In fuga da guerre e disastri climatici

Viviamo in un mondo sempre più “in fuga”, la cifra record registrata a metà 2023 dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) è di 110 milioni di persone costrette ad abbandonare le proprie case a causa di guerre e disastri naturali. E a livello globale si stima che le donne, le ragazze e le bambine costituiscano circa il 50% della popolazione rifugiata, sfollata internamente o apolide.

Clima, povertà, insicurezza

Negli ultimi anni, a ingrossare le fila della mobilità umana forzata ha contributo sempre di più il saldarsi dell’interconnessione tra cambiamenti climatici (riconosciuti come veri e propri moltiplicatori di crisi), povertà, insicurezza alimentare, violazione dei diritti e conflitti armati. 

L’80% delle persone che scappano si muove da paesi in emergenza climatica, dove spesso i conflitti interni e le violenze derivano dalla lotta per l’accaparramento di risorse naturali come acqua, terre coltivabili e fonti energetiche – sempre più scarse per effetto della crisi climatica e dello sfruttamento eccessivo e al contempo vitali per le comunità locali che dipendono fortemente dal funzionamento degli ecosistemi; e sempre più strategiche, per questo così contese tra governi, gruppi armati e multinazionali.

Parliamo principalmente di uomini e donne che si spostano all’interno dei confini del loro paese e che nel 2022, come si legge anche nell’ultimo Dossier statistico immigrazione del Centro studi e ricerche Idos, sono stati circa 32,6 milioni, con un aumento del 20% rispetto all’anno precedente. 

I disastri naturali hanno subito un aumento anche a causa del fenomeno oceanico e atmosferico: la Niña, che per il terzo anno consecutivo ha avuto effetti molto gravi sulle popolazioni in diverse nazioni, fra cui il Pakistan, dove la stagione dei monsoni ha portato precipitazioni record che hanno colpito 33 milioni di persone – uno dei più grandi eventi di sfollamento per disastri naturali negli ultimi dieci anni, con 8,2 milioni di persone sfollate interne –, la Nigeria e il Brasile. 

Il fenomeno ha aggravato una delle peggiori siccità in Somalia, Etiopia e Kenya, causando oltre 2,1 milioni di movimenti interni. 

A oggi, i governi stanno facendo ancora poco in termini di mitigazione, ossia di prevenzione e diminuzione delle emissioni di gas serra in atmosfera. Senza un intervento più incisivo nel contrasto ai cambiamenti climatici e nel contenimento dell’aumento delle temperature entro la soglia di sicurezza di 1,5°C, si prevede che il numero delle persone sfollate aumenterà, come conseguenza della frequenza e dell’intensità degli eventi naturali estremi, che sappiamo sono destinate a peggiorare. 

Le stime meno pessimiste parlano di circa 250 milioni di persone che potrebbero dover affrontare una migrazione climatica entro la metà del secolo, se non verranno adottate misure efficaci in termini di mitigazione e adattamento a come sta cambiando il clima.

Un apartheid climatico

In questa cornice, a essere maggiormente colpite sono le donne e i bambini. Al riguardo, il Global gender and climate alliance riporta che l’80% delle persone sfollate a causa di eventi climatici estremi è donna.

Questa crisi, come del resto tutte le altre, non pesa sulle spalle di tutte le persone allo stesso modo; nel 2019, Philip Alston, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla povertà estrema e i diritti umani, ha lanciato l’allarme di un “apartheid climatico“, ossia del rischio sempre maggiore di una marcata differenza tra le persone ricche del pianeta, con i mezzi per adattarsi agli shock climatici, contro il resto dell’umanità, condannata senza difese, esposta a fame, malattie e distruzione.

La crisi climatica non rende solo più nette le disuguaglianze economiche e sociali su scala globale e locale, ma anche la differenza e la violenza di genere – tra le quali violenza sessuale e domestica, matrimoni combinati in giovanissima età, mutilazioni genitali. 

Donne, ragazze e bambine sono più vulnerabili anche perché costituiscono la parte più povera della popolazione, in quanto più dipendente dalle risorse naturali. 

Perché le donne sono più colpite

Va considerato che, sebbene le piccole comunità agricole su scala globale siano costituite per la maggior parte da donne (50-80%), le donne hanno meno del 10% dei terreni che coltivano e non hanno diritti di proprietà. Così come continuano ad avere meno occasioni di accesso al mondo del lavoro, che si traducono in minori possibilità di emanciparsi da condizioni di povertà e da tutto ciò che ne consegue. 

Le donne, inoltre, soprattutto in queste aree del pianeta hanno la responsabilità di garantire il cibo, l’acqua, la legna, la cura della casa e della famiglia, tutti compiti che i cambiamenti climatici rendono sempre più difficili: la disponibilità sempre più scarsa di risorse vitali come l’acqua richiede spostamenti sempre più lunghi per l’approvvigionamento. 

Questo implica un rischio maggiore per donne, ragazze e bambine di essere esposte alla violenza, fra cui quello legato a matrimoni in giovane età in cambio di beni di prima necessità o per saldare debiti (in denaro, bestiame, appezzamenti di terre) contratti dalle famiglie.

Proprio per queste ragioni e per il loro contatto diretto con gli ecosistemi, le donne e i bambini hanno, inoltre, una probabilità 14 volte più alta di perdere la vita durante un disastro naturale rispetto agli uomini. Nel 2004, il 70% dei morti a causa dello tsunami nell’Oceano Indiano era costituito da donne. 

In caso di cicloni, inondazioni o altri disastri, le donne spesso evitano di utilizzare i rifugi per paura di violenze sessuali o non hanno la possibilità di spostarsi perché devono occuparsi dei membri più fragili della famiglia, persone anziane o bambini. Banalmente – ma non troppo, visto che la posta in gioco è la vita – il rischio è spesso legato all’abbigliamento che sono costrette a indossare, e che può ostacolare la fuga immediata, o al non saper nuotare.

Guerre e clima

Un altro contesto sul quale portare l’attenzione per comprendere la vulnerabilità delle donne sono le aree di conflitto esacerbate dai cambiamenti climatici. 

Un esempio fra tanti riguarda sicuramente l’Afghanistan, dove dal 2021 (come nel 1996 e fino al 2001), la sfida per le donne è sopravvivere al regime di terrore imposto dai Talebani, che al loro ritorno hanno messo da subito in atto azioni per escluderle dalla sfera pubblica, compresi i settori dell’istruzione e del lavoro, con un impatto enorme sullo sviluppo stesso della società. 

Alla repressione dei diritti umani da parte dei Talebani si somma, per le donne afghane, la difficoltà di vivere in un paese da anni duramente colpito dalla carestia a causa di periodi prolungati di siccità estrema.

I motivi per i quali donne e ragazze (sfollate interne, richiedenti asilo o rifugiate) possono essere state costrette a lasciare le proprie terre di origine sono molteplici e spesso anche interconnessi. Oltre al contesto di partenza bisogna tener conto dei numerosi rischi a cui sono esposte durante il viaggio o nei paesi di transito e di destinazione. 

Il dato riportato dall’Unhcr è angosciante: tra le rifugiate o sfollata internamente, una donna su cinque ha subito violenza sessuale.

Sguardi nuovi

Non dobbiamo però incappare nell’errore di guardare alle donne come vittime “passive” degli eventi; piuttosto, è imprescindibile dare eco al ruolo che le donne possono avere o che già hanno (nei piccoli villaggi così come in campo internazionale) come motori del cambiamento nella lotta per la giustizia climatica, che è anche una lotta di genere. 

Questo è reso possibile proprio grazie alla conoscenza approfondita che le donne hanno sia delle comunità sia delle risorse del territorio e di come custodirle. 

È inoltre necessario monitorare e accrescere la consapevolezza su scala globale della portata, dei numeri e delle condizioni dello sfollamento di donne e ragazze associate a conflitti, violenza e impatto dei disastri climatici, con l’obiettivo di aumentare l’impegno politico e gli investimenti finanziari per rispondere in maniera adeguata a esigenze specifiche e per supportare il lavoro di integrazione in chiave di genere in tutte le politiche che riguardano il clima e l’ambiente.

Note

Questo articolo riprende il relativo capitolo contenuto nel Dossier Statistico Immigrazione 2023 curato da Idos, in collaborazione con il Centro Studi Confronti, Otto per Mille della Tavola Valdese e Istituto di Studi Politici “s. Pio V”.

Leggi il dossier di inGenere Pianeta infetto

Maria Marano

14/11/2023 http://www.ingenere.it/

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *