Industria militare e sapere scientifico. Proteste, piccole vittorie e strategie future

La progressiva riduzione del finanziamento ordinario, le necessità sempre più urgenti per le università di intercettare risorse, unite alla volontà delle forze armate di rafforzare le collaborazioni con il mondo accademico, spianano la strada all’ingresso dell‘industria bellica nelle università. L’escalation della guerra scatenata da Israele contro Gaza, la Palestina e ora l’Iran, non fa che rendere più evidente questa tendenza che il mondo studentesco e il personale universitario già combattono da anni.

Ma qualche settimana fa si è toccato il fondo. In piena campagna genocidaria in corso a Gaza, il ministero degli esteri ha annunciato un “Accordo di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica tra Italia e Israele”. Il programma prevede la collaborazione tra università italiane e israeliane per la selezione di progetti che riguardano tecnologie per suoli, come nuovi fertilizzanti, tecnologie idriche come il trattamento dell’acqua potabile, e dispositivi ottici di precisione.

Tra queste tecnologie anche quelle apparentemente più innocue vengono utilizzate come armi da guerra dai coloni e dall’esercito israeliano, che da più di mezzo secolo occupa le terre, affama e nega l’acqua alla popolazione palestinese. L’Italia è il terzo paese al mondo per esportazione di armi e tecnologie verso Israele, e il dato non è certo diminuito dopo il 7 ottobre.

Alla notizia dell’accordo, gli studenti e le studentesse delle università italiane inaugurano una settimana di mobilitazioni, dal 3 al 10 aprile, il giorno di scadenza del bando. Viene presentata una lettera appello firmata da più di 2.500 docenti, ricercatori, studenti e personale amministrativo in solidarietà con il popolo palestinese; in essa si menziona, tra l’altro, il dovere inderogabile degli stati membri delle Nazioni Unite di sospendere le attività di ricerca e collaborazione scientifica nei paesi dove avviene un conflitto bellico, rafforzata dalla dichiarazione della Corte Internazionale del 26 gennaio che paventa l’ipotesi che Israele stia commettendo un genocidio. Docenti e ricercatori citano anche un’inchiesta giornalistica di alcuni media indipendenti israeliani che rivelano come l’esercito israeliano stia utilizzando un algoritmo di intelligenza artificiale chiamato Lavender e sviluppato dall’Università di Tel Aviv, che calcola i “danni collaterali” per ogni omicidio mirato, su criteri sempre meno stringenti che finiscono per mandare al macello intere famiglie.

Le università israeliane non sono certo neutrali, non ci sono “spazi di dialogo”, come vorrebbero far credere coloro che sostengono la campagna contro la sospensione degli accordi: sono invece strumenti fondamentali della conquista coloniale e del massacro della popolazione palestinese. Le università internazionali che collaborano con esse, quindi, devono essere considerate complici del genocidio. Per tutti questi motivi cresce la voglia di mobilitarsi tra gli studenti. La mobilitazione segue due traiettorie diverse: da un lato chiedere l’annullamento del bando da parte del ministero; dall’altro fare pressioni sul senato accademico di ogni università per bloccare la collaborazione con le università israeliane.

Il 9 aprile la mobilitazione sfocia in una giornata di mobilitazione nazionale. A Milano gli studenti occupano il rettorato del Politecnico per alcune ore. A Torino si organizza un sit-in e si chiede un incontro con il rettore, che già a fine marzo aveva deciso di non partecipare al bando del ministero degli esteri. A Siena una ventina di studenti e ricercatori del comitato “Palestina libera” fanno irruzione nel senato accademico per chiedere la revoca dell’accordo di collaborazione con Israele. A Bologna ci sono proteste per il ritiro dell’accordo. A Bari dopo una giornata di mobilitazione gli studenti occupano il rettorato e vincono un’altra battaglia: a fine marzo era stato ottenuto il ritiro del rettore dal comitato scientifico della fondazione Med-or del gruppo Leonardo, ora si annuncia la revoca dell’accordo da parte del senato accademico. A Napoli si occupa il rettorato e si costringe il rettore a discutere dell’accordo con Israele, ventilando anche la possibilità di eliminarlo; subito dopo però il corteo che tenta di raggiungere il Teatro San Carlo, dove si tiene il concerto per i settantacinque anni della Nato, viene caricato dalla polizia antisommossa. A Roma una mattinata di proteste nei diversi atenei si conclude con un presidio unitario davanti alla sede del ministero: docenti, ricercatori e ricercatrici, studenti, studentesse, personale tecnico amministrativo si ritrovano a piazza Farnesina per chiedere lo stralcio dell’accordo e la richiesta di incontro con il ministero.

Le proteste continuano nella settimana successiva. La notte prima del 16 aprile, in occasione della riunione del senato accademico, studentesse e studenti della Sapienza si accampano fuori dal rettorato. Nel pomeriggio un gruppo tenta di entrare nella sede dell’incontro del senato accademico, convinti di poter parlare dell’accordo del ministero come in altre università d’Italia; ma trovano le porte chiuse. La discussione è stata rinviata e fuori dai cancelli la rettrice si rifiuta di parlare con i ragazzi autorizzando gli agenti in assetto antisommossa a schierarsi davanti ai cancelli del rettorato. Gli studenti inscenano un corteo improvvisato dentro i cortili universitari, fino a raggiungere uno dei varchi dell’ingresso; una volta usciti dal recinto universitario, la polizia carica e arresta uno studente. Il corteo allora raggiunge il commissariato di San Lorenzo dove sono è stato portato il ragazzo libico: la polizia carica di nuovo e arresta un’altra studentessa. Il giorno dopo si svolge il processo per direttissima, e di nuovo una manifestazione di protesta sotto la sede del tribunale a piazzale Clodio. Contemporaneamente all’università un’altra studentessa e un altro studente si incatenano ai cancelli del Rettorato e dichiarano l’inizio di uno sciopero della fame, finché non si sospenderà l’accordo di collaborazione. Sui loro cartelli campeggiano scritte contro la rettrice e l’università: “Polimeni ha le mani sporche di sangue”. Su una transenna sotto la statua della Minerva invece una scritta recita: “Polimeni complice di genocidio”. Dopo gli scontri tra polizia e studenti, il 18 aprile, la Conferenza dei rettori delle università italiane approva un documento per proporre l’organizzazione di eventi in modalità online e lavora con il ministro dell’interno Piantedosi e il capo della polizia Pisani per la creazione di un pool composto da quattro rettori che si occupi di reprimere le proteste.

QUALCHE VITTORIA
Gli statuti universitari dichiarano il “rispetto della dignità della persona umana” e “la piena libertà delle idee e dell’espressione delle libertà politiche e sindacali” (come quello della Sapienza); la Costituzione proclama che l’Italia ripudia la guerra; lo stesso senso comune suggerirebbe a tutte le istituzioni italiane di difendere il popolo palestinese, massacrato, ridotto alla fame e alla sete, privato degli ospedali, delle scuole e delle università. Dal ministero dell’istruzione invece partono gli ordini di ispezione contro chi parla di Palestina a scuola; il ministro Bernini incontra la conferenza dei rettori dopo le proteste alla Federico II contro il direttore di Repubblica Molinari per silenziare le voci di dissenso contro le politiche guerrafondaie di Israele.

Tuttavia, vista la forza e la costanza delle proteste, inizia ad emergere qualche vittoria, come quella dell’insegnante di filosofia messo sotto ispezione per aver organizzato un dibattito sulla Palestina in una classe del liceo Righi: dopo tre provvedimenti disciplinari e un’ispezione, il procedimento ministeriale si chiude con l’archiviazione, perché privo di appigli legali. Il fatto che la pressione dal basso abbia spinto alcune università a ritirarsi dagli accordi con Israele è sicuramente una vittoria, così come la nascita di coordinamenti che in ogni università fanno monitoraggio e denunciano gli accordi militari (come il collettivo Sumud dell’Università Ca’ Foscari); ma è necessario combinare questi sforzi, respingere il modello di scuola-caserma e di cittadino soldato prima che entrino nell’università. La proliferazione dei corsi sull’educazione alla legalità, sulla sicurezza, sulla promozione professionale dei reparti militari, rispondono a questa istanza.

Le forze armate militarizzano anche l’educazione fisica e le attività sportive, spostandole dentro le basi e i poligoni militari. Il modello scolastico che sta prendendo piede è ispirato a una visione autoritaria della scuola che enfatizza la minaccia della punizione; la norma va rispettata in quanto tale, non può essere discussa, criticata, modificata in maniera cooperativa e democratica. Si dà il via a campagne di orientamento militare che, supportate dall’alternanza scuola-lavoro, si convertono in un’alternanza scuola-caserma. Gli studenti devono acquisire dimestichezza con gli armamenti visitando anche le basi Usa e Nato. Non solo; la Leonardo Spa vuole rafforzare il suo ruolo sociale mutando i contenuti della didattica. Questa industria di armamenti ex statale ha sviluppato diversi progetti nelle scuole secondarie di secondo grado, come quello denominato StemLab, finalizzato a sensibilizzare gli studenti sulle tecnologie scientifiche (scienze, tecnologie, ingegneria e matematica), in realtà mirato a introdurre nella scuola temi come la sicurezza militare e l’aerospazio. La nascita di un nuovo modello scolastico-militare si è delineato con la riforma dell’intelligence nel 2007: prima è stato creato il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza che ha cominciato a stipulare accordi sempre più stringenti con le scuole superiori e le università; dopo è nato un piano nazionale della ricerca militare, che facilita le collaborazioni e i partenariati con le industrie piccole e medie, con le università, gli enti pubblici e il privato, per lo sviluppo di tecnologie militari; fino allo stanziamento di risorse come borse di studio per la formazione di una futura classe dirigente asservita agli interessi bellici italiani e europei.

È un ruolo sociale difficile da scalfire, ma le mobilitazioni di queste settimane nelle università mostrano che la resistenza sta crescendo. I collettivi universitari insieme agli studenti delle scuole superiori stanno costruendo reti di solidarietà capaci di riaccendere un bagliore di conflitto, nonostante l’inasprirsi del clima repressivo.

LEONARDO E MED-OR
Un dato incontrovertibile che ci dice quanto sia centrale lo stanziamento di risorse verso la ricerca e quanto questo elemento possa promuovere un sistema culturale accondiscendente alle esigenze belliche balza agli occhi leggendo il rapporto indipendente pubblicato sulla homepage della Leonardo Spa, che rivela il contributo significativo all’economia e all’occupazione relativi alla produzione di aerei da combattimento Eurofighter. Nel report viene indicato come la produzione di questi aerei militari provocherebbe una crescita di novanta miliardi del prodotto interno lordo, la creazione di 98 mila posti di lavoro ogni anno e vantaggi fiscali che si aggirano intorno a ventidue miliardi di euro. Nella notizia viene inoltre sottolineato come la produzione di Eurofighter sostiene piccole e medie imprese, start-up e gli ambiti della formazione.

Anche Cingolani, l’amministratore delegato di Leonardo, sottolinea come in un nuovo scenario geopolitico, caratterizzato da tensioni e conflitti, diventa fondamentale realizzare un piano industriale che preveda un approccio tecnologico e un ruolo sociale dell’azienda. La Leonardo punta sempre di più a rafforzare la collaborazione con università e centri di ricerca, che a oggi sono più di novanta a livello mondiale, con quattrocento progetti in corso. Leonardo ha sottoscritto cinque accordi quadro con le università statali italiane: Politecnico di Milano, Politecnico di Torino, Università di GenovaUniversità di Bologna e Sapienza a Roma; con la Federico II di Napoli sono stati stipulati accordi sui temi dell’innovazione tecnologica e la riqualificazione delle aree militari; con quella di Genova accordi su tematiche come la cybersecurity, con La Sapienza un master di II livello in geopolitica e sicurezza globale.

Questa crescita è alimentata dal contributo della fondazione Med-or, che si avvale della collaborazione di insegnanti e rettori delle università, come la rettrice della Sapienza e il rettore di Roma 3, facenti parte del comitato scientifico. A questi insegnanti e rettori, lautamente retribuiti dalla fondazione finanziata dalla Leonardo, e che in questi giorni chiedono agli studenti di manifestare il loro dissenso in modo democratico, respingendo l’idea di boicottaggio verso Israele, bisognerebbe spiegare che la fondazione Med-Or, capeggiata dall’ex ministro Minniti, non è che un comitato d’affari che persegue gli interessi militari di Israele. Com‘è possibile che una fondazione che supporta la produzione e vendita di armamenti possa operare impunemente dentro le università? Perché il sapere scientifico deve piegarsi agli interessi dell’industria militare? (giuseppe mammana)

22/4/2024 https://www.monitor-italia.it/

Immagine: disegno di sam3

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