Invecchiare spendendo e morire risparmiando

La correlazione fra l’incremento della spesa sanitaria, che interessa tutti i paesi industrializzati, e l’invecchiamento è un fenomeno documentato e universalmente accettato. Più dibattuto è il motivo per cui questo si verifichi: l’attenzione è spesso centrata sul paradigma che gli anziani consumino più risorse sanitarie in quanto generalmente più malati. Tale assunto, unito alle proiezioni demografiche che vedono la popolazione mondiale in costante invecchiamento, porta con sé molte preoccupazioni legate alla sostenibilità futura degli attuali sistemi sanitari. Diversi autori, tuttavia, studiando i consumi sanitari nella popolazione, hanno dimostrato che le persone che consumano più risorse sono quelle che si trovano nel periodo (uno, due anni) che precede il decesso, indipendentemente dalla loro età (vedi anche  Età, prossimità al decesso e spesa sanitaria) . Questo dato ha fatto loro ipotizzare che, quindi, l’incremento di costi che si ha a carico delle persone anziane non sia tanto correlato all’invecchiamento in sé quanto al fatto che tra queste persone sono di più quelle che sono vicine alla morte. In sostanza, le fasce di popolazione di età più avanzata avrebbero una crescita di costi sanitari perché in esse è maggiore il tasso di mortalità[1-9].

Un altro dato emerso da questi studi è stato quello che, analizzando i consumi di persone nei loro ultimi anni di vita, si è visto che a spendere di più non sono gli anziani ma i giovani. Quanto illustrato finora avrebbe delle ripercussioni importanti nella valutazione del peso dell’invecchiamento nelle future evoluzioni della spesa sanitaria. Infatti, se l’aumento delle spese non risulta legato all’invecchiamento in sé ma alla morte, aumentando la speranza di vita della popolazione mondiale, non assisteremmo ad un incremento dei costi sanitari ma solo ad un loro spostamento in avanti conseguente alla posticipazione dell’evento morte che è la causa dell’aumento dei consumi. Anzi, essendo i costi relativi alla morte minori nelle età più avanzate, avremmo una sorta di risparmio. Un sessantacinquenne del “futuro” spenderà meno di un suo coetaneo di oggi perché più lontano dal momento della morte e quando morirà, siccome sarà più anziano di quanto non avvenga ora, spenderà meno. Il peso dell’invecchiamento sulla sostenibilità dei sistemi sanitari sarebbe dunque ridimensionato, facendo tirare un sospiro di sollievo a chi ha il compito di programmare le risorse da investire in sanità. Tuttavia tale teoria oltre a presentare diversi limiti, presenta anche alcuni rischi. Il limite più evidente, già ampiamente discusso in letteratura, è che i costi sanitari relativi al periodo che precede la morte rappresentano solo una piccola parte (10, 15%)[8;10-14], della spesa sanitaria totale, in ragione del fatto che ad oggi, la percentuale di persone vicine alla morte nella popolazione generale è molto bassa grazie a politiche sanitarie che hanno permesso, finora, che i tassi di mortalità siano ai livelli minimi nella storia.

Un altro limite è che, confrontando, in generale, la spesa di persone che sono prossime alla morte con quella di chi non lo è, verosimilmente si confronta una popolazione per lo più malata, con una per lo più sana. È quindi quasi scontato che i costi legati alla cura e all’assistenza sanitaria siano maggiori nel primo gruppo rispetto al secondo: in quest’ultimo infatti i maggiori consumi delle persone malate (in percentuale poche), anche se fossero alti, sarebbero ammortizzati da quelli bassi di quelle sane (in percentuale molte). Per avere dei dati più sicuri, il confronto andrebbe quindi fatto tra gruppi di popolazione ugualmente malati, calcolando i costi separatamente per chi sopravvive a due anni e chi invece muore. A questo punto sarebbe difficile che si verificasse che chi muore spenda di più, perché gli interventi medici, e le conseguenti risorse investite, dovrebbero essere mirati alla sopravvivenza del paziente, a meno che non ci si trovi di fronte ad un fenomeno incontrollato di accanimento terapeutico; quindi sicuramente ci sarebbe qualcuno per cui si spende tanto e che poi muore, ma, ce ne sarebbero molti di più per cui si spende ugualmente ma che poi sopravvivono.

Un altro limite, comunque, anche se per qualche motivo poco comprensibile, dovesse accadere che le cure dispensate a chi muore risultassero sempre più costose di quelle elargite a chi vive, bisognerebbe fare un’ulteriore correzione per il fattore tempo: se chi muore, infatti, smette di consumare, chi sopravvive, al contrario, continua a consumare per un tempo variabile e non è escluso che, se malato o reduce da una malattia acuta, lo faccia in maniera maggiore di quanto non faccia un individuo sano. L’analisi quindi andrebbe prolungata, per il gruppo dei sopravvissuti, anche ad un periodo successivo a quello di osservazione: si confrontano infatti eventi con dinamiche diverse che presumibilmente necessitano di tempi di osservazione diversi.

L’ultimo limite, forse il più importante, confermato anche dall’evidenza clinica, è che, analizzando le diverse dinamiche di malattia e morte, sembra difficile che possa esistere un modello unico di consumi sanitari legati al periodo antecedente la morte in presenza, invece, di molti modi di morire, diversi e distribuiti in maniera differente nelle varie fasce di età. Il modello unico a cui si fa riferimento nella teoria sopra descritta prevede che un individuo non consumi, o consumi molto poco, in tutta la sua vita e poi cominci a farlo nel periodo immediatamente precedente la morte; questo schema può essere vero per le fasce di età più giovani, in cui le persone muoiono per cause violente o per malattie insorte in pieno benessere, ma sembra inadeguato per i più anziani, in cui spesso la malattia che poi conduce alla morte è l’evento finale che si somma alle conseguenze di un progressivo indebolimento e decadimento fisico, magari caratterizzato dalla presenza di una o più malattie croniche o dai postumi di malattie acute superate grazie ad interventi medici pronti ed efficaci.

Negli anziani, dunque, limitare l’analisi dei costi a pochi anni prima del decesso potrebbe portare ad una sottostima della spesa sostenuta per essi. Ad oggi quanti sono gli ottantacinquenni che nei 15 anni precedenti non abbiano subito un intervento per tumore, di protesi di anca e di ginocchio, un intervento di cataratta, un ricovero per un evento acuto (infarto, ictus, frattura di femore) o che non siano affetti da nessun tipo di patologia che richieda una terapia giornaliera? Che traccia avremmo delle cure messe in atto, e dei conseguenti costi, per il mantenimento della loro salute andando ad analizzare esclusivamente gli ultimi due anni di vita? Ipotizzare la presenza di modalità di consumo differenti[14] aiuterebbe anche a spiegare il fenomeno, documentato, che i costi sanitari negli ultimi anni di vita diminuiscono con l’età, altrimenti, dovremmo concludere che ciò sia determinato da una discriminazione degli anziani nella qualità e quantità di cure ricevute che invece non dovrebbe verificarsi in modelli sanitari basati sull’universalità delle cure.

Sarebbe forse utile, allora, provare a compiere un cambiamento di prospettiva ed analizzare l’invecchiamento non più solo come causa dell’incremento della spesa sanitaria ma anche come il suo risultato. Ipotizzare che la differenza di spesa, negli anni immediatamente precedenti la morte, fra le persone più anziane e le più giovani non rappresenti un minus ma semplicemente uno spostamento più indietro dei consumi, cioè che chi è più vecchio abbia già utilizzato risorse in un determinato periodo della vita per superare uno o più problemi di salute e che questi consumi abbiano contribuito ad aumentare la sua aspettativa di vita.

Per concludere, dunque, il rischio della teoria sopradescritta è quello di portare ad una sottovalutazione del problema dell’invecchiamento e dei costi ad esso associati nelle politiche sanitarie dei paesi, di contribuire a continuare a vedere la cura della malattia non come produttrice di salute ma come causa di spesa. Dovremmo forse rassegnarci al fatto che investire denaro in salute significherà guadagnare in salute stessa e in speranza di vita, ma più difficilmente in termini economici. Dovremmo quindi considerare che invecchiare in salute può avere dei costi elevati come quelli di invecchiare malati. I risultati ottenuti finora, in termini di calo dei tassi di mortalità, aumento dell’aspettativa di vita, sono stati raggiunti e mantenuti con dei costi; una riduzione di quest’ultimi, verosimilmente, potrebbe quindi avere come conseguenza un risparmio economico affiancato da una perdita di salute.

Francesca Nisticò, medico specialista in igiene e medicina preventiva dell’ U.O.C. Sistema Demografico ed Epidemiologico della AUSL Toscana sud est

Francesca Nisticò

13/11/2017 www.saluteinternazionale.info

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