“Insegnante,un mestiere ad alto rischio salute”.

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“Che lavoro fai? Insegni?” È una delle tante battute che si fanno per prendere in giro i docenti. Una professione, quella dell’insegnante, che un tempo era riconosciuta e valorizzata. La maestra del paese era quasi una divinità. Oggi no, lo svilimento di questo mestiere sembra non toccare mai il fondo. Gli insegnanti lavorano mezzo dì per cinque giorni la settimana e fanno quasi quattro mesi di vacanze all’anno. Se poi sanno farsi voler bene dagli studenti, accompagnano un paio di classi in gita e via altre due settimane a visitare qualche capitale europea o a sciare in qualche valle italica. Mica male come impiego, chi non vorrebbe per sé qualcosa del genere? È vero, ci sono le lezioni da preparare, i compiti da correggere, i consigli di classe ordinari e straordinari, i collegi docenti, le riunioni per aree disciplinari e per dipartimenti, le riunioni per materia, le ore di ricevimento settimanale e quadrimestrale, gli scrutini, corsi di aggiornamento e tanti altri incontri pensati dai “Bravi Dirigenti” anche in orario serale. Però, a parte i primi due anni in cui tocca imparare il mestiere, dopo le lezioni sono sempre le stesse. Per chi ha studiato bene, basta ripassare, la storia del Novecento è sempre quella, la Divina Commedia non cambia, l’area di un quadrato è sempre lato per lato. Studi condotti sul campo dimostrano che i docenti sono a serio rischio di disturbi psichiatrici, per lo più causati dall’usura psicofisica delle cosiddette “ helping profession”. Tra i docenti dichiarati non idonei all’insegnamento a causa della propria salute, l’80 per cento presenta diagnosi psichiatriche e gravi disturbi per lo più di tipo ansioso-depressivo. È una situazione che rischia di esplodere e di cui ci occuperemo seriamente solo dopo che sarà scoppiato qualche caso di cronaca. Il “burnout” è caratterizzato da una condizione di affaticamento fisico ed emotivo colpisce le persone impiegate nelle cosiddette “helping profession” e “high-touch” le professioni in cui l’impatto e il coinvolgimento emotivo sono elevati: insegnanti, psicologi, assistenti sociali, infermieri, operatori di sportello, medici, psichiatri. Tra queste categorie, la più a rischio è quella degli insegnanti. Mentre in nazioni come la Svizzera si prendono provvedimenti con norme che possono in qualche modo prevenire il burnout, in Italia, nelle linee guida della Buona Scuola, non si trova nessuna misura che vada a contrastare lo stress lavorativo nella vita degli insegnanti. In Italia, la correlazione tra stress da insegnamento e patologie è emerso che la categoria degli insegnanti è quella che di più conduce verso patologie psichiatriche e inabilità al lavoro: da studi fatti è emerso che ad essere stressati per il lavoro logorante sono il 75 per cento dei docenti. Eppure il nuovo Testo unico dei lavoratori, l’articolo 28 del D. Lgs. 81/08, avrebbe dovuto imporre dal 1° gennaio 2011 ai datori di lavoro di adoperarsi, assieme agli organi di competenza, per predisporre un piano di studio e d’azione per contrastare il crescente problema del burnout. I dati sull’aumento di patologie psicologiche o psichiatriche preoccupano, soprattutto tra le donne in menopausa: invece di tutelarle, con la riforma Fornero vanno in pensione dieci anni dopo. Mentre in altri Paesi c’è coscienza del problema, da noi il Miur continua a non far nulla e i sindacati pure. La realtà è che per salvaguardare i conti dello Stato si è perso il senso della ragione: in due decenni si è passati, dalla riforma pre – Amato, quando le donne potevano andare via anche a 55 anni, alle rigidità attuali. Con le lavoratrici statali che possono lasciare il servizio non prima dei 63/64 anni, mentre per le docenti che non posseggono il requisito dell’età anagrafica l’anzianità contributiva è diventata di 42 anni (per gli uomini anche un anno in più). Come se non bastasse, siccome la riforma delle pensioni approvata dal Governo Monti lega le aspettative di vita all’innalzamento dei “tetti” pensionistici, le prospettive sono ancora più nere: basta dire che nel 2050 si potrà lasciare il lavoro nel pubblico solamente a 70 anni. E per le pensioni di anzianità non andrà meglio: se nel 2016 alle donne verranno chiesti 41 anni e dieci mesi di contributi versati, sempre nel 2050 gli anni diventeranno addirittura 45 (46 per gli uomini). Pure i requisiti per la pensione di vecchiaia saranno sempre più alti, fino a che alle donne si richiederanno gli stessi requisiti degli uomini: già nel 2018 per entrambi i sessi serviranno quasi 67 anni. Confrontando questi dati con quelli europei, l’Italia si colloca tra i paesi europei che detengono l’età di pensionamento più alta. È un dato che diventa clamoroso quando si somma alla mancata considerazione delle indicazioni di salvaguardia della salute delle donne impegnate in lavori usuranti. Ma la vera beffa è che mentre tratteniamo più di 70mila docenti con più di 60 anni, siamo anche gli unici ad annoverare meno dell’1% di insegnanti di ruolo al di sotto dei 30 anni di età anagrafica. E complessivamente due docenti su tre sono over 50. Eppure il decreto 81/2008 sulla “tutela della salute dei lavoratori” impone di valutare, monitorare e fare prevenzione sullo stress lavoro correlato nelle helping profession. Carta straccia, nessuno ha mai stanziato un solo euro per prevenzione e formazione. E nessuno ha protestato, sindacati di categoria inclusi. I Dirigenti Scolastici non sono stati formati in merito alle loro incombenze medico-legali e oggi ignorano le norme della prevenzione della salute, quindi di “operazione di acculturamento”. In Francia una ricerca del 2005 ha dimostrato che, tra le categorie professionali, quella dei docenti risulta essere la più esposta al rischio suicidio. Gli stessi dati, nel 2009, sono stati confermati dalla Gran Bretagna. In Francia, in seguito alle evidenze emerse, i docenti oltre al medico di famiglia hanno a disposizione anche uno psichiatra di base. I sindacati di categoria rifuggono totalmente dalla questione, svicolando dal problema della salute dei loro iscritti pur sensibilizzati da molti loro iscritti con la frase: gli insegnanti sono sommersi dagli stereotipi, se andiamo a dire che rischiano di diventare pazzi a fare questo lavoro, ci prenderanno davvero per “folli, oltre che fannulloni”… Così azzittiscono gli iscritti per non prendersene cura ed affrontare seriamente il problema (che non vogliono affrontare). Di conseguenza il Miur non stanzia i fondi per la prevenzione, non riconosce le patologie professionali dei docenti e non effettua controlli sui Dirigenti Scolastici, spesso colpevoli, che sono tenuti ad applicare (senza soldi) le misure di prevenzione previste dal D.L. 81, che resta lettera morta. Questa è la situazione odierna. Come la malattia professionale dei minatori era prevalentemente la silicosi, così la patologia psichiatrica risulta essere la prevalente per i docenti. E questo a prescindere dagli stereotipi, dal prestigio sociale, dal disinteresse ministeriale o da altre facezie, ma semplicemente perché quella dell’insegnante è una professione di relazione e le relazioni bruciano energie psichiche. Il disagio psichico dei docenti è come il Vaso di Pandora che se lo apriamo rischiamo di vederci accollare un ulteriore stereotipo: “Pazzi oltreché Fannulloni”. Ancora una volta il Governo italiano è inadempiente, latitante. Dal 1992 ad oggi sono state effettuate 5 riforme previdenziali, passando dalle baby-pensioni ai 67 anni di anzianità: il tutto senza aver mai fatto una valutazione della salute della categoria professionale dei docenti in barba ai D.L. 626/94 prima e 81/08 poi Oggi urge effettuare ricerche epidemiologiche non solo sui casi di suicidio, ma anche sull’incidenza delle patologie psichiatriche e di quelle neoplastiche nei docenti. Il burnout non è ancora oggi contemplato dalla classificazione delle patologie psichiatriche del DSM, perché studiato primariamente dal punto di vista sociale anziché fisiopatologico per la pretesa di voler definire compiutamente gli aspetti sociali, eziologici, psicopatologici, e i fattori di rischio prima ancora di arrivare a parlare di “sindrome” e dunque di “trattamento terapeutico” (ma forse anche) per la paura di dover ammettere l’esistenza di una piaga dalle gigantesche proporzioni, sia per il numero di individui a rischio (nel solo settore dell’istruzione il rapporto insegnanti/abitanti in un paese avanzato oscilla tra 1/50 e 1/70), sia per l’impatto sociale che questa ”ammissione” comporterebbe sui giovani, sulle loro famiglie e sull’opinione pubblica. Marilena Pallareti 27/7/2015 Docente Forlì

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