziale “pasticciaccio brutto”? Paga allora l’amico Elon. I successivi commenti della stampa italiana, poi, sono del tutto orwelliani: per i giornalisti di regime non solo la pace è guerra ma genuflettersi è farsi valere. Tuttavia, il motivo di preoccupazione per Giorgia Meloni nei suoi rapporti con tipi spregiudicati come la coppia Trump-Musk non va ricercata tanto nella richiesta di aiuto per risolvere una potenziale crisi internazionale, mettendo gli stessi Usa in un certo imbarazzo, quanto nel fatto che, a differenza del caso di Abu Omar, i servizi italiani hanno malamente fallito l’obiettivo indicato e si sono dimostrati non all’altezza delle aspettative di Washington, con l’aggravante di rendere pubblico il fatto che l’Italia non è più un Paese sicuro per certi transiti e costringendo, quindi, i servizi americani a rivolgersi ad altri Paesi europei, magari meno malleabili come la Germania e la Francia, per le loro operazioni sotto copertura; questi sono errori che i padroni non apprezzano e che alla lunga i servi potrebbero pagare.


Note:
1 https://www.youtube.com/watch?v=skwv2gWDRnA
2 Altri 5 giornalisti uccisi a Gaza. Sono 200 gli operatori dell’informazione morti. RaiNews del 26/12/24
3 https://www.internazionale.it/ultime-notizie/2025/01/10/gaza-bilancio-vittime-the-lancet
4 https://www.corriere.it/politica/25_gennaio_03/cecilia-sala-madre-e0ae477c-b572-43ae-a8c2-6cdc305caxlk.shtml
5 https://www.treccani.it/enciclopedia/magna-charta_(Enciclopedia-dei-ragazzi)/
6 https://www.la7.it/una-giornata-particolare/rivedila7/una-giornata-particolare-le-cinque-giornate-di-milano-puntata-del-16102024-17-10-2024-562983
7 https://www.lastampa.it/politica/2025/01/07/news/festa_del_tricolore_meloni_mattarella-14924164/
8 https://www.esteri.it/it/sala_stampa/archivionotizie/comunicati/2024/12/nota-farnesina-cecilia-sala/
9 https://www.focus.it/cultura/storia/nessun-colpevole-strage-funivia-cermis

Fulvio Bellini

20/1/2025 https://futurasocieta.com/

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