Il lavoro è morto, viva i lavoratori

L’atteggiamento collettivo verso il lavoro è cambiato. Il successo di opere come il libro di Francesca Coin _Le grandi dimissioni_ (Einaudi, 2023) o il documentario di Erik Gandini _After Work_  ha avuto il grande merito di costringere anche gli osservatori più pervicacemente noncuranti a fare i conti con la realtà. La quale, si sa, ha l’abitudine di essere ostinata.

Oggi, il lavoro è ben lontano dall’essere quel mezzo attraverso il quale milioni di persone sono state in grado di migliorare le proprie condizioni materiali e conquistare diritti e riconoscimento sociale. È piuttosto un’attività obbligata che non garantisce il riparo dalla privazione economica e prevarica ogni altro aspetto della propria vita: relazioni umane, rapporti familiari, salute fisica e mentale, interessi culturali o sociali.

Davanti a questa realtà molti stanno decidendo di fermarsi. Le dimensioni del fenomeno non sono di facile stima e le dimissioni volontarie non riescono a darne un quadro completo. La reale portata delle Grandi Dimissioni è, con buona probabilità, sottostimata. Ai 2,2 milioni di dimissioni volontarie del 2022 e agli 1,9 milioni del 2021 vanno in realtà aggiunti i contratti a termine che a scadenza non vengono rinnovati per decisione dei lavoratori stessi, i licenziamenti che però partono da una volontà espressa dal lavoratore, gli abbandoni silenziosi di posti di lavoro in nero. Tutte queste situazioni non rientrano nelle statistiche ufficiali ma fanno parte dell’esperienza di vita di moltissime persone.

La prima motivazione che accompagna questo rifiuto sono i salari troppo bassi. Impieghi pecari e spesso part-time sono sinonimo di paghe da poche centinaia di euro al mese. Significa dover scegliere tra pagare l’affitto e fare la spesa. Oggi, interi settori, a partire da turismo, ristorazione e commercio, si reggono su contratti a tempo determinato, part-time involontario e paghe orarie ferme a prima dell’inflazione. Non sorprende quindi che proprio in questi settori il saldo tra entrate e uscite di lavoratori sia negativo.

Il lavoro è poi un vorace ladro di tempo. I lavoratori a tempo pieno spesso sono soggetti a un grande mole di straordinari, non a caso in Italia si lavora in media molto di più che in Germania, Francia o Spagna. Inoltre, la tecnologia dilata la prestazione di lavoro ben oltre i confini dell’ufficio, trasformando _ogni momento_ in un buon momento per dare una risposta ed essere produttivi. I lavoratori part-time, invece, spesso non hanno il controllo su _quando_ dovranno lavorare, con i datori di lavoro che pretendono disponibilità in ogni fascia oraria. Così, nonostante abbiano un orario ridotto, subiscono la beffa di non riuscire comunque a conciliare tempi di vita e tempi di lavoro.

Ciò può accadere perché i luoghi di lavoro sono luoghi di totale subordinazione alla gerarchia e al potere dispositivo della parte datoriale. Pressioni, intimidazioni, minacce, spesso permeate di sessismo e razzismo, fanno parte dell’esperienza quotidiana di milioni di persone. Come cittadini ci rivolteremmo se un qualsiasi funzionario pubblico giustificasse una propria decisione con un “qui comando io”. Viceversa, come lavoratori, tanto ci deve bastare. Anni luce dalla _libertà nel lavoro_, dal diritto a partecipare alle decisioni che si prendono nel luogo di lavoro al centro delle riflessioni di Trentin.

Infine, è venuta a mancare una cornice di senso per molte occupazioni. I nostri nonni erano orgogliosi di ciò che producevano, i loro nipoti oggi faticano a cogliere il senso di molte delle attività che occupano le loro giornate e le percepiscono come una obbligata fatica di Sisifo della quale non riescono a intuire la reale utilità. Perciò, alcuni scelgono di fermarsi, nel tentativo di trovare un modo per guadagnarsi un salario più coerente con la persona che sentono di essere.

Certo, tutti questi fattori andrebbero approfonditi singolarmente. Eppure dentro ciascuno di noi sono impastati tutti insieme perché, come diceva Carniti, mentre lavoriamo, viviamo. E davanti a questo quadro generale, il rifiuto del lavoro non appare come il capriccio di una generazione viziata o il gesto impulsivo di qualche testa calda. È piuttosto una scelta razionale volta alla salvaguardia di sé stessi.

Ma, se la realtà è questa, come dobbiamo interpretare il misto di stupore e terrore che è il sotto-testo della maggior parte delle analisi che commentatori e politici ci propongono sul tema?

Il rifiuto di accettare qualsiasi lavoro venga offerto senza lamentele, come invece è stato fino a oggi, è una novità in grado di riequilibrare i rapporti di forza tra capitale e lavoro, favorendo una crescita dei salari. Qui sta la prima grande preoccupazione da parte di chi detiene il potere.

Non solo, il tentativo delle persone di riappropriarsi di uno spazio di vita che è stato eroso dal lavoro ha la potenzialità di mettere in discussione l’intera relazione salariale. L’idea che si possa voler vivere senza essere costretti a vendere la propria forza lavoro e che, se proprio si è costretti a farlo, si cerchi di farlo alle proprie condizioni, è ciò che, più di tutto, atterrisce la classe dominante. Significa mettere in discussione il lavoro salariato come meccanismo di disciplina e sottrarsi al paradigma del produci-consuma-crepa. Potenzialmente è il punto zero di un movimento di resistenza individuale per ricostruire la propria vita attorno a coordinate differenti rispetto alle necessità del profitto.

Tuttavia, la relazione salariale non è messa in discussione solo dal rifiuto del lavoro. Anche da parte della classe dominante l’insofferenza verso il lavoro dipendente, stabile, sindacalizzato e localizzato geograficamente è chiara. Prima attraverso la precarietà e ora grazie allo sviluppo tecnologico, è in campo un tentativo di mettere in discussione la relazione salariale anche da parte datoriale. Oggi, la tecnologia rende possibile un cambiamento strutturale nell’esercizio dei poteri nel rapporto di lavoro. Il flusso di lavoro viene frammentato in compiti sempre più semplici da distribuire fra vari lavoratori e la prestazione viene ricostruita grazie al controllo sui dati. Un processo che ricorda molto più il cottimo che il lavoro dipendente. Ciò evidentemente ha un risvolto sulle professionalità che vengono progressivamente dequalificate, con l’obiettivo di rendere i lavoratori sostituibili l’uno con l’altro. Così, l’uso della tecnologia permette di mantenere in vita subordinazione e controllo tipici del lavoro dipendente, abbandonando però la stabilità e il riconoscimento che quel tipo di relazione salariale impone.

L’esigenza è quindi duplice e all’apparenza contraddittoria.

Innanzitutto, occorre riqualificare il lavoro, rimetterlo al centro della costruzione politica della società e non lasciare che il controllo sul progresso tecnologico venga usato per smantellare i diritti e aumentare la subordinazione dei lavoratori. Questo obiettivo passa necessariamente dal ripensamento delle condizioni nelle quali l’azione del lavoro viene esercitata. Infatti, non ci può essere _lavoro buono_ in una società patriarcale e classista, nella quale l’obiettivo ultimo è il profitto da raggiungere attraverso lo sfruttamento allo sfinimento di ogni risorsa, umana e ambientale. Si tratta di mettere in discussione il potere assoluto delle aziende nel definire cosa produrre, come, quanto e attraverso quali tecnologie. In altre parole occorre recuperare un controllo dei lavoratori sul proprio operato per ripensarne la finalità ultima che non può essere la massimizzazione del profitto.

Tuttavia, la necessità di riconquistare spazi di democrazia nei luoghi di lavoro non coglie fino in fondo il cambiamento che sta avvenendo. Bisogna avere la forza di denunciare non solo le condizioni di lavoro ma anche il fatto che questo sia, per una sua parte non marginale, inutile e dannoso. Inutile, perché la nostra capacità produttiva eccede di molto le nostre necessità materiali e molti dei nostri sforzi servono solamente a permettere di aggiornare al rialzo l’indice dei profitti di pochi ricchi. Se dici lavoro (di alcuni), dici profitto (di altri). Dannoso, su due fronti. Da un lato, perché consumiamo le risorse del pianeta drammaticamente oltre i suoi limiti. Dall’altro, perché rende impossibile la vita a milioni di persone. Il nodo da sciogliere diventa quindi non solo il recupero di spazi di controllo dei lavoratori sulla produzione ma proprio la messa in discussione degli obiettivi ultimi del nostro lavorare. Tutti i lavori che facciamo ci servono davvero? Perché dobbiamo lavorare così tanto e così a lungo? Per soddisfare quali bisogni?

Il nuovo rifiuto del lavoro è un tentativo di fermare la ruota del criceto. Deriva da quella che Marazzi definisce la necessità di sottrarsi alla logica dell’accaparramento. Se non si spezza questa spirale potremo anche recuperare il controllo sulla produzione ma continuerà a mancare la capacità di fermarci e rallentare. In questo senso il mutato atteggiamento collettivo verso il lavoro è una grande occasione per ricostruire un discorso pubblico differente che ridefinisca priorità e bisogni.

Le dimissioni volontarie sono il segno evidente di una sfiducia nella possibilità di cambiare collettivamente la propria condizione. Tuttavia, nonostante chi si dimette scelga di andarsene e non di lottare, il rifiuto del lavoro può essere un’occasione anche dalla prospettiva sindacale. Ciò a patto che venga cambiato il racconto di cosa sia e di quale ruolo abbia oggi il lavoro nella nostra società. Occorre riconoscere la realtà ed esserle fedeli, fino alla brutalità. Una risposta efficace a quello che sta avvenendo passa attraverso il coraggio di dire che per troppe persone il lavoro non è né un mezzo né un fine ma solo un fardello. E che molti dei lavori che siamo costretti a fare, potrebbero essere tranquillamente aboliti. Ovviamente un discorso del genere può essere fatto solo se accompagnato all’obiettivo della redistribuzione del lavoro. Alle più tradizionali rivendicazioni sulla _libertà nel lavoro_, il movimento sindacale deve tornare ad affiancare la _libertà dal lavoro_. Il lavoro va redistribuito, riducendo il più possibile la quantità di lavoro socialmente necessario e distribuendolo sul maggior numero possibile di persone.

Il pianeta, i nostri corpi e le nostre menti ci stanno urlando che così non è possibile andare avanti. La relazione salariale per come l’abbiamo conosciuta è il grande malato della nostra società. Resta da capire attraverso quale forma verrà innovata. Se non saremo in grado di superare la sua forma attuale da una prospettiva di progresso, sarà la classe dominante che, grazie al monopolio della tecnologia, lo farà sulla nostra pelle. Il terreno di scontro è sempre il solito: lavoratori contro capitale, classe precaria contro classe dominante, vita contro profitti.

Il lavoro è morto, viva i lavoratori.

Giorgio Maran

30/8/2023 https://transform-italia.it/

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