Invisibili in corsia
Turni massacranti, salari bassi, mobbing e condizioni di lavoro al limite: inchiesta sulla situazione dei medici specializzandi
In uno stato di crisi permanente, l’emergenza diventa la norma, con tutto ciò che ne consegue, in particolare sul fronte dei crescenti pericoli che attentano il benessere e la vita delle persone. Se, infatti, è assodato che lo smantellamento del Sistema sanitario nazionale stia causando danni e disagi tra i pazienti, che percepiscono il peggioramento della qualità del servizio ricevuto, l’aumento di scioperi sindacali tra le categorie di lavoratrici e lavoratori socio-sanitari è un fatto nuovo, che rappresenta un ulteriore tassello verso la proletarizzazione delle professionalità, compresa quella del medico.
Si cerca di massimizzare tutto: personale, spazi, tempi. Ti senti come stessi lavorando in una catena di montaggio […] ti senti quasi disumanizzato. Ti senti trattato come un operaio che sta facendo un lavoro non umano, di cura, ma semplicemente deve fare un’attività per poi passare alla successiva, e la successiva ancora. […] La necessità di produrre più salute possibile, di fare più esami possibili, comporta una disumanizzazione della cura. […] Così la figura del medico professionista è diventata come quella di un tecnico. Non c’è più il lato umano, psicologico, di cura della persona; c’è solo il lato tecnico-scientifico di cura del corpo del paziente.
La genealogia della proletarizzazione della professione medica, quindi la ricerca delle cause di quanto condiviso qui da Giulio (nome di fantasia), 30 anni, medico specializzando in Medicina Interna, è fuori dalla portata di questo articolo, che intende dare più spazio possibile alle tante esperienze di vite lavorative invisibilizzate e precarizzate.
Come denuncia Diletta Bellotti in Pomodori rosso sangue (Nottetempo, 2024), «l’invisibilizzazione è il processo in cui si crea o rafforza la non-esistenza (dunque l’«invisibilità») di qualcuno che non è parte dei processi sociali, culturali e politici di uno Stato, che ne sia cittadino o meno». Se, infatti, si parla spesso della crescente proletarizzazione delle professioni e precarizzazione del lavoro, altrettanto raramente, nei diversi ambiti in cui tali problemi vengono sollevati, li si affronta a partire dal punto di vista delle persone direttamente interessate.
La contraddizione di essere corpi non-visibili ma, contemporaneamente, zoccolo duro del sistema in cui sono inseriti è caratteristica preponderante dei medici specializzandi negli ospedali italiani. Questo è, perlomeno, quanto dichiarano gli intervistati quando affermano che «il sistema sanitario crollerebbe» senza di loro. Isolano (nome di fantasia), 29 anni, specializzando in Ginecologia e Ostetricia, è convinto che «nel bene o nel male, lo specializzando in Italia – lo sento dire anche da altri colleghi – è fondamentale per l’attività quotidiana dell’ospedale». Non è l’unico a pensarla così, ma la sua storia di vita lavorativa come medico specializzando è caratterizzata da momenti di elevato stress psico-fisico, culminati in una condizione di burn-out che ha complicato il suo percorso formativo. «Ero martellato. Era fine terzo anno di specializzazione. Ho avuto talmente tante cose da fare che sono scoppiato». Alla domanda se avesse ricevuto sostegno da parte dell’unità operativa o dell’ospedale in cui si trovava a prestare servizio, mi conferma che: «no. Mi sono fermato io, per concentrarmi sulle cose che veramente erano importanti. Sono proprio esploso».
La condizione di «stress da lavoro-correlato» è pericolosamente frequente tra chi svolge attività in ambito sanitario, come riportato in altri studi e inchieste tra cui Codice Rosso di Milena Gabanelli e Simona Ravizza (FuoriScena, 2024) e Le grandi dimissioni di Francesca Coin (Einaudi, 2023). Tuttavia, mentre una lavoratrice o un lavoratore dipendente dell’ospedale hanno, per contratto, la possibilità di usufruire di permessi retribuiti e giorni di malattia, per i medici in formazione specialistica tutto questo non è previsto. Agli specializzandi è concesso di assentarsi per un massimo di trentuno giorni l’anno, previa autorizzazione del proprio tutor. In questi trentuno giorni, quindi, devono rientrare non solo gli eventuali periodi di malattia, ma anche le assenze per esigenze personali, per la frequenza di corsi di formazione e le vacanze, che dunque si riducono necessariamente al minimo indispensabile.
Tra le persone intervistate, Isolano è l’unico a riportare di essere arrivato al punto di «esplodere» e doversi fermare. Non perché la sua esperienza sia fuori dal comune, ma perché il percorso di formazione medica è piuttosto un sistema di disciplinamento e selezione del futuro corpo sanitario.
[Si viene] sottoposti a uno stress lavorativo, fisico ed emotivo, importante. Quindi dipende tutto dalle attitudini personali, da quanto sei prestante sotto questi punti di vista. Perché se sei una persona un pochino più fragile sicuramente ne risenti. Non è un posto per teneroni.
Nel rileggere le parole di Al Verde (nome di fantasia), 30 anni, medico specializzando in Chirurgia Generale, la sensazione è quella di trovarsi in un campo di addestramento militare, in cui il personale viene formato a «negare la vita» piuttosto che a «potenziarla» – per usare le parole di Michel Foucault.
L’estrema fatica lavorativa a cui è sottoposto il personale sanitario mette a rischio il loro benessere psico-fisico.
[Essere] specializzando ti espone a un carico di stress estremo. Io mi ricordo che c’erano dei periodi particolarmente stressanti in cui ero una persona di m****, completamente intrattabile. A volte capita di non riuscire a soddisfare neanche i bisogni basilari, fisiologici, tipo mangiare, andare in bagno a pisciare. L’anno scorso mi sono occluso perché non ho ca**to per tre giorni. Stavo tutti i giorni in quel ca*** di ospedale, dalle 8 alle 20. Tornavo a casa stramorto e mi buttavo a letto a dormire. Al quarto giorno mi sono occluso e ho dovuto fare un clistere… a 30 anni, mi sono fatto un clistere perché non riuscivo ad andare a cag***!
Francis Drake (nome di fantasia), 30 anni, medico specializzando in Medicina d’Emergenza-Urgenza, non usa troppi giri di parole nel condividere la propria esperienza di vita lavorativa invisibilizzata e precarizzata.
I medici in formazione specialistica sono costretti a turni lunghissimi. Questi non solo oltrepassano di gran lunga il monte ore previsto dal contratto di specializzazione, ma strabordano oltre ogni limite consentito per legge. Formalmente, le ore di formazione specialistica ammontano a trentotto ore settimanali (34 ore di formazione pratica più 4 ore di formazione teorica), suddivise in cinque giorni lavorativi, inclusi i week-end, così come le turnazioni notturne e le festività. «Però l’anno scorso facevo anche 10 ore al giorno, moltiplicato per 6 giorni…in pratica facevo 50-60 ore [a settimana] senza problemi». Come questo possa accadere è presto detto: «Perché non esiste rendicontazione. Dovremmo timbrare, ma non l’ha mai fatto nessuno di noi […] perché tanto non è che puoi dire ‘timbro e me ne vado’».
Alla mia domanda sul perché Jennifer (nome di fantasia), 29 anni, specializzanda in Malattie dell’Apparato Cardiovascolare, accetta di prestare – leggi, regalare – ore di servizio in più rispetto a quanto pattuito, la sua risposta è abbastanza eloquente:
Perché non c’è un’alternativa, non posso dire ‘no, io ho finito le 38 ore e basta’. Non si può fare, si è sempre fatto così e funziona così. E ipotizzando che qualcuno dica una cosa del genere, non sarebbe visto di buon occhio.
Questa esperienza di vita lavorativa disciplinata restituisce non solamente l’immagine di un luogo in cui regna un’estrema informalità, ma anche la sensazione di un ambiente di lavoro malsano, pressante, in cui si è soggetti a comportamenti persecutori – leggi, mobbing – da parte dei propri superiori.
Al Verde afferma di aver lavorato anche 100 ore settimanali:
[…] nel periodo in cui stavo nel reparto di Chirurgia Endocrina, dove iniziavo prima delle otto e finivo tutti i giorni oltre le undici. Mi è anche capitato di fare notte, senza monto né smonto. Fatti tu i conti…
«Fare notte senza monto né smonto» significa entrare in ospedale alle 8 di mattina e uscire alle 20 del giorno successivo. Tre turni di lavoro no-stop, incluso la guardia notturna. 36 ore consecutive di servizio, anche in questo caso, non formalizzate, che rendono Al Verde un invisibile che opera nelle sale dell’ospedale, in compagnia di tanti altri invisibili come lui.
La cosa incredibile è che, per esempio, noi specializzandi quando facciamo la notte dormiamo in una sorta di catapecchia. Addirittura una volta mi sono ritrovato senza la stanza e ho dovuto dormire su un lettino. Non il lettino dei pazienti ricoverati, ma il lettino rigido delle visite, senza cuscino e senza coperte.
Yasar Gill (nome di fantasia), 29 anni, medico specializzando in Neurochirurgia, quella notte è stato svegliato dai suoi colleghi di reparto per un’emergenza.
Calcola che la notte passata in ospedale sei reperibile. Il che significa che se ti chiamano, ti devi subito attivare per andare in pronto soccorso e in certi casi devi entrare in sala operatoria. Quindi in pochissimo tempo devi raggiungere un grado di concentrazione elevatissimo, e nonostante questo ti capita di dormire su un pezzo di legno.
Jennifer, Al Verde, Giulio, Isolano, Yasar Gill, così come tutte le altre e gli altri medici in formazione specialistica, percepiscono una borsa di studio del valore di 1.652 euro lordi al mese per i primi due anni, che aumentano a 1.718 euro lordi al mese per i successivi due o tre anni di specializzazione. A questa cifra vanno sottratti i contributi versati all’Enpam, ovvero l’ente previdenziale dei medici, l’iscrizione annuale all’ordine dei medici, oltre alle tasse universitarie che variano dai 2.000 ai 3.600 euro annui (equivalenti a due mensilità lorde) in base alla scuola di specializzazione. Questo significa che, in alcuni casi estremi ma non poco comuni come quello di Al Verde, un medico in formazione specialistica riceve un compenso orario di pochi euro (2-3) l’ora.
Mi è capitato di fare un conto rapido con mio padre recentemente. Se io dovessi sostenere da sola tutte le spese, quindi affitto, macchina con benzina e con assicurazione, assicurazione medica, tasse universitarie, Enpam… in alcuni casi non arriverei a fine mese. Non è una situazione normale questa.
C-17 (nome di fantasia), medico specializzanda in Chirurgia Generale, a 27 anni e con una laurea in Medicina e Chirurgia non riesce a vivere con la sola borsa di studio, ed è costretta a chiedere un sostegno economico ai propri genitori. In molti altri casi, chi non può ricevere un aiuto da terzi, si trova costretto o costretta a svolgere un secondo lavoro, spesso anche illegalmente.
Se faccio notte, la mattina o il pomeriggio dello stesso giorno mi metto le sostituzioni del medico di base come lavoretto in più; oppure altre cose tipo il medico di gara, anche se non è proprio legale farlo […] Teoricamente l’unica cosa compatibile con la specializzazione sono le sostituzioni del medico di base, i vaccini e la guardia medica.
L’illegalità a cui è costretta Beatrice (nome di fantasia), 31 anni, medico specializzanda in Malattie dell’Apparato Respiratorio, è l’altra faccia dell’invisibilizzazione. Non potendo smaterializzarsi, il corpo non-visibile esiste nello «stato di eccezione» – come scrive Giorgio Agamben – che è quello del fuori-legge. In alcuni casi, l’illegalità non è neanche una scelta, ma un’imposizione.
Potendo fare intramoenia all’interno dell’ospedale, per i medici strutturati è più facile includerci […] e farla diventare un’attività formativa come tutte le altre attività che noi facciamo. […] Nella maggior parte dei casi non ci mettono neanche nei referti operatori.
L’attività privata svolta all’interno delle strutture ospedaliere – la cosiddetta «intramoenia» – dovrebbe essere svolta dal medico-libero professionista al di fuori dell’orario di servizio e pagando di tasca propria il personale sanitario necessario per la specifica prestazione erogata. Questo sistema, tuttavia, è facilmente aggirabile e aggirato.
I medici strutturati, infatti, coinvolgono in questa loro attività privata i medici specializzandi che si trovano in turnazione, e che non si negano sebbene tale attività non rientri nel loro programma formativo, non venga remunerata, né tanto meno venga riconosciuta nel computo delle (tante) ore svolte in servizio nell’arco della settimana.
Non dico di no perché non mi va di dire no. Perché sento una sorta di pressione sociale, dell’ambiente, nel fatto che tutti lo fanno, che i medici si aspettano che tu lo faccia. Quindi anche io lo faccio.
Amanda (nome di fantasia), 27 anni, medico specializzanda in Chirurgia Generale, si reputa comunque più fortunata di altre colleghe e colleghi perché saltuariamente le è anche capitato di essere stata pagata a nero, sottobanco, in contanti, «anche centinaia di euro», dopo aver svolto illegalmente, su richiesta di un medico strutturato, attività intramoenia in un ospedale che fa parte della rete di aziende del Sistema sanitario nazionale.
Quelle riportate sopra sono solo una piccola parte di alcune esperienze di vite invisibilizzate e precarizzate. A renderle tali non è tanto il fatto di essere «giovani» (tutte le persone intervistate hanno tra i 27 e i 31 anni), né il fatto di non potersi permettere di avere famiglia e figli (nessuna delle persone intervistate immagina di averne a breve). Ciò che lega tra loro tutte queste vite è innanzitutto il fatto di scorrere non-visibili sotto i nostri occhi, costrette quotidianamente a resistere alla loro invisibilizzazione, cercando di non esplodere tra un’emergenza e l’altra nel tardo-capitalismo.
Sarà giunto il momento di guardarle negli occhi e ascoltarle?
Michele Campanaro è dottorando in Sociologia e Ricerca Sociale presso La Sapienza. Da Matera a Roma, lavora in ambito sindacale e studia la qualità della vita lavorativa nel tardo-capitalismo.
10/172024 https://jacobinitalia.it/
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