L’11 settembre, cinquant’anni dopo.

L’11 settembre ricorre l’anniversario del golpe in Cile contro il governo di Unidad Popular di Salvador Allende. Si trattò di un momento di attuazione del Plan Condor, ispirato alla dottrina Monroe, secondo cui gli Usa attraverso le dittature militari dovevano imporre la propria egemonia sul loro “cortile di casa”.

L’11 settembre ricorre il cinquantesimo anniversario di una data epocale, tragica e indimenticabile, quella dell’11 settembre 1973, quando un violento colpo di stato militare in Cile, sconvolgente per la ferocia con cui fu realizzato e per la dittatura militare cui diede corso, portò alla fine dell’esperienza di governo di Unidad Popular, una coalizione di partiti e movimenti di sinistra, che era stata democraticamente eletta nel 1970, e che era guidata da uno dei grandi leader storici della sinistra latino-americana, Salvador Allende. Una data, come si è detto, tragica e indimenticabile: per la violenza del golpe, diretto dalla cricca militare facente capo al generale Augusto Pinochet e ispirato, promosso e sostenuto dagli Stati Uniti; per la ferocia di una delle più dure dittature militari, elemento del cosiddetto “plan Condor”, dell’America Latina della seconda metà del Novecento; e, non meno significativo, per il portato che ebbe modo di sedimentare, per l’emozione e l’impatto che suscitò, per le implicazioni e le conseguenze che i tragici eventi cileni ebbero sul movimento democratico e socialista in generale, non solo nello scenario latino-americano. 

La forza d’urto degli eventi cileni può essere ricostruita sia sulla base del contesto storico all’interno del quale tali eventi maturarono, sia in relazione alla specificità cilena, alle motivazioni che portarono a un intervento così diretto e massiccio, funesto e violento, da parte degli Stati Uniti, per impedire lo sviluppo di un’esperienza storica e politica, quella del governo socialista e democratico di Salvador Allende, che poteva mettere seriamente in discussione l’egemonia statunitense nella regione e rinnovare la praticabilità di un’alternativa, avanzata e vitale, nel senso dei diritti e dell’emancipazione delle vaste masse popolari, sullo sfondo storico e politico dell’esperienza di Cuba socialista, nel subcontinente latino-americano. Quella che Salvador Allende, con la vittoria elettorale del 1970 e il governo di Unidad Popular tra il 1970 e il 1973, aveva intrapreso, rappresentava, infatti, un’originale esperienza di «via nazionale al socialismo», basata sulle caratteristiche e le specificità nazionali del Cile e alimentata dalle lotte e dalle istanze delle lavoratrici e dei lavoratori cileni: una via, al tempo stesso, democratica – in un Paese, il Cile, sino ad allora di riconosciute tradizioni costituzionali – e socialista, quindi orientata nel senso della programmazione democratica dell’economia; della nazionalizzazione dei comparti e delle risorse strategiche fondamentali, a partire dal rame; della riduzione della dipendenza dal capitale straniero e, segnatamente, statunitense; del miglioramento delle condizioni di vita delle masse popolari e di lavoratori e lavoratrici, in un contesto storicamente segnato da forti polarizzazioni e diseguaglianze sociali; e di rilancio di percorsi per la pace e la distensione internazionale. 

In un Paese, come si diceva, diffusamente caratterizzato da una rilevante polarizzazione e da forti diseguaglianze sociali, la guerra mediatica (attraverso la disinformazione e la propaganda) e la guerra economica (attraverso il sabotaggio e il blocco dell’economia cilena) sarebbero stati i principali strumenti dell’imperialismo per stroncare l’esperienza di Unidad Popular. I provvedimenti in ambito economico-sociale del governo di Unidad Popular andavano infatti, sin dal 1970-1971, nel senso di una più solida giustizia e di una più avanzata eguaglianza sociale: in primo luogo, la programmazione democratica, l’ampliamento del ruolo dello Stato nella direzione economica, il piano di nazionalizzazioni (rame, ferro, salnitro), la riforma agraria e l’aumento dei salari. La reazione delle destre politiche ed economiche si saldò in un’opposizione che sempre più abbandonava la via parlamentare e costituzionale e sempre più perseguiva invece il disegno eversivo della reazione e del sabotaggio: sul versante delle élite economiche, dei latifondisti, delle multinazionali e delle oligarchie, storicamente legate al grande capitale statunitense e occidentale, il sabotaggio della produzione e della distribuzione, il blocco degli approvvigionamenti, la guerra economica; sul versante dei ceti benestanti, della grande borghesia e di segmenti reazionari della burocrazia e degli apparati dello Stato cileno, i ripetuti tentativi di messa in stato di accusa del presidente Allende e una vasta mobilitazione reazionaria extra-parlamentare, prefigurando con essa, di fatto, l’involuzione eversiva e golpista. 

Lo scenario, cui si accennava all’inizio, all’interno del quale tale progetto eversivo, dopo il 1973, si sviluppa è quello passato alla storia con il nome di “plan Condor”: una rinnovata applicazione della “dottrina Monroe” (1823) attraverso la quale gli Stati Uniti affermavano la pretesa di imporre la propria egemonia, sia in termini di espansione imperialistica, sia in termini di comando politico, su quello che ritenevano il proprio “patio trasero”, il “cortile di casa”, l’America Latina; un’applicazione rinnovata attraverso una strategia di condizionamento, di sobillazione e di rovesciamento aggressivo, violento e sanguinoso, per il tramite di ingerenze e golpe, ai danni di governi eletti democraticamente, considerati ostili al dominio statunitense. Un piano messo in atto attraverso settori delle forze armate nazionali (la famigerata Escuela de Las Américas, a Panama, era la centrale di formazione degli apparati e delle élite antinsurrezionali ed eversive ridislocate nei Paesi latino-americani, e nella stessa Escuela de Las Américas circa il 18% degli ufficiali cileni aveva ricevuto un cosiddetto “addestramento antiguerriglia”) e giustificato dietro il paradigma ideologico della “sicurezza nazionale”, vale a dire della lotta contro l’avanzata del marxismo nel subcontinente, al prezzo di golpe, repressioni, violenze, torture, ed eccidi. Tra Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Paraguay, Perù e Uruguay, nella tragica scia eversiva degli anni Settanta e oltre, si contano infatti oltre 400.000 prigionieri, oltre 50.000 vittime e oltre 30.000 scomparsi (desaparecidos); nel solo Cile della dittatura militare, trascinatasi sino al 1990, si contano oltre 3.500 morti, 1.200 scomparsi (desaparecidos), ben 30.000 vittime di tortura.

Come la ricerca storica ha messo in luce (e conta sottolinearlo non solo ai fini della genealogia del progetto eversivo dell’imperialismo occidentale, ma anche in relazione alla morfologia del disegno autoritario intrinseco alla formazione economico-sociale del capitalismo del nostro tempo), il golpe cileno non è stato solo il segnale della torsione eversiva e violenta assunta dal disegno anticomunista perseguito dalle classi dominanti, ma è stato anche l’incubatore di qualcosa che potrebbe suonare alle nostre orecchie più familiare e (solo apparentemente) “inoffensivo”: il capitalismo neoliberista, o, più semplicemente, il “neoliberismo”. È nel Cile della dittatura militare, non a caso a partire proprio dal 1973, l’anno della crisi energetica, del varo dell’austerity e della definitiva liquidazione degli accordi di Bretton Woods e della definitiva cessazione del golden standard, è proprio nel Cile della dittatura militare, si diceva, che politici, analisti ed economisti della cosiddetta “scuola di Chicago”, ispirata dalle teorie monetariste di Milton Friedman, trovano il primo banco di prova in cui mettere in pratica le proprie teorie: riduzione, se non annullamento, della proprietà pubblica in ambito economico; ribaltamento del sistema fiscale per avvantaggiare, con una tassazione estremamente favorevole, grandi monopoli e investimenti esteri; privatizzazioni su amplissima scala; smantellamento dei diritti sindacali, delle protezioni sociali e della previdenza sociale, con incrementi della intensità di lavoro, riduzioni di salari e pensioni, abbattimento del welfare e dei servizi sociali; estesa privatizzazione della sanità e dell’istruzione; modifica, in senso fortemente autoritario e pesantemente regressivo, del diritto del lavoro. In cifre, un taglio della spesa pubblica del 50%, una crescita del tasso di disoccupazione al 22%, una caduta dei salari del 40%, un aumento al 40% della popolazione sotto la soglia di povertà. Liberismo, dunque, nella sua forma canonica, senza contrappesi, senza democrazia, e senza libertà, se non la libertà di proprietà e di sfruttamento, pagata al prezzo di un radicale, violentissimo, peggioramento delle condizioni di esistenza delle masse popolari. 

Al di là, dunque, dell’emozione e dell’impatto, ai quali si accennava all’inizio, che la vicenda cilena e gli eventi successivi hanno portato con sé, almeno due grandi questioni restano, in prospettiva storica e politica, di grande attualità, degli eventi cileni, per le forze democratiche. La prima è il nesso intrinseco tra quelle che potremmo definire “democrazia economica” e “democrazia politica”. Il caso cileno e l’intera vicenda latino-americana, sullo sfondo del “plan Condor”, tra la metà degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta, indica infatti che la torsione autoritaria e la limitazione, se non la cancellazione, degli spazi della democrazia politica (a tutti i livelli, in termini di partecipazione politica delle forze popolari e di massa e di rappresentanza politica delle forze sociali e del lavoro) sono il presupposto dell’imposizione di vere e proprie forme di comando economico e di disciplinamento sociale: l’imposizione del liberismo, l’esasperazione dello sfruttamento del lavoro, la privatizzazione di comparti fondamentali della produzione economica e dei servizi sociali, l’abbattimento del sistema di protezione sociale, la cancellazione dei diritti sociali e economici. Allo stesso modo, il liberismo e, in generale, il capitalismo nella sua modalità essenziale di funzionamento e di svolgimento stagliano un’ombra minacciosa sulla stessa democrazia politica: tanto il cosiddetto “involucro democratico” può costituire, in determinati momenti dello sviluppo storico e sociale, il contenitore adeguato, la forma politica privilegiata di realizzazione e di funzionamento del capitalismo, quanto la medesima democrazia, in altri momenti dello sviluppo sociale e storico, può costituire un ostacolo per la piena espressione delle forze e dei rapporti del mercato capitalistico, un ostacolo di cui fare, senza troppe perifrasi, senz’altro a meno. 

È una potente conferma, nel suo sviluppo propriamente dialettico, di ciò che scrissero Marx ed Engels, e cioè non solo, come è noto, che “la storia di ogni società esistita fino a questo momento è storia di lotte di classi”, ma, in particolare, che “sotto i nostri occhi, si svolge un moto analogo. I rapporti borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la società borghese moderna, che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate. Sono decenni, ormai, che la storia dell’industria e del commercio è soltanto la storia della rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione, cioè contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio” (Karl Marx, Friedrich Engels, Il Manifesto del Partito comunista, 1848). Nella precisa e rigorosa individuazione della tendenza storica e politica, la tesi segnala la centralità della lotta di classe e del conflitto sociale nella definizione della traiettoria e della prospettiva politica e riporta l’attenzione sul protagonismo della soggettività sociale e di classe nel processo di trasformazione e, prima ancora, nella difesa degli spazi e delle condizioni di agibilità democratica, e nell’avanzamento della democrazia. 

La seconda grande questione si staglia sul presente e veicola i contenuti, di grande attualità, della “lezione cilena”, che ha dato corso, dalla fine degli anni Settanta, a riflessioni, in prospettiva, divergenti tra l’Europa occidentale e l’America latina. In Italia, ad esempio, la riflessione sui tragici eventi cileni è stata la base degli orientamenti strategici, assunti dalla segreteria di Enrico Berlinguer del Partito Comunista Italiano, condensati nella formula del “compromesso storico” e volti a riorientare la prospettiva non nel senso dell’accumulo di forze, della crescita del radicamento e dell’estensione dell’organizzazione politica del proletariato, dell’avanzata, su base di massa e in forza di un’efficace e matura egemonia, del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici, per costruire, intorno al PCI, le condizioni per giungere, nel quadro costituzionale, al governo del Paese, bensì nel senso della mediazione e del compromesso tra gli attori politici principalmente rappresentativi delle masse popolari del Paese, cioè del “compromesso storico tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano”.

Una prospettiva che si sarebbe rivelata, per il movimento comunista nel nostro Paese, sterile; lontana, in ogni caso, dalla risposta agli eventi degli anni Settanta e Ottanta che è stata invece elaborata e sviluppata in America latina. Qui, la ripresa della lezione di Lenin e di Gramsci; della centralità dell’egemonia; del ruolo della soggettività rivoluzionaria; di una nuova centralità del soggetto sociale, dei lavoratori e del movimento di massa in generale; ma anche l’innesco di una dinamica di lotta e di partecipazione, di conflitto e consenso, e la costruzione di nuovi organismi di lotta politica, oltre che il recupero e la riscoperta degli antecedenti storico-politici (da Simón Bolívar, a José Martí, a José Carlos Mariátegui), passando per l’incontro tra le tendenze politiche e le costruzioni ideali più avanzate presenti nella società (dal patriottismo progressista alla teologia della liberazione, dalle culture originarie all’ecologismo radicale), hanno concorso a gettare nuove basi per l’avanzamento delle forze democratiche e socialiste, progressiste e rivoluzionarie, inaugurando un nuovo laboratorio «socialista e bolivariano», i cui sviluppi sono, tuttora, ampiamente in cammino. 

Bibliografia:

[1] Fondazione Feltrinelli, “Cile 1973: Da Allende alla dittatura nei documenti di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli”.

[2] Maria Rosaria Stabili, Cile 1970‐1973. Allende, la Unidad Popular, il golpe, RiMe – Rivista dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea, numero 14, giugno 2015, DOI:10.7410/1165. 

[3] Ilaria Romeo, “L’Unidad Popular di Salvador Allende: il popolo unito non sarà mai vinto”, Collettiva, 4 settembre 2021.

[4] Ilaria Romeo, “Pinochet e i suoi aguzzini: basta impunità”, Collettiva, 9 luglio 2021.

[5] Enrico Berlinguer, Riflessioni dopo i fatti del Cile – Alleanze sociali e schieramenti politici, «Rinascita», numero 40, 12 ottobre 1973.

[6] Marco Bersani, “Cile. Quasi 50 anni di liberismo”, Comune-Info, 1 novembre 2019.

[7] “Berlinguer sottovalutò tre nemici: borghesia reazionaria, Usa e Urss”, Intervista di Piero Sansonetti a Pietro Ingrao, «Il Riformista», 12 Giugno 2022.

Gianmarco Pisa

8/9/2023 https://www.lacittafutura.it/

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *