Il “licenziatore” non si smentisce mai!

In altra occasione scrivevo che la notizia dell’improvvisa “conversione” di Pietro Ichino alle ragioni dei lavoratori – piuttosto che agli interessi più beceri dei “padroni” – avrebbe rappresentato qualcosa di sconvolgente. La cronaca quotidiana e i resoconti parlamentari confermano che una rivoluzione di tale portata equivarrebbe a un’azione <contro natura>; significherebbe, in sostanza, rimettere in discussione l’eliocentrismo a favore del ripristino della teoria tolemaica! La sua ultima “performance” risale ad appena qualche giorno fa. Infatti, in occasione del “parere” approvato l’11 febbraio dallaCommissione Lavoro del Senato sullo schema di decreto legislativo 134/2015 presentato dal Governo al Parlamento, in attuazione di una delle deleghe contenute nella legge 10 dicembre 2014 n. 183, all’atto della votazione di un “emendamento aggiuntivo”, Ichino ritenne opportuno uscire dall’aula e non partecipare al voto. L’emendamento (approvato col voto favorevole di Pd, Sel e M5S) si rifaceva a una norma della legge 223/91 sui licenziamenti collettivi. Tale disposizione (art. 24, comma 1, legge 223/91) prevede che le imprese che intendano procedere a un licenziamento collettivo (almeno cinque lavoratori nell’arco di centoventi giorni), sono tenute al rispetto di quanto previsto all’art. 4, commi da 2 a 12, e all’art. 5, commi da 1 a 5 della stessa legge. Allo scopo di evitare qualsiasi possibilità di equivoco, è opportuno riportare, in particolare, quanto previsto al comma 9 dell’art. 4: “ Raggiunto l’accordo sindacale ovvero esaurita la procedura di cui ai commi 6, 7 e 8, l’impresa ha facoltà di collocare in mobilità gli impiegati, gli operai e i quadri eccedenti, comunicando per iscritto a ciascuno di essi il recesso, nel rispetto dei termini di preavviso. Contestualmente, l’elenco dei lavoratori collocati in mobilità, con l’indicazione per ciascun soggetto del nominativo, del luogo di residenza, della qualifica, del livello di inquadramento, dell’età, del carico di famiglia, nonché con puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta di cui all’articolo 5, comma 1, deve essere comunicato per iscritto all’Ufficio regionale del lavoro e della massima occupazione competente, alla Commissione regionale per l’impiego e alle associazioni di categoria di cui al comma 2”. Il successivo art. 5, prevede, quindi, nella prima parte del comma 1, i “criteri” cui deve sottostare l’impresa nella scelta dei lavoratori da licenziare. Esso così recita: “ 1. L’individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità deve avvenire, in relazione alle esigenze tecnico-produttive e organizzative del complesso aziendale, nel rispetto dei criteri previsti da contratti collettivi stipulati con i sindacati di cui all’articolo 4, comma 2, ovvero, in mancanza di questi contratti, nel rispetto dei seguenti criteri, in concorso tra loro: a) carichi di famiglia; b) anzianità: c) esigenze tecnico-produttive e organizzative. 2. Nell’operare la scelta dei lavoratori da collocare in mobilità, l’impresa è tenuta al rispetto dell’articolo 9, ultimo comma, del decreto-legge 29 gennaio 1983, n. 17, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 marzo 1983, n. 79. L’impresa non può altresì collocare in mobilità una percentuale di manodopera femminile superiore alla percentuale di manodopera femminile occupata con riguardo alle mansioni prese in considerazione (8). 3. Il recesso di cui all’art. 4, comma 9, è inefficace qualora sia intimato senza l’osservanza della forma scritta o in violazione delle procedure richiamate all’art. 4, comma 12, ed è annullabile in caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1 del presente articolo”. L’emendamento, quindi – contrariamente a quanto disposto dalle recenti norme del Jobs act e del “contratto a tutele crescenti” – ripristinava la pratica della “reintegra”, piuttosto che il semplice risarcimento monetario, nei casi in cui le imprese, nell’effettuare dei licenziamenti collettivi per motivi economici, avessero violato, nell’individuazione dei lavoratori, i criteri di “scelta” previsti dai contratti collettivi. Al riguardo, non va sottaciuto (giusto punto 2. del primo comma dell’art. 5 in esame) che il puntuale rispetto dei criteri – contrattuali o legali – deve avvenire anche in relazione a quanto previsto dalle norme in materia delle c.d. “assunzioni obbligatorie”, nonché dell’occupazione femminile. Ichino, però, non smentendo la fama di “licenziatore” tout court, dichiara di essere contrario alla reintegra del/i lavoratore/i licenziato/i senza il rispetto dei criteri previsti perché: “ La legge delega, infatti, esclude recisamente la possibilità della reintegrazione per tutti i <licenziamenti economici>; e a me sembra che non possa ragionevolmente dubitarsi che il licenziamento collettivo sia ricompreso in questa nozione”. Orbene, che le vigenti norme (Ichino docet) in materia di licenziamento economico – individuale e/o collettivo – non prevedano più l’esistenza della “giusta causa”, abbiano cancellato il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro per il lavoratore ingiustamente licenziato e previsto solo la corresponsione di un semplice indennizzo monetario, è ormai legge dello Stato. Da qui a sostenere, però, che in virtù di questo, nei casi di licenziamento collettivo per motivi economici – così come sciaguratamente, a mio parere, “deregolamentato” dalla Fornero prima e dal Jobs act dopo – al datore di lavoro sia concesso, in sostanza, anche di scegliere chi licenziare, senza essere obbligato al rispetto di alcun criterio selettivo, appare veramente indegno di una società civile. La negazione di qualsiasi elementare principio di civiltà giuridica! Tra l’altro, per concludere e giusto per evidenziare la faciloneria con la quale talvolta vengono affrontati anche argomenti di rilevante importanza, è opportuno evidenziare che, a mio avviso, non sarebbe sufficiente – come invece previsto dall’emendamento – richiamarsi solo ai criteri di cui ai contratti collettivi. Infatti, l’art. 5, comma 1, punto 1, della legge 223/91, prevede che, in mancanza di quelli contrattuali, si applichino – in concorso tra loro – i c.d. “criteri legali”; carico di famiglia, anzianità, ed esigenze tecnico-produttive e organizzative che non mi risulta siano stati ancora ufficialmente abrogati in sede di approvazione del decreto legislativo in questione. Renato Fioretti Collaboratore redazione di Lavoro e Salute 17/2/2015

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