LA CIVILTA’ IDIOTA

La civiltà idiota

A chi mi chiedesse con quale autorità discorro di questioni sotto le quali piegano gli scaffali delle biblioteche di storia e sociologia rispondo che non sono questioni specialistiche perché investono i destini generali.

Franco Fortini

La piccola contrada degli intellettuali e dei letterati non è molto diversa da quel restante grande mondo, dove avvengono le tante nefandezze che la piccola contrada biasima senza sosta. Anche tra intellettuali e letterati, nonostante valga un generico proclama di libertà e irriverenza, ci confrontiamo ogni giorno con le vigliaccherie, gli opportunismi, le sconfinate ambizioni che si concentrano su traguardi risibili. Basta aver avuto un’esperienza di lavoro in un’università per rendersi conto di cosa ciò voglia dire. Non è solo un problema di tempi terribili, di annunciate e perseguite, con ampia complicità, catastrofi neoliberiste. No, vi è anche una più elementare faccenda, una maggiore o minore tolleranza al sopruso, all’umiliazione, all’ipocrisia, alla demenza istituzionale. È insomma una faccenda etica, anche di affetti quindi. Ho ammirato a lungo, proprio sui banchi universitari, l’intelligenza; l’ho ammirata e desiderata, mi sono attrezzato per poterla esercitare nel luogo stesso in cui veniva esaltata e glorificata. Ho visto l’intelligenza critica e umanistica al lavoro, e da vicino, nei contesti dove essa prende piede dentro intrecci istituzionali, ambienti morali, scuotimenti politici. L’iniziale bovarismo, che me la faceva considerare una leva privilegiata per cambiare e migliorare il mondo, ha avuto molteplici occasioni di disincanto. Spesso il disgusto per i contesti concreti, dove essa doveva essere valorizzata e incoraggiata, ha rischiato di divenire disgusto per quell’intelligenza stessa e per tutta la sua strumentazione concettuale. Mi è apparso poi chiaro che il problema di una sorta di “neutralizzazione” dell’intelligenza, nel momento stesso in cui viene celebrata ed esercitata, va ben al di là della crisi reale e storica dell’istituzione universitaria, crisi che ormai anche i suoi più pragmatici e “realisti” difensori sono costretti a riconoscere.

Nell’Uomo senza qualità, Musil fornisce all’inizio degli anni Trenta una profondità antropologica a questo problema, formulandolo in questi termini: “com’è possibile che una gran quantità d’individui straordinariamente intelligenti finiscano per produrre, una volta riuniti assieme, qualcosa di perfettamente mediocre?” Ma questa domanda può anche essere perfettamente rovesciata: “com’è possibile che da un insieme di persone mediocri possa nascere qualcosa di geniale?” La natura paradossale del rapporto tra intelligenza e idiozia ha poi spinto Musil a interrogarsi anche – come già fece Freud – su come l’uomo possa trasformare in civiltà e grandezza morale le sue pulsioni più basse e distruttive, e viceversa. Nel corso di tutto il Novecento diversi autori si sono dovuti far carico nuovamente di questi paradossi, ridefinendoli sotto la spinta di precisi eventi catastrofici. Hannah Arendt si è chiesta come un uomo non particolarmente crudele o sadico, un mediocre funzionario di Stato, potesse rendersi responsabile di crimini atroci nei confronti di milioni di persone. Günther Anders si è chiesto come una persona sana di mente e dalla condotta mediamente responsabile abbia la facoltà, quando lo ritenesse opportuno, di compiere con estrema facilità azioni folli e irresponsabili dalle conseguenze distruttive per un numero incalcolabile di persone. Ivan Illich si è chiesto perché la crescita dei saperi specialistici e del numero di esperti in grado di agire nelle istituzioni delle società più sviluppate corrisponda a un’impotenza generalizzata nei confronti dei problemi più gravi che assillano la nostra epoca. In apertura di un saggio del 1977, intitolato Professioni disabilitanti, Illich scriveva:

Propongo di chiamare la seconda metà del Ventesimo secolo l’“Era delle Professioni Disabilitanti”: un’epoca nella quale le persone avevano dei “problemi”, gli esperti possedevano delle “soluzioni” e gli scienziati misuravano realtà sfuggenti quali le “abilità” e i “bisogni”. Quest’era volge ora al termine, proprio come si può dire che sta già terminando l’era degli sprechi energetici. Le illusioni alla base di entrambe queste epoche risultano sempre più chiare a tutti, tuttavia non è ancora stata presa nessuna contromisura da parte delle istituzioni. L’accettazione acritica da parte della gente dell’onniscienza e dell’onnipotenza dei professionisti può sfociare in dottrine politiche autoritarie (con possibili nuove forme di fascismo) o in un’ulteriore esplosione di follie neoprometeiche ma essenzialmente effimere(1).

Uno dei fili conduttori degli interventi qui raccolti credo sia la diffidenza, lo scetticismo e persino una forma d’insolenza nei confronti degli esperti e del modo in cui essi usano i saperi. Qui autobiografia e storia si toccano. Da un lato, ho compiuto in prima persona, nell’ambito specifico degli studi umanistici, il percorso di specializzazione istituzionale, fino all’esperienza dell’insegnamento accademico in qualità di docente precario in un’università di Parigi. Dall’altro, sono stato come tutti testimone di uno degli eventi più importanti di inizio secolo, la crisi finanziaria che si è manifestata nel 2007 negli Stati Uniti per poi abbattersi, con conseguenze tutt’ora decisive per le nostre vite, sull’Europa negli anni immediatamente successivi. Fin da subito, ho cercato di armarmi di strumenti e documentazione sufficienti per comprendere natura e svolgimento di tale crisi, leggendola non solo nell’ottica marxista, che la inquadra in una serie storica ampia come l’ennesima crisi prodotta dalle contraddizioni interne al sistema capitalistico, ma interpretandola anche in termini “morali”, come crisi di un certo “spirito del capitalismo” e di una certa serie di figure professionali avventurose, affascinanti, autorevoli – gli amministratori delegati, gli economisti, i broker, i manager – che dagli anni Novanta del secolo scorso hanno dominato l’immaginario di una larga fetta della popolazione mondiale.

L’esito più sorprendente di questa crisi sistemica è che essa sembra non aver fornito ai nemici del capitalismo, o alle sue vittime, armi sufficienti, perché alle critiche pubbliche rivolte al sistema seguissero campagne d’opinione e provvedimenti politici efficaci, in grado d’incidere in termini sia culturali sia legislativi sulle istituzioni nazionali e internazionali che quella crisi hanno reso possibile. Le grandi illusioni sono crollate (la crescita illimitata, l’arricchimento dei pochi che favorirà il progresso sociale dei molti, ecc.), ma il tempio nel quale si veneravano sembra rimasto intatto, nonostante le scosse sismiche che ancora lo bersagliano. D’altra parte, lo “spirito del capitalismo” – e il credo neoliberista che lo sostanzia – non può essere inteso come un semplice discorso di propaganda, veicolato nel resto della società da un élite cinica e disincantata. Esso funziona piuttosto – come sostiene tra gli altri Emmanuel Todd(2) – come un dogma religioso o una patologia di tipo psichiatrico, ossia come un meccanismo derealizzante, che s’impone ostinatamente al di là del numero sempre maggiore di controprove empiriche. E la stessa maggioranza di persone, che subisce sulla propria pelle l’impatto diretto di queste controprove, abbandona con una certa fatica l’idea che coloro che dirigono gli Stati, e coloro che forniscono ad essi il sapere tecnico per farlo – e che sono persone dalle magnifiche carriere professionali e scientifiche, ai vertici di grandi aziende e istituzioni nazionali, che insegnano da cattedre universitarie di grandissimo prestigio, e tutti quanti glorificati da stipendi straordinari – tendano ad agire ciecamente, irresponsabilmente, cretinamente.

In realtà, vi è una sorta di disaffezione e di rifiuto crescente nei confronti delle istituzioni politiche sia nazionali che internazionali. In questi anni, anche limitando l’orizzonte all’Europa e al Nord America, sono nati movimenti di contestazione un po’ ovunque, movimenti extraparlamentari ma anche movimenti che si sono dati una forma parlamentare. Nello stesso tempo si è assistito alla crescita dell’astensionismo e al successo elettorale di partiti populisti di destra e di estrema destra. In un tale paesaggio di perdurante e conclamata crisi della rappresentanza politica, che è stata aggravata dalle politiche economiche imposte dalla Commissione Europea contro la volontà politica degli Stati sovrani, è sorprendente notare come ancora in Francia e in Italia gli opinionisti moderati siano pronti a tacciare di populismo e di alleati oggettivi dell’estrema destra tutte quelle espressioni di scetticismo e rivolta nei confronti delle finte alternative politiche proposte dagli attuali sistemi parlamentari. Ci troviamo così di fronte a una situazione paradossale: coloro che strenuamente condannano il populismo “di destra e di sinistra”, denunciandolo come una minaccia nei confronti della democrazia, sono anche coloro che sostengono un sistema parlamentare, in cui i margini di manovra propriamente politici si sono nel tempo ridotti, sia a destra che a sinistra, a pura cosmesi dell’esistente, ossia dei rapporti di forza in campo tra una minoranza di soggetti forti (i detentori di capitale e le grandi aziende) e una maggioranza di soggetti deboli (la restante base sociale). In tutta questa faccenda, i saperi non hanno giocato una partita neutra. Si leggano questo righe del sociologo francese Luc Boltanski, tratte da un saggio del 2009, De la critique. Précis de sociologie de l’émancipation. Esse illustrano in modo chiaro, da un punto di vista storico, il progressivo intreccio tra tecnocrazia e oligarchia, nel corso dell’offensiva neoliberista che data, nelle democrazie occidentali, dall’inizio degli anni Ottanta.

In questo paesaggio, l’arrivo delle scienze sociali e, soprattutto, dell’economia ha avuto come effetto di modificare considerevolmente il compromesso instaurato a partire dalla grande separazione tra una (grande) scienza e una (piccola) politica, riducendo ancora di più il campo di quest’ultima. Alla rivendicazione critica di “tutto è politico” – che ha segnato la nostra giovinezza (ma già con un carattere reattivo) – ha risposto – in maniera vieppiù chiassosa col passare del tempo – l’affermazione secondo cui tutto è scientifico, ossia riservato all’autorità degli esperti. Si può osservare in questo scivolamento da una definizione della politica fondata su un compromesso tra, da un lato, dei rappresentanti del popolo investiti del ruolo di portavoce e, d’all’altro, degli esperti che si richiamano all’autorità della scienza, a una definizione della politica quasi interamente subordinata al potere della perizia, un autentico mutamento di regime politico e un nuovo modo di dominazione.(3)

I saperi costituiscono uno dei principali terreni di conflitto, per chi voglia ancora difendere l’idea di un processo di emancipazione, che porti la società verso forme più sostanziali, e quindi partecipate e più giuste, di democrazia. La critica e la diffidenza nei confronti dello specialismo non è certo rifiuto dei saperi specialistici, ma richiesta di una loro condivisione ampia, attraverso un continuo confronto con le condizioni reali dell’esistenza della maggioranza delle persone. Non è sufficiente ricordare quanto gli strumenti di analisi e comprensione della realtà debbano crescere e svilupparsi entro una sfera protetta e autonoma, rispetto alle interferenze del mondo politico, morale, religioso. Bisogna anche riconoscere che una tale autonomia non potrà mai essere assoluta, in quanto gli strumenti di conoscenza sono sempre elaborati a partire da esigenze storiche e sociali precise, ed è nei confronti di quelle esigenze che essi devono misurare la loro efficacia e adeguatezza. Le persone comuni, allora, devono essere in grado, in base ai propri bisogni, di rivolgere domande specifiche agli specialisti, determinando almeno in parte l’agenda delle priorità nell’ambito della ricerca. I saperi, oggi, sono invece intercettati da soggetti forti, che li piegano e usano secondo i propri interessi di controllo sociale o di profitto economico, premiando abbondantemente chi li ha prodotti. Ma immaginare un uso più democratico dei saperi non significa solo, ad esempio, denunciare il primato degli economisti “ortodossi” in ambito universitario, per favorire una pluralità di orientamenti e metodi disciplinari nell’ambito della teoria economica. Un secondo obiettivo fondamentale dovrà essere quello di trovare adeguate forme di diffusione e divulgazione di quegli strumenti teorici in grado di proporre alle persone strategie e pratiche potenzialmente alternative a quelle imposte dall’attuale organizzazione capitalistica. Quest’opera di diffusione e divulgazione non è qualcosa di dato automaticamente, come naturale conseguenza dell’elaborazione, in un ambito specialistico, di un determinato sapere. Tale sapere, per sofisticato che sia, rischia di avere una portata critica limitatissima nei confronti del mondo storico, finché rimane confinato nel campo separato della ricerca universitaria e non entra a far parte di una visione largamente condivisa delle cose. Il passaggio dalla cerchia ristretta degli esperti a quello di una base sociale allargata va costruito pezzo per pezzo, ed è una costruzione a cui ognuno deve partecipare, attraverso i propri strumenti espressivi, la propria condizione sociale, la propria comunità o rete di rapporti interpersonali. Questo passaggio, inoltre, non si realizza in una sola direzione, dall’alto verso il basso, secondo una concezione tradizionale della divulgazione scientifica. Esso implica un movimento inverso, dal basso verso l’alto, attraverso cui la massa di non esperti integrino nella propria esperienza di corpo senziente e immaginante elementi d’ordine intellettuale. Nella storia novecentesca del movimento operario sono stati soprattutto i partiti e le organizzazioni sindacali ad assumersi questo ruolo di mediazione tra il territorio della teoria e quello della prassi. Oggi non esistono più organizzazioni collettive in grado di garantire questo passaggio, anche perché partiti operai e sindacati sono stati criticati per il loro carattere gerarchico e burocratico già a partire dalla fine degli anni Sessanta dagli stessi soggetti sociali che in essi avrebbero dovuto riconoscersi. D’altra parte, sebbene le singole prassi, ossia le diverse e concrete esperienze di militanza politica o associativa, producano ovviamente delle forme corrispondenti di sapere, la complessità del mondo storico e sociale non può essere fronteggiata senza fare riferimento anche a strumenti intellettuali che esulino dalla propria esperienza diretta.

Gli interventi qui raccolti sono stati scritti prevalentemente durante i primi quattro anni di esistenza di “alfabeta2”, rivista che ho contribuito a far esistere fin dalle sue fasi iniziali, lavorando nel comitato di redazione su invito di Nanni Balestrini. Al di là del generico impegno redazionale, i miei contributi specifici si sono caratterizzati per questo lavoro di “appropriazione” dei saperi, muovendo da una condizione di non esperto. Ho precisato come il lavoro di “appropriazione” non avvenga a partire da una situazione indeterminata e neutra, ma sotto la spinta di alcuni eventi che vengono considerati come cruciali e che mobilitano intorno ad essi curiosità, energie intellettuali, lavoro di memoria e immaginazione. In quanto scrittore, scrittore di poesia soprattutto, ma anche in quanto critico letterario, mi pare indispensabile intervenire nel paesaggio ideologico e culturale dominante non per ottenere rispetto ad esso una qualche esteriorità scientifica, ma per costruire nelle sue pieghe delle visuali alternative, più articolate, più nitide. Questo non lo ritengo possibile, limitandomi a parlare di ciò che davvero mi “riguarderebbe”, ossia le forme, il vocabolario, la sintassi della poesia contemporanea. Tanto meno credo utile veicolare attraverso il testo poetico (o più generalmente letterario) verità o principi d’ordine sociologico e politico. Credo, infatti, come Fortini, che l’opera d’arte come la letteratura siano, nel migliore dei casi, artifici intempestivi rispetto al discorso e all’agire politico(4). Ma mi sembra inevitabile creare una tensione tra l’elemento utopico, che la scrittura letteraria veicola nella sua ossessione formalizzante, e il paesaggio storico, contraddittorio e mutevole, che essa vorrebbe sondare e, nel contempo, oltrepassare. Il lavoro saggistico, che qui viene presentato, nasce da una sorta di prova del reale, attraverso cui, parallelamente alla presunzione di costruire un’opera, si misura la propria scrittura con l’opacità degli eventi contemporanei, per costruire tessuti d’intelligibilità condivisa, senza la quale non vi può essere né speranza né agire comune.

La civiltà idiota. Saggi militanti

Valigie Rosse, 2018, 152 pp., € 15

è possibile acquistare questo libro sul sito dell’editore [https://www.valigierosse.it/prodotto/la-civilta-idiota/] e su Ibs.it [https://www.ibs.it/civilta-idiota-saggi-militanti-libro-andrea-inglese/e/9788898518210]

Note

  1. Ivan Illich e alltri, in Esperti di troppo. Il paradosso delle professioni disabilitanti, Erickson, Gardolo, 2008, p. 27.

  2. Emmanuel Todd, Après la démocratie, Gallimard, Paris, 2008.

  3. Luc Boltanski, De la critique. Précis de sociologie de l’émancipation, Gallimard, Paris, p. 185, traduzione mia. Oggi in traduzione italiana: Della critica. Compendio di sociologia dell’emancipazione, Rosenberg & Sellier, Torino, 2014.

  4. “(La) più dissacrata e dissacrante, umile, fabbrile opera d’arte appare, grazie alla propria conclusione, come un artificio ‘caricato a valori’ che sempre e in ogni caso allude silenziosamente a qualcosa, ad un possibile che non solo non è mai identico al possibile avvenire del politico ma che non di rado gli è, nel senso più preciso della parola, intempestivo.” In Franco Fortini, Verifica dei poteri [1965], Garzanti, Milano, 1974, p. 111.

14/10/2017 www.alfabeta2.it

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