Il manuale della repressione
Analisi del Ddl 1660: così con la scusa della sicurezza si colpiscono (ancora) il dissenso e le forme di vita non compatibili
Il 18 settembre, la Camera dei Deputati ha approvato il disegno di legge n. 1660, ormai conosciuto come «Decreto Sicurezza». Il testo, proposto congiuntamente dai Ministri dell’Interno, della Giustizia e della Difesa, deve adesso passare al Senato per l’approvazione in via definitiva.
Il disegno di legge è, nel suo contenuto, un insieme eterogeneo di interventi normativi che incidono sul codice penale, sul cosiddetto codice Antimafia e su numerose leggi speciali. Ma non è solo questo: il testo può essere inteso come un insieme – da questo punto di vista, molto omogeneo – di messaggi nei confronti di una serie di destinatari. Analizzeremo uno per volta, dunque, gli interlocutori cui si fa riferimento e le norme che li riguardano: i manifestanti, le forze dell’ordine, le persone private della libertà personale, le persone migranti e, infine, gli autori (ma soprattutto le autrici) di reati minori contro il patrimonio.
La prima considerazione tecnica, che vale per tutti gli interventi in questione, è che si è davanti a un complessivo progetto di quello che dai penalisti è chiamato «diritto penale d’autore»: se il diritto penale moderno dovrebbe essere caratterizzato dalla sua natura di diritto penale «del fatto», dunque sanzionare più o meno gravemente delle condotte in ragione della loro concreta offensività, si intende per diritto penale «dell’autore» un sistema in cui ha rilevanza preponderante chi commette un fatto, e non quanto questo fatto risulti dannoso o pericoloso. Ancor più eloquentemente, si parla dunque di diritto penale del nemico.
(Ancora) la criminalizzazione del dissenso
Un primo insieme di norme è quello che si rivolge agli attivisti, soprattutto agli attivisti per il clima. In realtà, questi ultimi erano già stati oggetto di un’iniziativa legislativa ad hoc il cosiddetto «decreto eco-vandali» del gennaio 2024, che aveva inasprito le sanzioni per i reati di imbrattamento e danneggiamento e previsto nuove sanzioni amministrative pecuniarie.con il nuovo disegno di legge si prosegue lungo la via già tracciata dalle precedenti innovazioni normative, sancendo un aggravamento di pena nel caso in cui il reato di danneggiamento sia commesso in occasione di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico con violenza alla persona o minaccia. Il reato di imbrattamento, in pratica, è ormai tutto dedicato agli attivisti di Ultima Generazione: un’aggravante, inserita dal citato decreto «eco-vandali», è volta a punire più severamente le pratiche di protesta nei musei («se il fatto è commesso su teche, custodie e altre strutture adibite all’esposizione, protezione e conservazione di beni culturali»), quella di nuovo conio fa invece riferimento alle condotte di deturpamento o imbrattamento commesse «su beni mobili o immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche» con la finalità di «ledere l’onore, il prestigio o il decoro» dell’istituzione alla quale appartengono. Leggasi: gli imbrattamenti dimostrativi dei palazzi del Governo e del Parlamento portati avanti negli ultimi anni. In quest’ultimo caso, si applicherà la pena della reclusione da sei mesi a un anno e sei mesi e la multa da 1.000 a 3.000 euro.
Un altro esempio di diritto penale d’autore è rappresentato dall’introduzione del reato di blocco stradale o ferroviario, che punisce a titolo di illecito penale (e non più con la sola sanzione amministrativa) chiunque «impedisce la libera circolazione su strada ordinaria o ferrata, ostruendo la stessa con il proprio corpo». La pena è significativamente aumentata se il fatto è commesso da più persone riunite, a dimostrazione, se ce ne fosse ancora bisogno, del fatto che il fenomeno che si intende sanzionare è quello delle mobilitazioni collettive di protesta: tanto che la norma è stata battezzata dai movimenti come «norma Anti-Gandhi».
Ultimo messaggio ai manifestanti: in virtù di un emendamento approvato nel corso della discussione parlamentare, viene prevista un’ulteriore circostanza aggravante dei delitti di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale, di resistenza a pubblico ufficiale e altri simili illeciti se il fatto è commesso «al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica». Evidente, in questo caso, il riferimento ai movimenti No Tav e alle proteste che si prefigurano contro la costruzione del Ponte sullo Stretto.
Se, da un lato, il Governo rimarca chiaramente il proprio posizionamento verso gli attivisti e le attiviste per il clima e contro le grandi opere (si segnala anche, a completamento del quadro, un emendamento proposto dalla Lega che mirava espressamente a criminalizzare gli scioperi, emendamento non approvato forse perché troppo scopertamente anticostituzionale), dall’altro, altrettanto chiaramente, si intende rafforzare la tutela delle forze dell’ordine (una tutela articolata perlopiù nei termini di nuove e più gravi sanzioni penali, più che, ad esempio, di miglioramento delle condizioni di lavoro). Con la modifica dell’art. 583-quater del codice penale, si introduce la nuova fattispecie di reato di «lesioni personali a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni»; in secondo luogo, le modifiche agli articoli 336, 337 e 339 del codice penale introducono una circostanza aggravante dei delitti di violenza o minaccia e di resistenza a pubblico ufficiale se il fatto è commesso «nei confronti di un ufficiale o un agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza», peraltro prevedendo il divieto di prevalenza delle attenuanti sulla predetta aggravante.
Come già segnalato da più parti, ad esempio nel parere reso alla Camera da Asgi e Antigone, queste norme creano un sottoinsieme inedito all’interno della categoria dei pubblici ufficiali, composto solo da agenti di polizia. In questo modo, un atto di violenza contro un agente di polizia è punito più severamente rispetto a quello commesso contro qualsiasi altro pubblico ufficiale, come, ad esempio, un magistrato.
Sorvegliare e punire
Per quanto sicuramente gravi nelle intenzioni scopertamente liberticide, le norme previste dal decreto sicurezza sul dissenso e sulla libertà di manifestazione hanno un effetto più propagandistico che repressivo se paragonate alle norme previste nei confronti di altri soggetti. È forse il caso di decolonizzare lo sguardo sul decreto sicurezza: non sono gli attivisti l’epicentro di questo provvedimento normativo. La criminalizzazione del dissenso è solo un tassello della teoria dello Stato e della società che si vuole rendere concreta con un disegno di legge che, ancora una volta, alla sua approvazione esplicherà gli effetti più distruttivi nei confronti dei soggetti più deboli ed emarginati.
Veniamo, dunque, al messaggio che il Governo intende dare alle persone recluse nelle carceri del paese. Con l’obiettivo del «rafforzamento della sicurezza negli istituti penitenziari», il disegno di legge prevede anzitutto una nuova aggravante del reato di «istigazione a disobbedire alle leggi» di cui all’art. 415 del codice penale., se questo è commesso all’interno di un istituto penitenziario o a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute; si prevede, poi, l’inserimento nel codice penale di un nuovo delitto di «rivolta all’interno di un istituto penitenziario». (art. 415-bis).
Vale la pena analizzare nel dettaglio il testo proposto. Ai sensi del nuovo 415 bis,«chiunque, all’interno di un istituto penitenziario, partecipa a una rivolta mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti, commessi da tre o più persone riunite, è punito con la reclusione da uno a cinque anni» (la pena va invece da 2 a 8 anni per i promotori e organizzatori della rivolta). Il legislatore precisa, poi, cosa si intende per resistenza all’esecuzione degli ordini: «costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza». Con una definizione involuta, che ben poco definisce, si sancisce l’equiparazione tra gli atti di violenza e di minaccia e la mera disobbedienza, se questa crea in qualche modo scompiglio rispetto al mantenimento dell’ordine.
Si tratta di disposizioni che hanno un significato chiaro, in un contesto come quello odierno: da un lato, si intende criminalizzare ogni tentativo di mobilitazione interna rispetto alle condizioni critiche nelle quali versano le carceri, con un tasso di sovraffollamento strutturale (del 131% rispetto alla capienza consentita) e un altissimo numero di eventi suicidari, 69 nel solo anno 2024, cui si aggiungono 17 morti «per cause da accertare», come evidenziato negli ultimi rapporti del Garante Nazionale (dati aggiornati al 23 settembre 2024). Dall’altro, si riducono gli eventi rivoltosi a mere questioni di «ordine e sicurezza», rispetto alle quali ci si colloca sempre e comunque dalla parte delle Forze dell’Ordine coinvolte. Non c’è spazio, in questo schema, per la voce delle persone detenute: sorvegliate, silenziate, se necessario punite.
L’iniziativa governativa si colloca, tralaltro, in un momento in cui sono in corso numerosi procedimenti penali, alcuni in fase di indagine e altri già in fase più avanzata, per torture e pestaggi nelle carceri italiane: Cuneo, Torino, Biella, Ivrea, persino l’istituto minorile Cesare Beccaria di Milano, nonché per la nota vicenda di Santa Maria Capua Vetere, dove rispetto ai fatti avvenuti nel 2020 (documentati dai video di sorveglianza pubblicati dal giornale online Domani) sono oggi a processo 103 persone.
Questo posizionamento non stupisce, considerato che un gruppo di deputati di Fratelli d’Italia, tra cui Delmastro Delle Vedove, oggi sottosegretario alla Giustizia, il 15 giugno 2020 per gli stessi fatti presentava un’interpellanza parlamentare proponendo «il conferimento dell’encomio solenne al corpo di polizia penitenziaria in servizio presso l’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere».
Non è tutto. La norma sulla rivolta carceraria prosegue prevedendo sanzioni fino a dodici anni «se dal fatto deriva, quale conseguenza non voluta, una lesione personale grave o gravissima» e fino a 18 anni se, ancora quale conseguenza non voluta, dalle rivolte deriva la morte di taluno. La norma apre scenari punitivi di grande incertezza: morte o lesioni sembrano essere imputati a promotori e partecipanti della rivolta come eventi collegati alle condotte dei rivoltosi solo materialmente – si parla, tecnicamente, di «reati aggravati dall’evento», quindi di ipotesi di responsabilità in assenza di dolo o colpa, sanzionate in questo caso con pene gravissime. Potenzialmente, si potrebbero dunque imputare ai detenuti in rivolta – ricomprendendo, lo si ricorda, in tale nozione anche chi compie atti di resistenza passiva, come uno sciopero della fame – eventi rispetto ai quali non hanno avuto controllo alcuno: non si può non pensare alle 13 morti avvenute dopo le rivolte nelle carceri di Rieti, Bologna e Modena nel marzo del 2020 in circostanze che risultano, ad oggi, ancora misteriose.
Per rimarcare il messaggio di vicinanza alle Forze dell’Ordine si va ancora oltre proponendo il riconoscimento di un beneficio economico a fronte delle spese legali sostenute (10.000 euro per ciascuna fase del procedimento) da ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria, Forze armate e Vigili del Fuoco, indagati o imputati nei procedimenti riguardanti fatti inerenti al servizio svolto. Questo, lo si ripete, nello stesso periodo storico in cui pendono innanzi ai Tribunali di mezza Italia procedimenti per pestaggi cruenti, umiliazioni e abusi di potere nei confronti dei detenuti.
Infine, ancora nel nome della «tutela del personale delle forze di polizia», si autorizzano gli agenti di pubblica sicurezza a portare – senza licenza e fuori servizio –alcune tipologie di armi (arma lunga da fuoco, rivoltella e pistola di qualsiasi misura, bastoni animati con lama di lunghezza inferiore a 65 cm).
Migranti e altri nemici
Tra gli obiettivi del decreto sicurezza non possono mancare, coerentemente con gli orientamenti sinora espressi dal Governo Meloni, le persone migranti in Italia.
Il nuovo reato di «rivolta carceraria» è infatti introdotto, con una disposizione del tutto omologa, anche per chi promuove, organizza, dirige una rivolta non solo nei Cpr, centri di permanenza per i rimpatri, ma persino presso i centri che fanno parte del sistema di accoglienza.
La differenza tra queste strutture, forse, non è nota ai più, ma può essere riassunta in questo modo. I centri di permanenza per i rimpatri sono «strutture di detenzione amministrativa», ossia centri nei quali vengono trattenuti, per un tempo massimo di tre mesi prorogabile fino a diciotto mesi, stranieri che non sono in possesso di un regolare titolo di soggiorno nella prospettiva dell’espulsione dal paese. Dall’altro lato, i centri governativi e i Cas (centri di accoglienza straordinaria) sono le strutture entro le quali viene data accoglienza ai richiedenti protezione internazionale privi di mezzi di sostentamento; infine, i centri del cosiddetto «Sai», sistema accoglienza e integrazione, sono strutture all’interno delle quali sono accolte alcune categorie di richiedenti asilo in situazioni di vulnerabilità (ad esempio, i richiedenti che fanno ingresso attraverso i corridoi umanitari) e i soggetti già titolari dello status di rifugiato o altra forma di protezione internazionale.
Questa puntualizzazione è indispensabile per far luce sulla portata ideologica della nuova norma penale. Si equiparano alle carceri i Cpr, strutture in effetti para-detentive, benché permettano la detenzione senza che sia accertato alcun reato, dove più volte sono state denunciate, anche dal Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, le condizioni critiche nelle quali le persone migranti sono trattenute. Ma non solo. Si equipara espressamente a una forma di detenzione anche il sistema dell’accoglienza, persino nei confronti delle persone cui è già stato riconosciuto lo status di rifugiato (ossia, per il quale è stato accertato il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica): lo si riconosce come un sistema in cui, sostanzialmente, si intende creare un rapporto non di cura, di accoglienza o integrazione, ma di sorveglianza. Dove al richiedente protezione internazionale, e persino al soggetto rispetto al quale la protezione è già stata riconosciuta, è chiesta la piena obbedienza rispetto agli ordini impartiti.
A completamento di questo quadro, il decreto prevede una modifica del codice delle comunicazioni elettroniche sancendo che, per la conclusione di un contratto di telefonia mobile, al cliente cittadino di un paese fuori dall’Unione europea sia richiesto a fini di identificazione un documento che attesti il regolare soggiorno in Italia, nello specifico, un valido permesso di soggiorno. Non si vede altra ratio di questa norma diversa dall’accanimento nei confronti delle persone straniere in Italia. Il legislatore, infatti, non può non sapere che, anche avendone il diritto in presenza di tutti i presupposti di legge, prima che le Questure italiane rilascino un permesso di soggiorno o persino ne accertino il rinnovo possono passare anni, a causa dei lunghissimi tempi burocratici: tanto che è stato necessario esplicitare normativamente, ad alcuni fini, l’equiparazione tra il permesso vero e proprio e la semplice «ricevuta» della richiesta del medesimo, onde evitare, ad esempio, che nelle more del rinnovo la persona straniera non possa validamente stipulare un contratto di lavoro.
C’è di più: anche per la sola richiesta di un permesso la Questura competente, ad oggi, chiede un recapito telefonico e un indirizzo email presso il quale fornire tutte le comunicazioni riguardo alla pratica. Non è chiaro come si dovrebbe risolvere, nella prassi, questo vero e proprio cortocircuito: serve un permesso di soggiorno per avere un telefono, un telefono per avere un permesso di soggiorno. Di fatto, si privano le persone migranti di un mezzo essenziale per comunicare con il paese d’origine ma anche per prendere contatti con associazioni o con i propri legali. Peraltro, privando anche di un mezzo diretto per ricevere le comunicazioni dalla stessa Questura, si rischia di creare ulteriori fonti di irregolarità a causa di appuntamenti mancati, istanze di integrazione documentale senza risposta, e così via.
Parallelamente, si sanzionano eventuali iniziative di solidarietà che si pongano in contrasto con la norma in questione: è prevista la sanzione amministrativa accessoria della chiusura dell’esercizio o dell’attività da 5 a 30 giorni per i casi nei quali le imprese autorizzate a vendere schede Sim non adempiano a tale obbligo di identificazione. Per i singoli che vogliano interporsi, acquistando per altri, si ipotizza velatamente la possibilità che si configuri il reato di sostituzione di persona (articolo 494 del codice penale).
Non dovrebbe passare inosservata, proprio contestualmente alla grande mobilitazione per il raggiungimento delle 500.000 firme a sostegno del Referendum per dimezzare i tempi necessari per la richiesta della cittadinanza italiana, la modifica delle norme sulla revoca della cittadinanza. Il decreto, infatti, interviene sulle ipotesi di revoca della cittadinanza italiana in caso di condanna definitiva per gravi reati, introdotte nel 2018 estendendo da tre a dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna il termine per poter adottare il provvedimento di revoca. La revoca può essere disposta soltanto quando la cittadinanza italiana sia acquisita non alla nascita – iure sanguinis – ma in un momento successivo, per naturalizzazione o per matrimonio. Insomma: il legislatore ammetteva già nel 2018 che non tutti i cittadini italiani sono uguali. Se nasci «non italiano», non diventerai mai italiano quanto gli altri: se condannato, la cittadinanza (come fosse un dono ricevuto) potrà essere revocata persino 10 anni dopo la sentenza di condanna.
Occupazioni abitative: norme «Anti-Salis»
Rimangono da analizzare, a questo punto, le norme che vengono ricomprese tra le «Disposizioni in materia di sicurezza urbana».
In nome della sicurezza urbana, si introduce tra i delitti contro il patrimonio il reato di «occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui». Tale norma, giornalisticamente rinominata «norma Anti-Salis», a voler dirne bene è inutile, a voler essere obiettivi è giuridicamente incomprensibile, perché si sovrappone ad almeno altre tre norme già esistenti. Gli articoli 633 e 634 del codice penale prevedono già i reati di «invasione di terreni o edifici» e «turbativa violenta del possesso di cose immobili», che puniscono le medesime condotte; con il cosiddetto. «decreto rave» del 2022 si era introdotto anche l’art. 633 bis, che punisce l’«invasione di terreni o edifici con pericolo per la salute pubblica o l’incolumità pubblica». Adesso si propone di punire con la reclusione da due a sette anni la condotta di chi si «appropria dell’immobile destinato al domicilio altrui con violenza, minaccia o artifizi o raggiri» ovvero la condotta di chi, con violenza o minaccia, ne impedisca il rientro. L’unica differenza rispetto alle fattispecie già esistenti sta nel trattamento sanzionatorio, grave al di là di ogni principio di proporzione (il massimo di 7 anni è più alto di quello previsto, ad esempio, per l’omicidio colposo).
Torna il tema del diritto penale dell’autore: si crea un’esigenza punitiva tramite l’individuazione di un nemico (in questo caso, lo spunto sono le dichiarazioni dell’europarlamentare Salis, che, dopo gli attacchi della stampa, aveva ribadito la sua vicinanza ai movimenti milanesi per il diritto alla casa) e si appronta una facile soluzione. Non a caso, la nuova norma incriminatrice si rivolge sia agli occupanti sia a chi «si intromette o coopera nell’occupazione dell’immobile» (potenzialmente, gli attivisti), equiparati a chi «riceve o corrisponde denaro o altra utilità per l’occupazione».
Che l’iniziativa sia destinata più a un nemico immaginario che a un pericolo sociale in atto è dimostrato anche dalla nuova «procedura di rilascio coattivo e di reintegrazione nel possesso ad opera della polizia giudiziaria», che può procedere allo sgombero previa autorizzazione del pubblico ministero e successiva convalida da parte del giudice nel caso in cui l’immobile occupato «sia l’unica abitazione effettiva del denunciante». Si prefigura, dunque, una situazione in cui un qualsiasi cittadino torna dalle vacanze in casa propria – unica abitazione effettiva – e la trova occupata da altri. Un fenomeno che non solo non è statisticamente rilevante, ma che di certo non è l’attività di occupazione di immobili rivendicata da Salis e dai movimenti per la casa in Italia, che si rivolgono invece alle case sfitte dell’edilizia popolare. Chi ha mai fatto ingresso in un’aula di Tribunale sa che, nei procedimenti per occupazione, la parte civile costituita è sempre l’ente per l’edilizia pubblica del luogo, non privati cittadini espulsi da casa propria.
Attenzione Pickpocket
Per comprendere chi sono i destinatari dell’ultimo insieme di norme sulla «sicurezza urbana» che andremo a descrivere serve fare un passo indietro e mettere a parte il lettore di un fenomeno social e del correlato dibattito pubblico.
Negli scorsi anni è diventata virale la voce cantilenante di una donna italiana che avverte, perlopiù nei pressi delle stazioni ferroviarie e delle metro, della presenza di «borseggiatrici»: il mantra «attenzione borseggiatrici, attenzione pickpocket» è diventato un meme, rilanciato su Instagram e Tik Tok come sottofondo dei più svariati contenuti video. La voce appartiene a Monica Poli, consigliera di municipio a Venezia con la Lega e membro di un gruppo di residenti che si fa chiamare Cittadini Non Distratti, impegnato a scovare e segnalare con video-gogna sui social i presunti responsabili di borseggi ai danni dei turisti che visitano la città. Non sfuggono i contorni vagamente razzisti di queste e altre pratiche da vigilantes privati: nella maggior parte dei video non si mostrano i borseggi ma si additano le borseggiatrici, quindi perlopiù si mostra la presenza di donne straniere che prima facie sembrano borseggiatrici (Poli ha dichiarato al New York Times di riconoscerle con il suo sesto senso).
Il tema delle borseggiatrici nelle stazioni, anche sulla scia di queste iniziative, è dunque entrato nel dibattito pubblico come l’ennesima problematica di sicurezza e decoro, suscitando un allarme sociale a cui il Governo intende porre rimedio con numerose norme ad hoc.
Anzitutto, si introduce nell’articolo 61 del codice penale, tra le cosiddette «aggravanti comuni», che possono dunque accedere a qualsiasi altro delitto, la nuova circostanza aggravante dell’aver commesso il fatto «nelle aree interne o nelle immediate adiacenze delle infrastrutture ferroviarie o all’interno dei convogli adibiti al trasporto passeggeri». E ancora, si stabilisce che, in caso di condanna per reati contro la persona o il patrimonio commessi nelle aree e nelle pertinenze dei trasporti pubblici la concessione della sospensione condizionale della pena debba essere subordinata all’osservanza del divieto di accesso, imposto dal giudice, a luoghi o aree specificamente individuate. Se il divieto di accesso non è osservato, il giudice revoca la sospensione condizionale della pena. Al tempo stesso, viene aggiunta la possibilità per il Questore di disporre la misura di prevenzione del divieto di accesso (il cosiddetto Daspo urbano) alle aree di infrastrutture e pertinenze del trasporto pubblico anche a soggetti condannati in via non definitiva o anche solo denunciati per reati contro la persona o il patrimonio. In sintesi: si forniscono numerosi strumenti per cacciare dalle stazioni e dai mezzi di trasporto pubblici i responsabili di atti di microcriminalità urbana. Una violenza sproporzionata che colpirà, com’è ovvio, chi è ai margini delle metropoli italiane.
Infine, sempre in nome della sicurezza urbana, è ancora alle «borseggiatrici» che ci si rivolge con la modifica gli articoli 146 e 147 del codice penale, che fino a oggi rendono obbligatorio il rinvio dell’esecuzione della pena per le condannate incinte o madri di figli di età inferiore a un anno. Una norma di civiltà per la tutela delle donne e dei neonati, i cui interessi però, all’approvazione del decreto, potranno soccombere dinanzi all’immane pericolo sociale dei furti in metropolitana. Il rinvio dell’esecuzione sarebbe meramente facoltativo: si precisa però, come metro di giudizio, che l’esecuzione non è rinviabile se sussiste «il rischio di eccezionale rilevanza di commissione di ulteriori delitti». Da notare come l’eccezionale rilevanza si riferisca al «rischio», e non alla gravità dei delitti.
Che venga approvato o meno in via definitiva, potremo ricordare questo provvedimento come il testamento di questo esecutivo, la più completa rappresentazione del suo posizionamento per i contemporanei e per i posteri. La compiuta manifestazione di quale idea di sicurezza, e per chi, si intende portare avanti.
Anna Cortimiglia è avvocato. È tra i soci fondatori di Liberi Tutti Pavia, associazione che fornisce sostegno legale a persone migranti e con fragilità
2/10/2024 https://jacobinitalia.it
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!