Impossibili vite queer

La nuova indagine dell’Istat sulle persone lesbiche, gay e bisessuali in Italia conferma una situazione di forte disagio e discriminazione che le persone non eterosessuali si trovano a vivere negli ambienti di lavoro e di studio del nostro paese

Per il secondo anno consecutivo, l’Istat – in collaborazione con l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar) – ha condotto l’indagine sulle discriminazioni che colpiscono le persone lesbiche, gay e bisessuali in Italia.[1] Come lo scorso anno, l’indagine è stata svolta utilizzando un questionario online a cui hanno risposto nel corso del 2022 circa 1.200 persone maggiorenni che al momento della rilevazione vivevano abitualmente in Italia, non erano in unione civile e non lo erano state in passato. Un campione più contenuto rispetto alla rilevazione precedente – quando a partecipare furono oltre 20.000 persone – che ha però prodotto risultati di rilievo per comprendere lo stato dell’arte dell’inclusione lavorativa della popolazione Lgb in Italia, e le sfide che la stessa continua a dover affrontare in ogni ambito della vita.

Per quanto riguarda le caratteristiche socio-demografiche del campione, anche quest’anno le persone che hanno partecipato sono principalmente di cittadinanza italiana (98,3%), e sono sopratuttto uomini, giovani, con un livello di istruzione elevato. Il 55,2% del campione si dichiara infatti gay, il 24,3% lesbica e il 20,4% bisessuale. Il 55,4% del campione ha tra i 18 e i 34 anni e il 64,2% ha conseguito almeno la laurea. Si tratta, inoltre, di persone attive politicamente visto che il 48,2% dichiara di partecipare attivamente e con continuità ad associazioni o gruppi Lgbt+. Come nell’indagine precedente, la maggior parte del campione vive nel nord del paese (50,6%) e nelle grandi città. In continuità con la scorsa rilevazione, l’indagine ha coinvolto un campione caratterizzato da una partecipazione alta al mondo del lavoro: la stragrande maggioranza delle persone intervistate è occupata (84,7%) o lo è stata in passato (9,8%); la motivazione principale per l’assenza di occupazione è il fatto di studiare o seguire un percorso di formazione professionale. Coerentemente con il gender gap lavorativo, l’assenza di occupazione è più frequente tra le persone che si dichiarano donne e lo stesso vale per l’incidenza di contratti a termine.

Il focus principale della rilevazione è il benessere lavorativo delle persone Lgb: la maggior parte del campione (84,3%) dichiara di aver rivelato il proprio orientamento sessuale sul posto di lavoro, preferibilmente a persone di pari grado (78,3%). Tuttavia, vengono ancora riportati episodi di outing (31,2%) – ovvero di disvelamento non consensuale dell’orientamento sessuale – da parte di colleghe, colleghi o clienti ed è ancora diffusa la percezione che l’orientamento sessuale sia un elemento di svantaggio in termini di riconoscimento delle capacità professionali (34,1%) o di possibilità di carriera (30,8%). Questa percezione è probabilmente all’origine della scelta di occultare l’orientamento sessuale sul posto di lavoro – riportata dal 61,2% del campione (65,7% tra le donne e 71,4% tra le persone bisessuali) – e di evitare di frequentare persone dell’ambiente lavorativo nel tempo libero (una persona che partecipa su tre, anche in questo caso comportamento più frequente tra le donne e le persone bisessuali).

Inoltre, circa 8 persone su dieci hanno riportato episodi di micro-aggressione sul posto di lavoro, tra cui battute offensive, utilizzo di termini insultanti, domande invadenti sulla vita sessuale, ridicolizzazione e stereotipizzazione di modi di parlare o muoversi.[2] Nella ricerca di un’occupazione, anche quest’anno l’orientamento sessuale viene menzionato dal campione come fattore di discriminazione assieme ad altri, in particolare l’età, la provenienza e il genere. Inoltre, il 25,9% del campione afferma di non essersi presentato a un colloquio di lavoro temendo di ritrovarsi in un ambiente lavorativo ostile e omofobo.

Di assoluto rilievo il fatto che oltre il 70% del campione abbia riportato episodi di discriminazione in ambito scolastico/universitario, convalidando l’assoluta urgenza di percorsi di educazione alle differenze nell’età critica dello sviluppo.

Per quanto riguarda le aggressioni esplicite sul posto di lavoro, un terzo del campione racconta di un clima lavorativo ostile. Gli episodi riportati riguardano l’essere umiliatə o insultatə (44,6%), calunnie e derisione (43,5%), l’esclusione da riunioni e conversazioni (40,7%), minacce verbali o scritte (20,2%) e aggressioni fisiche (7,2%). Come per la scorsa rilevazione, chi subisce questo tipo di aggressioni spesso sceglie di non raccontarle (16,9%) o di non intraprendere nessuna azione a riguardo (67,3%). Le discriminazioni riportate riguardano com’è ovvio anche altri ambiti della vita, basti pensare che il 27,5% del campione ha riportato di aver cambiato quartiere o comune (spostandosi soprattutto verso le grandi città) per poter vivere più tranquillamente e il 74,5% racconta di evitare di mostrare pubblicamente il proprio orientamento sessuale per paura di subire aggressioni o molestie.

Infine, il campione si è anche espresso sul clima percepito in Italia nei confronti delle persone Lgb. Il 91% ha dichiarato che le persone Lgb in Italia sono molto o abbastanza discriminate. Come lo scorso anno le persone trans e non binarie sono quelle percepite come più discriminate in assoluto all’interno della comunità Lgbt+ (97,6%), fatto questo che evidenzia la necessità di rilevazioni e politiche specifiche a sostegno di questo sotto-gruppo della popolazione.

Per affrontare un clima così ostile, il campione è stato invitato a indicare le politiche e le misure ritenute più cruciali: come lo scorso anno, le persone che hanno partecipato all’indagine hanno evidenziato l’importanza di azioni di formazione e sensibilizzazione (84,3%), nonché l’adozione di misure legislative specifiche (60,4%). Rispetto a queste ultime, viene menzionato il riconoscimento legale di entrambi i genitori delle famiglie omogenitoriali (94,7%), percorsi di educazione alle differenze nelle scuole (92,2%), l’adozione di una legge contro l’omo-lesbo-bi-transfobia (92,1%), una disciplina sistemica sulle adozioni (90,8%) e l’introduzione del matrimonio egualitario. Il campione si è espresso in maniera favorevole anche sulla gestazione per altri e la procreazione medicalmente assistita (62,3%).

A partire da questa seppur parziale panoramica sulla popolazione Lgb in Italia, non si può che concludere prendendo atto di uno scollamento pressoché totale tra le esigenze espresse dalle persone gay, lesbiche e bisessuali in Italia e le azioni intraprese dalle istituzioni per farvi fronte; situazione che sembra ulteriormente peggiorare alla luce del cambio di governo dello scorso ottobre.

Non solo mancano azioni specifiche che favoriscano l’inclusione socio-lavorativa, ma l’Italia non si è ancora dotata di una normativa contro i crimini d’odio che colpiscono le persone Lgbt+GBT+. Il dibattito politico e pubblico recente ha ulteriormente esacerbato la situazione, a partire dalla scelta del Viminale di interrompere le trascrizioni anagrafiche delle figlie e dei figli delle copie omogenitoriali natə all’estero, dal rifiuto di introdurre il certificato europeo di filiazione proposto dalle istituzioni dell’Unione europea e di aprire un fronte di conflitto sulla gestazione per altri che le forze politiche di maggioranza vorrebbero rendere reato penale universale, categoria che non ha alcuna pregnanza giuridica. L’Italia continua dunque a non essere un paese per queer. Chissà però se la corsa vertiginosa verso il livello zero dei diritti Lgbt+ non porti tuttə coloro che hanno a cuore i principi basilari di non discriminazione e uguaglianza – e non solo le persone Lgbt+ – a levare la testa e a farsi sentire.

Note

[1] Nonostante il titolo della rilevazione  Indagine sulle discriminazioni lavorative nei confronti delle persone Lgbt+ (non in unione civile o già in unione) – faccia riferimento anche alla popolazione trans, l’identità di genere non viene considerata nell’indagine che si focalizza invece sull’orientamento sessuale. Istat specifica che la situazione socio-lavorativa delle persone trans – di qualsiasi orientamento sessuale – sarà oggetto di una successiva rilevazione specifica.

[2] Ai fini dell’indagine, le micro-aggressioni vengono definite come brevi interscambi quotidiani che inviano messaggi denigratori ad alcuni individui in quanto facenti parte di un gruppo, insulti sottili (verbali, non verbali, e/o visivi) diretti alle persone spesso in modo automatico o inconscio.

Il simbolo ə già in uso in Italia e che abbiamo adottato in questo articolo consente di rendere il linguaggio il più inclusivo possibile rispetto al genere e per declinare in modo più ampio le parole che in italiano imporrebbero una scelta binaria tra il genere grammaticale maschile e quello femminile.  

Marta Capesciotti

8/6/2023 https://www.ingenere.it/

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