Il Servizio Sanitario e la salute pubblica. Un rapporto dal sud

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Sempre più frequenti i bollettini di disfunzioni e di criticità in vari Ospedali di tutto il territorio nazionale; sembra che siamo arrivati forse al fondo ed allo sfascio organizzativo, o quasi, nella sanità in particolare di quella pubblica e nelle regioni meridionali..
Vorrei però fare un tentativo di analisi della situazione, così come appariva prima della pandemia COVID 19, non perché si voglia sottovalutare l’impatto che la pandemia ha avuto sul Sistema Sanitario Nazionale stressando tutta una serie di problematiche organizzative, strutturali, di politiche sanitarie nazionali e regionali già in atto. Da tempo si parla di risparmi sulla sanità pubblica, di conti come ragionieri e di tagli lineari, pensando che forse procedere alla chiusura di strutture nel territorio possa servire a risanare i bilanci.

Ma c’è la necessaria attenzione alla salute pubblica?
Non sentiamo parlare di epidemiologia, di prevenzione, di razionalizzazione e riqualificazione della spesa, di lotta concreta agli sprechi e al malaffare, di controllo della qualità assistenziale, attraverso programmi di medio/lungo periodo.

Ad esempio vorremmo sapere come combattere la mobilità passiva, i “viaggi della speranza” dalle regioni del Sud al Nord (che solo alla ASL Brindisi, ad esempio, costa ogni anno milioni di euro, dai 15 ai 20, che vanno anche al privato convenzionato, senza contare i costi sociali) e fare in modo che le nostre popolazioni si possano curare bene nel proprio territorio e non debbano andare nell’altra Italia, quella delle regioni “virtuose”, dove la salute è un bene apparentemente “salvaguardato”.

Guardando proprio alle regioni più “virtuose” si è visto che i processi di riorganizzazione devono affrontare inevitabilmente alcuni nodi critici:

  • Il ridimensionamento ma anche la riqualificazione della rete ospedaliera;
  • Il potenziamento dei servizi territoriali distrettuali (residenziali, semiresidenziali, domiciliari) e dei dipartimenti territoriali (DSM, Prevenzione, Ser.D);
  • L’integrazione fra ambito sociale e sanitario;
  • Il governo degli accreditamenti e delle spese per beni e servizi e della assistenza farmaceutica.

Si tratta di questioni delicate, che investono le concrete condizioni dei lavoratori del settore, le attese dei cittadini, interessi economici, aspetti culturali.
Tuttavia dove si è proceduto con processi non solo di chiusura di servizi (come ad esempio in Puglia) ma di riconversione e riqualificazione, la riorganizzazione ha pagato anche in termini economico-finanziari.
Sembra sia assolutamente necessario impegnarsi inun’azione prospettica, improntata innanzitutto a recuperare il gap esistente in termini di servizi sanitari offerti alla utenza tra le regioni “virtuose” del centro-nord e le altre regioni, entrando nel merito dei problemi senza cadere nella trappola di proposte di riordino incentrata su meri calcoli ragionieristici., né tantomeno procedere alla autonomia regionale in sanità attuando la “secessione”, che vorrebbe dire mantenere le disuguaglianze assistenziali tra i sistemi sanitari regionali e tra i cittadini.

Negli ultimi anni sono aumentati sempre più i posti letto privati e del privato accreditato, gli ambulatori e i laboratori privati e accreditati (che vengono pagati sempre con soldi pubblici), con una tendenza in atto nella sanità privata verso la costituzione di grossi gruppi imprenditoriali, sempre più forti.

Di contro i vari piani di rientro di questi ultimi anni sempre incentrati sulla riduzione di strutture e personale, il mancato turnover di infermieri e medici andati in pensione (ma bisogna programmare con maggiore attenzione il numero di specialisti che devono essere garantiti dalle Università, soprattutto per alcune specialità come rianimazione, radiologia, psichiatria, ortopedia, medicina d’urgenza…), che ha determinato una grave carenza degli organici, i tagli continui e lineari alla spesa in sanità fatti da vari Governi nazionali e regionali, la difficoltà o incapacità in varie regioni di fare politiche sanitarie di riqualificazione della rete ospedaliera e di potenziamento delle strutture territoriali, hanno portato alla situazione attuale

L’aspettativa di vita in Italia si riduce al Sud e torna ai livelli del dopoguerra, questo dicono i dati forniti dall’Istituto Superiore di Sanità, con un aumento delle diseguaglianze in fatto di tutela della salute degli italiani negli ultimi 20 anni. Ormai in Campania e Sicilia si ha una speranza di vita alla nascita di 4 anni inferiore rispetto a Trento e alle Marche, ma mentre i fattori di rischio per la nostra salute restano distribuiti in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale, la disponibilità e l’accesso ai servizi sanitari penalizzano i cittadini del Sud e delle regioni centrali in piano di rientro. In Regioni come Lazio e Puglia l’aspettativa di vita negli ultimi 15 anni è scesa mentre la spesa resta stabile, al contrario delle Regioni settentrionali, dove a un contenimento delle spese ha fatto riscontro un aumento della stessa aspettativa di vita. Un trend che si conferma anche guardando un altro indicatore, quello della mortalità evitabile, che diminuisce al Nord, resta stabile al Centro, ma aumenta decisamente al Sud, con punte del più 20 per cento in Campania dal 2001. Anche la mortalità in senso stretto è più alta al Sud e non perché ci sia una maggiore incidenza di malattie rispetto al resto del Paese, tant’è che al Nord, ad esempio, ci sono più casi di tumore alla mammella, che fa però più morti al Sud.

Il Servizio Sanitario Nazionale, oltre che tutelare la salute, nasce con l’obiettivo di superare gli squilibri territoriali tenendo conto delle condizioni socio-economiche-sanitarie del Paese. Ma su questo fronte i dati testimoniano il sostanziale fallimento delle politiche adottate. Sono troppe e troppo marcate le differenze regionali e sociali, sia per quanto riguarda l’aspettativa di vita sia per la presenza di malattie croniche. In generale, la maggiore sopravvivenza si registra nelle regioni del Nord-Est, dove la speranza di vita per gli uomini è 81,2 anni e per le donne 85,6; decisamente inferiore nelle regioni del Mezzogiorno, nelle quali si attesta a 79,8 anni per gli uomini e 84,1 per le donne.

Colpisce anche la minor aspettativa di vita che hanno le persone meno istruite, perché anche la laurea può fare la differenza. In Italia, un cittadino può sperare di vivere 77 anni se ha un livello di istruzione basso e 82 anni se possiede almeno una laurea. Tra le donne la differenza è minore, ma sempre significativa: 83 anni per le meno istruite, circa 86 per le laureate. Disuguaglianze acuite anche dalle difficoltà di accesso ai servizi sanitari che penalizzano la popolazione di livello sociale più basso con un impatto significativo sulla prevenzione, sulla capacità di diagnosticare rapidamente le patologie.

Nel frattempo aumenta sempre più la spesa pro capite per cure private (in Puglia, prima regione del Sud, si va oltre 505 euro/anno, secondo uno studio pre-Covid della “Bocconi”).
Dobbiamo continuare a chiedere di riflettere sulle politiche sanitarie che si intendono adottare nei prossimi anni in Italia, convinti come siamo che le tendenze organizzative attuali, penalizzando la sanità pubblica, impediscono ad una fascia di cittadini meno forti economicamente di poter avere garantito il diritto alla salute. Al limite del mancato rispetto dell’art. 32 della Costituzione, per cui ogni cittadino in Italia ha diritto alle migliori cure possibili.

Vogliamo che sia chiara la logica che sottende agli standard previsti dal DM 70/2015 che a noi sembra essere quella di garantire possibilità di intervento in urgenza e di cura omogenei su tutto il territorio nazionale.
Ma, mentre la media nazionale prevista dal decreto è di 3,7 posti letto ospedalieri x 1000 abitanti, indice comprensivo di 0,7 posti letto per la riabilitazione e la lungodegenza post acuzie, vi sono territori come ad esempio accade nella provincia di Brindisi, dove si scende, come previsto dal Piano di Riordino Ospedaliero voluto dal Presidente della Regione Puglia, Emiliano; a 2,76 x 1000 abitanti (2,37 posti letto per acuti + 0,39 posti letto per post-acuzie), senza sapere le motivazioni, ma, anzi, veramente provocatoria appare la evidenza che lo standard medio nazionale di 3,7 pp.ll. per 1000 abitanti debba essere un dato meramente statistico per cui in Puglia (COME è) vi possono essere territori che hanno 4,5 pp.ll. ed altri 2,7, per arrivare al dato statistico che vi sono i 3,7 pp.ll. per 1000 abitanti!

Evidentemente il DM 70/2015 è interpretabile (ma quale è la sua autentica interpretazione) e non prevede modelli organizzativi omogenei per tutto il territorio nazionale e regionale!
Peraltro vi è una generale carenza di posti letto che è stata drammaticamente evidenziata dalla pandemia Covid-19!
Se non sono rispettati i criteri previsti vengono confermate le disuguaglianze e in termini di salute questo è inaccettabile!
In effetti la lacuna più grave della filosofia che sottende le politiche sanitarie, in Puglia ma non solo, sembra essere l’assenza della persona (sia utente che operatore) e dei bisogni di salute in favore del risparmio ragionieristico e/o forse del privato.

Né è dato sapere se, per attuare il Piano di riordino Ospedaliero nella stessa Regione Puglia, è stato rispettato il DL 24/2017, che richiama l’importanza della prevenzione di “eventi avversi”, attraverso il rispetto dei requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi nella erogazione delle prestazioni sanitarie.
Ai sensi del DL 24/17 il Sindaco, nella veste di Autorità Sanitaria Locale (come previsto dall’art. 32 della 833/1978, dall’art. 117 del Dl 112/1999, dall’art. 50 del DL 267/2000), deve far seguire le procedure per “avviare, trasformare, ampliare o utilizzare in modo diverso strutture sanitarie” come gli ospedali (ed altro), prima di rilasciare l’autorizzazione all’esercizio, acquisito il parere tecnico del Dipartimento di Prevenzione della ASL.

Bisognava e bisogna occuparsi di tutto l’assetto dei servizi, anche quelli territoriali, avere attenzione ai bisogni legati all’invecchiamento della popolazione, sviluppando attività di prevenzione (ad esempio ipertensione, diabete, dislipidemie, obesità, fumo….) nei confronti delle classi di età centrali, per liberare anni di disabilità in età più anziane, costituire i Dipartimenti di Geriatria Territoriale, fornire cure domiciliari tempestive con una efficace presa in carico dei pazienti cronici. Con il Piano Nazionale della Cronicità (PNC), accordo tra lo Stato, le Regioni e le province autonome di Trento e Bolzano del 15 settembre 2016, le singole regioni sono state chiamate a coniugare concretamente i principi del PNC nella propria realtà organizzativa e socioeconomica, ma in quante realtà regionali il PNC non è stato attuato concretamente!

Bisogna avere attenzione ai servizi territoriali ad alta integrazione sociale (oltre agli anziani, la salute mentale, le dipendenze, l’area materno infantile e consultoriale, l’handicap). Affrontare il problema della mancata applicazione della Legge 194/78, che è diffuso in tutta Italia, per il massiccio ricorso alla obiezione del personale sanitario, con una media nazionale del 70% e in Puglia dell’86%. La legge 194 rimane così inapplicata o applicata con difficoltà e la libera scelta delle donne viene quotidianamente calpestata.
Attenzione alla gestione e presa in carico delle “dimissioni protette”, delle cure domiciliari integrate, della Assistenza farmaceutica territoriale, dell’associazionismo complesso dei MMG e PLS.

Attenzione all’ambiente inquinato e alla prevenzione primaria e cura dei tumori, ma anche alla prevenzione secondaria (ad esempio per le neoplasie della mammella importante è il controllo delle pazienti operate con la risonanza magnetica, in particolare per lo studio della cicatrice chirurgica; oppure per la Prevenzione dei tumori del colon retto dotarsi di Colonscopia Robotica Indolore, Colonscopia virtuale). Gli Ospedali dismessi nelle varie Regioni dovevano già essere stati riconvertiti in Presidi territoriali di assistenza (PTA) mentre i servizi territoriali dovrebbero essere in grado di garantire iter diagnostico-terapeutici rapidi ed efficaci, sia per evitare i ricoveri che per farli in maniera appropriata.

Non ci devono essere liste di attesa così lunghe, oltre i limiti previsti dal Piano Nazionale Gestione Liste di Attesa (PNGLA) da far dirottare le persone verso il privato o che, per chi non ha disponibilità economica e per tutte le fasce deboli della popolazione, si debba fare la scelta di non curarsi affatto. Ogni ASL deve dotarsi del Piano Attuativo Aziendale per il Governo delle Liste di Attesa che deve prevedere, chiare, le misure da adottare in caso di superamento dei tempi massimi stabiliti per accedere alle prestazioni sanitarie senza oneri aggiuntivi a carico degli assistiti, se non quelli dovuti come eventuale quota per la partecipazione alla spesa (ticket) come prevede lo stesso Piano Nazionale Gestione delle Liste di Attesa (PNGLA), ultimo del febbraio 2019, che prevede quattro classi di priorità per le prestazioni ambulatoriali (visite e analisi): Urgente entro 72 ore; Breve entro 10 giorni; Differibile entro 30 giorni per le visite o 60 giorni per le analisi; Programmate entro 120 giorni; sono previste quattro classi anche per i ricoveri: A (casi gravi) entro trenta giorni; B (casi clinici complessi) entro 60 giorni; C (casi meno complessi) entro 180 giorni; D (casi meno complessi) entro 12 mesi.

Vogliamo sapere quando finalmente in tutto il territorio nazionale si potrà avviare e/o mantenere e implementare un circuito virtuoso, che consenta di fare prevenzione sul malaffare e sugli sprechi, governare la spesa farmaceutica e la prescrizione di esami ed indagini strumentali, favorendo la cultura della appropriatezza prescrittiva e non un mero controllo burocratico, un controllo non vessatorio o giustizialista ma per migliorare, secondo i principi del Miglioramento Continuo della Qualità: controllare per migliorare.

Va sollevato il problema di finanziare adeguatamente il Fondo sanitario nazionale e regionale per difendere e potenziare il Sistema nazionale pubblico oramai al collasso. La Salute è un diritto fondamentale, sanità è servizio essenziale, per questo va garantita universalità d’accesso ai cittadini e qualità del lavoro, con particolare riferimento alle dotazioni organiche di personale sanitario (medici, infermieri, OSS), ai servizi di supporto (pulizia, vitto, logistica, ecc.); dare risposte reali e non promesse elettorali alla domanda di salute delle nostre popolazioni.

Solo se si investe nella qualità dei servizi e nella valutazione attraverso riferimenti epidemiologici, indicatori di percorso, di esito e appropriatezza organizzativa, si può avviare un processo virtuoso dalla prevenzione alla cura e riabilitazione e si può pensare di realizzare nel tempo un risparmio.
E’ necessario conoscere quali sono i reali bisogni di salute delle popolazioni dei nostri territori, avere una idea di sanità che sia al servizio dei cittadini e affrontare una vera riorganizzazione del sistema sanitario mettendo al centro le persone e salvaguardando la sanità pubblica.

Insomma pensiamo che sia ora di affrontare una vera riorganizzazione del sistema sanitario, salvaguardando la idea stessa di sanità pubblica, prestando particolare attenzione alla nomina dei Direttori Generali che richiede una rigorosa scelta basata sul merito professionale, così come quella dei Direttori di Unità operative complesse. Bisogna dire basta alla invadenza della politica, oppure far passare ancora il criterio che è bravo chi risparmia: tra i diversi criteri di valutazione previsti per i direttori di struttura complessa (dalla quantità e qualità delle prestazioni sanitarie in base al budget, alla soddisfazione degli utenti) spicca l’adozione di strategie per il contenimento dei costi!
Circa poi la valutazione dei Direttori Generali proponiamo la valutazione dei cittadini e degli stessi operatori come strumento di partecipazione, di condivisione e di miglioramento per un’azienda che come fine deve avere la tutela della salute. Valido strumento potrebbe essere l’istituzione della “assemblea della Salute”, composta da rappresentanti degli operatori e dei cittadini, che annualmente si riunisce per dare una valutazione all’Azienda Sanitaria Locale, della quale la Regione tiene conto nel giudizio della direzione generale.

E’ necessario valorizzare il ruolo dei Sindaci, che sono la più alta autorità sanitaria locale, anche ai sensi del DL 24 /2017, che dà loro competenze nell’ambito delle autorizzazioni all’accreditamento (sicurezza delle cure).
Pur se convinti che vi debba essere attenzione al legame tra risultati di bilancio e assistenziali, non possiamo accettare che l’unica soluzione che si riesca a trovare sia l’ormai solito ridimensionamento del servizio sanitario pubblico.
Pensiamo invece che solo se si investe nella qualità dei servizi e nella valutazione attraverso riferimenti epidemiologici, indicatori di percorso, di esito e appropriatezza organizzativa, si può avviare un processo virtuoso dalla prevenzione alla cura e riabilitazione e si può pensare di realizzare nel tempo un risparmio.

Comunque qualsiasi proposta deve prima di tutto rispondere ad una semplice domanda: quanto vale la salute di una persona?
Ognuno si assuma la responsabilità, politica e morale, rispetto ad un assetto organizzativo che possa mettere minimamente a rischio la salute dei cittadini.

Fulvio Picoco
Psichiatra

Collboratore redazionale di Lavoro e Salute

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