Il revisionismo strumento egemonico per preservare il dominio di classe

Uno spettro si aggira per l’Europa: ahimè, non si tratta del comunismo, bensì del revisionismo. Una pratica che iniziata nella ricerca storica, si è poi diffusa all’ambito politico, trovando in giornalisti e “comunicatori” i suoi vessilliferi. In storiografia si è fatto inizialmente strada, in quanto pareva che il revisionismo fosse la stessa cosa della “revisione”, che è una pratica irrinunciabile della ricerca storica, in quanto ogni epoca, ogni generazione, ogni singolo studioso e studiosa, producono risultati nuovi, pongono domande nuove, trovano nuove fonti, e portano avanti, così, un incessante processo conoscitivo, che cresce nel corso del tempo, e via via subisce aggiustamenti, aggiunte, correzioni; ma mai rovesciamenti. Tale è la revisione.

Il revisionismo invece è una pratica ideologica, che partendo dalla storiografia fa un uso strumentale dei suoi risultati: un canonico esempio di uso e abuso politico della storia. Del resto si tratta di azioni facili da compiere. La storia è un grande magazzino al quale ciascuno può accedere e prendere quanto gli garba: e farne un uso spregiudicato. Questa, però, non è l’attività volta ad accertare la verità dei fatti, ma piuttosto mirata a presentare i fatti secondo le convenienze di una parte, di un partito, di una chiesa, di una nazione. Eppure la verità della storia è una, e unica; cambiano i giudizi, ma la ricostruzione deve poter raggiungere un identico risultato, almeno nella sostanza, appunto relativo ai fatti di cui ci occupiamo.

Si cominciò negli anni Sessanta-Settanta cercando di demolire la Rivoluzione Francese del 1789, poi si passò a quella Russa (la Bolscevica), del 1917, e poi fu la volta del fascismo e del nazismo, dei quali si cercò di minimizzare gli orrori, mentre si mettevano in luce, si amplificavano a dismisura e si brandivano come clave quelli (che indubbiamente ci sono stati, da Stalin a Pol Pot) del comunismo, fino ad arrivare alla sciaguratissima risoluzione del Parlamento della UE, del 19 settembre 2019, in cui si accomunava nella medesima condanna fascismo/nazismo da un lato, comunismo dall’altro, e si invitavano i governi nazionali a intraprendere una lotta ideologica persino contro i simboli non soltanto dei regimi, ma altresì delle “nefaste” ideologie. Coloro che aprirono i cancelli di Auschwitz posti sullo stesso piano di coloro che avevano sigillato quei cancelli…

Intanto procedeva la giuricidizzazione della storia, con leggi che miravano a punire chi negava o “minimizzava” la Shoah: gli studiosi più seri e attenti, compresi numerosi di origine ebrea, tentarono inizialmente di opporsi a un simile sviluppo, foriero di gravi conseguenze, facilmente prevedibili. Dopo le aperture in sede storiografica di Renzo De Felice, in sede giornalistica di personaggi come Giuliano Ferrara, e in sede politica di Bettino Craxi e Luciano Violante, si giunse via via a una sorta di equiparazione tra fascisti e antifascisti, tra partigiani e repubblichini, tra combattenti per la libertà e i loro nemici, tra le vittime e i carnefici: una oscena uguaglianza che non trovava giustificazione né storica, né politica, né morale.

Tutto ciò mentre la sinistra crollava, e l’intellettualità progressista si chiudeva nel silenzio complice o ignavo. E si giunse così alla “Legge del Ricordo”, sotto Berlusconi, nel marzo 2004, ma con la correità di tutto il cosiddetto Centrosinistra. In fondo con quella legge, e il suo uso disinvolto da parte di una destra sempre più aggressiva, l’equiparazione era bell’e fatta. Invano qualcuno anche in quel caso provò a suonare l’allarme, ma venne tacitato in malo modo, nel silenzio opportunistico o complice della quasi totalità dei “chierici”. E passo dopo passo si è giunta alla proposta proveniente da parlamentari di Fratelli d’Italia, e sostenuta fortemente dalla leader Meloni, di modifica al testo della legge che appunto criminalizzava e puniva con sanzioni pecuniarie e carcerarie (un vero obbrobrio giuridico e etico, oltre che un’inaccettabile intromissione della politica nella ricerca storica) non soltanto chi nega o “miniminizza” (termine quanto mai ambiguo, evidentemente) la Shoah, estendendo le medesime sanzioni anche a chi nega o minimizza le “foibe”.

Ecco dunque che gli eventi accaduti sul Fronte Orientale, negli anni Quaranta, durante la feroce, criminale occupazione italo-tedesca della Jugoslavia, e nella resistenza armata dei partigiani e nell’esodo forzato degli italiani, diventano pari, per gravità politica e morale, ai campi di sterminio nazista, e la foiba di Basovizza (secondo i pochi veri studiosi una sorta di clamoroso falso storico) diventa pari alla fabbrica dello sterminio chiamata Auschwitz-Birkenau. La più atroce industria di morte messa in atto dagli esseri umani contro altri esseri umani, con un tentativo di genocidio che ha prodotto alcuni milioni di cadaveri, passati nelle camere a gas e poi nei forni crematori, posta sullo stesso piano di alcune centinaia di individui gettati, già defunti, in cavità carsiche usate come tombe, e certo anche alcuni gettati vivi, nel fuoco di una guerra senza esclusione di colpi in cui gli jugoslavi erano le vittime che si difendevano e gli italiani gli aggressori. Non dimentichiamolo.

Tutto questo è inammissibile, sia sul piano storiografico, sia su quello etico-politico. E se esistesse un ceto intellettuale serio dovrebbe salire sulle barricate, e avrebbe dovuto farlo già da molto tempo, senza aspettare le ingiurie e le minacce a Eric Gobetti, poi a Tomaso Montanari, ma in precedenza a Claudia Cernigoi, Alessandra Kersevan, Sandi Volk, praticamente i soli studiosi che hanno lavorato in modo rigoroso sul tema “foibe”. Il fatto che siano arrivati a risultati che sono assai diversi da quelli del mainstream li ha resi eretici “vitandi”, per usare il codice della Santa Inquisizione.

Siamo davanti alla chiusura di un cerchio: il conglomerato di potere – finanziario, politico, culturale e mediatico – che ci cinge d’assedio, usa il revisionismo, anche nella sua forma estrema, quella che ho chiamato “rovescismo”, tanto nella produzione di testi (non dimentichiamo i libri infami di Giampaolo Pansa), quanto nella divulgazione giornalistica, quanto infine nell’azione legislativa e giudiziaria: lo scopo? Dimostrare che ribellarsi è vano, che lottare è inutile, che le rivoluzioni sono una macchia da cancellare nella carta storiografica, e che, infine, si debba chinare la testa, sempre, davanti all’autorità, anche quando essa giunga semplicemente dal bastone o dal denaro.

A costoro noi dobbiamo rispondere ripetendo “Ribellarsi è giusto, ribellarsi è possibile”, con l’idea che la ribellione ha molte forme e innumerevoli vie. Si può nuotare contro la corrente anche con l’arma del sapere, della cultura, dell’istruzione, che, alla fin fine, rimane la più potente delle armi. Non a caso Gramsci nelle tre frasi che poneva come insegna del suo “Ordine Nuovo”, nel 1919-20, collocava al primo posto questa: “Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza”.

Un secolo dopo, abbiamo ancora, e anzi più che mai, bisogno di seguire quel monito.

Angelo d’Orsi

Già Ordinario di Storia del pensiero politico dell’Università degli Studi di Torino, direttore di Historia Magistra. Rivista di storia critica e di Gramsciana. Rivista internazionale di studi su Antonio Gramsci, Angelo d’Orsi in perfetta coerenza con quanto scrive oggi per transform,!Italia ha fatto una scelta. Ha accettato la candidatura a sindaco di Torino con la lista Sinistra in Comune, che mette insieme Rifondazione Comunista, Sinistra Anticapitalista, DemA, Torino Eco Solidale e diverse associazioni. Una scelta netta e controcorrente, rispetto ad un mondo intellettuale spesso poco propenso a schierarsi e a impegnarsi in prima persona di cui è doveroso prendere atto e da sostenere.

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