Il Mezzogiorno s’impoverisce

Ogni anno, da quasi mezzo secolo, la Svimez ci informa sullo stato di salute del Mezzogiorno1 popolazione, società, occupazione, competitività, rapporti col resto d’Italia e con l’Europa, e molto altro ancora. Anni fa, facendo il punto sulle vicende demografiche del Mezzogiorno, la Svimez parlò del pericolo della sua “desertificazione”, umana, sociale e industriale. Forse il termine “desertificazione” è troppo duro, ma il processo di declino demografico è evidente. Alla metà del secolo scorso, il 37,2% della popolazione italiana viveva nel Mezzogiorno (Figura 1), e da questa proveniva quasi la metà (49,6%) delle nascite del Paese; nel 2022, la prima quota risulta ridotta di quasi 4 punti (33,6%) e la seconda di ben14 punti (35,7%). In ragione della bassa fecondità – inferiore a quella del Centro-Nord – e di una bassa immigrazione dall’estero, che non pareggia i conti con l’emigrazione meridionale verso le altre regioni, il processo di spopolamento è destinato ad aggravarsi nei prossimi anni. Nel 2040, secondo le più recenti proiezioni dell’Istat (che tra l’altro includono consistenti flussi di immigrazione) la popolazione dell’Italia potrebbe trovarsi ridotta, rispetto ad oggi, di 2,9 milioni di abitanti, due dei quali dovuti all’arretramento del Mezzogiorno (la cui quota sul totale scenderebbe ulteriormente al 31,9%). E rispetto al 2011, quando la popolazione meridionale arrivò al suo massimo storico, con 21 milioni, il Mezzogiorno avrà perso il 14% del suo capitale umano (circa 3 milioni).

Impoverimento e declino demografico

Una popolazione in declino demografico genera, senza dubbio, vive preoccupazioni di natura economica e sociale. Invecchiamento, squilibrio tra generazioni, oneri sociali in crescita, perdita di produttività e di innovazione, minore presenza e influenza in campo internazionale, ristagno economico. Quel che non è chiaro – e che la storia non aiuta a chiarire – è se il declino demografico sia la causa, oppure la conseguenza, di queste patologie. Oppure se esse siano strettamente associate tra loro e si influenzino reciprocamente. Storicamente, in epoca moderna, non ci sono molti esempi di popolazioni in declino: il caso dell’Irlanda, che tra gli anni ’40 dell’800 e l’inizio del ‘900 perse la metà della sua popolazione per la travolgente emigrazione dopo la Grande Carestia, appartiene oramai a un passato remoto e a un contesto agricolo lontanissimo. Il caso della Germania orientale, DDR, anch’essa in forte declino demografico e fortemente impoverita tra il dopoguerra e la caduta del muro di Berlino, riguarda un paese soffocato da un regime oppressivo e non può servire da pietra di paragone. 

Più interessanti per lavori comparativi sono casi di società duali nelle quali ampie zone sono in declino o in ristagno demografico, per l’emigrazione verso l’estero o verso la parte più sviluppata del paese. Il Mezzogiorno ha fortemente contribuito ai flussi di emigrazione verso le Americhe, nord e sud; verso l’Europa “forte” nel secondo dopoguerra; verso il nord più sviluppato, negli anni ’50 e ’60; verso una pluralità di destinazioni negli ultimi decenni. Tuttavia, nei centosessanta anni dall’Unità, il divario del Mezzogiorno dal resto del paese, non si è ristretto. Contrariamente a quanto è avvenuto in paesi duali dove i flussi migratori hanno contribuito a cancellare o moderare il distacco delle regioni di partenza da quelle di arrivo. Così è avvenuto nel secolo scorso negli Stati Uniti, dove la Great Migration, tra gli anni ’10 e gli anni ’60, ha trasferito sei o sette milioni di afrodiscendenti dal Sud verso il Nord. Così è avvenuto in Spagna con l’emigrazione di massa dall’Andalusia verso la Catalogna e altre aree forti del Nord; o in Germania dove, dopo l’unificazione del 1992, si è sviluppato un flusso di milioni di persone verso i länder più ricchi dell’ovest. In questi casi, il dualismo economico e sociale è stato fortemente moderato, a differenza del caso italiano. Perché? Una domanda cui varrebbe la pena di sforzarsi di dare una risposta. Forse in un prossimo Rapporto Svimez?

La rivoluzione delle nascite

La tradizione ci tramanda un Mezzogiorno dove la famiglia è il luogo della solidarietà e degli affetti, i figli sono al centro della vita familiare, la natalità elevata. Uno stereotipo in parte giustificato dai fatti e dai dati per una buona parte del ‘900. Ma i cambiamenti degli ultimi decenni hanno sconvolto il quadro demografico (Figura 2). Nel 1951 le donne meridionali, con una media di 3,2 figli, avevano una fecondità di molto superiore a quelle del Centro (1,9) e del Nord (1,8); nel 2007-2008 le prime erano scese sotto il livello delle seconde, e negli anni successivi – fino al 2020 – i livelli delle tre aree si sono uniformati. È poi straordinario il caso della Sardegna, che nel 1951 era la regione più feconda d’Italia, con 3,9 figli per donna – quasi tre volte quelli del fanalino di coda, la Liguria (1,4). Nel 2020 le donne sarde, con meno di un figlio a testa, hanno la fecondità più bassa: quasi un decennio fa, intitolammo un articolo di Neodemos “La Sardegna senza Sardi?”. Un titolo provocatorio e paradossale, che per ora ha avuto conferme!

Gli studi demografici e sociali si sforzano, da tempo, di interpretare le cause della bassissima fecondità meridionale (e nel resto del paese). Cause sicuramente complesse che coinvolgono l’alto costo dei figli, la bassa occupazione delle donne, il disagio economico, servizi sociali del tutto inadeguati. Le Figure 3 e 4, a questo proposito, sono rivelatrici: la prima riguarda la quota degli alunni nella scuola primaria che fruiscono del tempo pieno, la seconda la quota di questi che non godono di un servizio mensa. Più degli indicatori di reddito, le due figure ci rendono l’immagine di un Mezzogiorno dove l’elemento fondamentale della socializzazione dei bambini – la scuola – è profondamente carente. Aggiungendo così oneri rilevanti sulle famiglie. 

L’emigrazione Sud-Nord e un’amara considerazione

Tra il 1955 e il 2020 il dualismo Nord-Sud “ha alimentato un continuo flusso di emigrati dal Mezzogiorno al Centro-Nord. Dal 1955 quasi 9 milioni e mezzo di persone hanno lasciato una regione meridionale per trasferirsi in una del Centro-Nord. I rientri non hanno superato i 5 milioni, con una perdita netta per il Mezzogiorno di 3,7 milioni di unità” (Figura 5). Dopo il grande esodo degli anni ’60 e ’70, il flusso (e il saldo negativo) si è relativamente stabilizzato, tuttavia esso sottrae al Sud persone giovani, ma anche relativamente bene istruite, con un’alta proporzione di laureati. Questo processo indebolisce ulteriormente le risorse umane del Meridione spingendo la Svimez a un’amara considerazione. “se in un passato remoto le rimesse degli emigrati facevano miracoli, sia per sostenere i redditi dei residenti che per far quadrare i conti della bilancia dei pagamenti, oramai da anni la perdita di capitale umano giovane e ad alto potenziale che caratterizza l’emigrazione meridionale, determina  una crescente riduzione se non un rovesciamento del flusso dei trasferimenti privati dal Sud al Nord, sotto forma di rimesse per gli emigrati che sostengono la “nuova” emigrazione grazie al contributo di quelle famiglie di partenza che possono consentirsi il lusso di impoverirsi.” E, ancora, “La trasformazione del Mezzogiorno nella parte più vecchia e dipendente del Paese consolida…la prospettiva di un Sud assistito, improduttivo; una palla al piede della quale liberarsi. Non è un processo alle intenzioni ricondurre a questi aspetti l’insistenza con la quale a Nord si punta a risolvere “per parti” la crisi italiana e a rivendicare autonomia, continuando ad accampare diritti alla restituzione di illusori e inesistenti residui fiscali”. Un allarme giustificato, ora che il nuovo Governo si impegna a promuovere nuove autonomie per le regioni. 

Note

 1Svimez, L’economia e la società del Mezzogiorno. Rapporto 2022, il Mulino, Bologna, 2022

Massimo Livi Bacci

29/11/2022 https://www.neodemos.info

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