La crescita dei Neet ora fa paura

n due testi preziosi scritti a distanza di dodici anni, L’epoca delle passioni tristi (Benasayag, Schmit 2003) e Oltre le passioni tristi (Benasayag, 2015), il filosofo e psicoanalista franco-argentino Miguel Benasayag ha indagato la crescita della sofferenza psichica contemporanea, individuale e collettiva, che riguarda in particolare i giovani. Uno scenario distruttivo quanto complesso dominato da utilitarismo, competizione, consumismo precipita ogni giorno di più e in diversi modi su bambini, ragazzi e i giovani, favorendo la diffusione di impotenza, incertezza, disgregazione, solitudine. Del resto la fede nel progresso è stata ormai sostituita dal futuro cupo: uscire dalle passioni tristi resta molto complicato. Per questo qualsiasi idea di società diversa, qualsiasi intervento di nuovo welfare, qualsiasi sperimentazione di scuola differente, ma anche qualsiasi percorso di autogestione dal basso di spazi sociali e culturali dovrebbe tentare di ribaltare prima di tutto questo orizzonte.

Uno dei fenomeni che conferma la crescita difficile dei più giovani è quello dei Neet, coloro che non lavorano e non sono impegnati in percorsi di istruzione o formazione. L’acronimo Neet (Not in Education, Employment or Training) è apparso per la prima volta in una ricerca condotta nel Regno Unito alla fine degli anni Novanta. In Italia è divenuto oggetto d’interesse nel 2008, anno dell’inizio della crisi economica. Per Neet si intende la quota di popolazione in età compresa in diverse classi variabili (15-24, 15-29 o 15-34 anni), né occupata né inserita in un percorso di istruzione o formazione (formale e non formale), in quanto tale il concetto comprende sottogruppi molti diversi tra loro.

All’universo dei Neet è dedicato un progetto promosso da UNICEF Italia, dal titolo Neet Equity, che include una ricerca (di cui questo articolo riporta alcuni dati, la ricerca completa – con un interessante focus su tre territori: Napoli, Taranto e Carbonia – è su unicef.it).

Chi sono i Neet

Dagli ultimi dati ISTAT, nel 2018, in Italia, i Neet nella fascia d’età 15-29 anni sono pari a 2.116.000 (23,4 per cento). Già nei primi anni di studio del fenomeno, l’Italia presentava livelli più elevati della media europea (18,8 per cento nel 2007 contro 13,2 per cento Ue); il fenomeno è poi aumentato durante gli anni della crisi raggiungendo il massimo, vale a dure 26,2 per cento, nel 2014. Nonostante questa flessione, l’Italia continua a posizionarsi al primo posto nella graduatoria europea seguita da Grecia, Bulgaria, Romania e Croazia. Invece i paesi con il tasso di Neet più contenuto al momento sono Paesi Bassi (5,7 per cento), Svezia e Malta.

Dei 2.116.000 Neet italiani il 47 per cento ha un’età tra i 25-29 anni, il 38 per cento 20-24 anni e il restante 15 per cento 15-19 anni. La condizione di Neet si divide equamente tra donne e uomini. Per quanto riguarda il grado di istruzione la maggior parte dei Neet ha conseguito il diploma di scuola secondaria superiore (49 per cento), ma un’altra importante parte, pari al 40 per cento, è occupata da soggetti con livelli di istruzione più bassi, mentre i laureati sono l’11 per cento. Il 14,5 per cento dei giovani Neet è straniero. La maggior percentuale di questi giovani è concentrata nel Mezzogiorno: nel Nord Italia i Neet sono il 15,5 per cento dei giovani, nel Centro il 19,5 per cento e nel Sud si arriva al 34 per cento: le Regioni nelle quali si registra una maggiore presenza sono Sicilia (con un’incidenza del 38,6 per cento sulla popolazione), Calabria, Campania, Puglia e Sardegna.

Benessere equo e sostenibile

Molto interessanti a riguardo sono anche i dati riguardanti l’istruzione e la formazione secondo la lettura del “Benessere equo e sostenibile”, un sistema di misurazione della qualità della vita elaborato da Istat e CNEL con l’obiettivo di valutare il progresso della società non solo dal punto di vista economico, ma anche sociale e ambientale. L’indice composito è formato da numerosi indicatori: partecipazione alla scuola dell’infanzia, persone con almeno il diploma, laureati e altri titoli terziari, passaggio all’università, uscita precoce dal sistema di istruzione e formazione, giovani che non lavorano e non studiano, partecipazione alla formazione continua, competenza alfabetica degli studenti, competenza numerica degli studenti, competenze digitali, partecipazione culturale(Istat, 2018). Nel 2017 tale indice segna una flessione rispetto gli anni precedenti. Nel confronto si può notare come ci sia un miglioramento al Nord mentre si assiste a un peggioramento al Centro e in misura più marcata al Sud e isole. Rispetto al 2016 gli indicatori che segnano il peggioramento sono: uscita precoce dal sistema di istruzione e formazione, partecipazione alla formazione continua e partecipazione culturale, mentre rispetto al 2010, il 2017 presenta un quadro complessivamente in miglioramento ma si evidenziano tre indicatori in peggioramento: partecipazione alla scuola dell’infanzia, partecipazione culturale e giovani che non lavorano e non studiano. Nel 2017 le uscite precoci dal sistema formativo risultano in aumento: i giovani di 18-24 anni con la licenza media che non risultano inseriti in un percorso di istruzione o formazione sono il 14 per cento. Il dato che più risalta è l’aumento dello svantaggio del Mezzogiorno sia rispetto al numero di laureati nella fascia d’età 30-34 anni (21,6 nel Sud, Nord e Centro 30 per cento), sia rispetto al numero di diplomati nella fascia d’età 25-64 anni (Sud 52,5 per cento, Nord 67,4 per cento e Centro 64,5 per cento).

Piuttosto significativi anche i dati sul lavoro minorile in Italia: secondo un’indagine nazionale del 2013 promossa da Fondazione Di Vittorio (CGIL) e Save the Children, le persone tra 7 e 15 anni che hanno avuto qualche esperienza di lavoro sono circa 340.000. A favorire il lavoro precoce non sono tanto le condizioni economiche familiari quanto più un insieme di risorse immateriali (percezioni, convinzioni, motivazioni) che formano un clima familiare meno propenso a investire sull’istruzione. Per altro, l’insuccesso scolastico è più diffuso proprio tra i minori con una qualche esperienza di lavoro.

Giovani e politiche pubbliche

Del resto una delle conseguenze della crisi e più in generale dai processi di riduzione dell’intervento pubblico avviati dagli anni Ottanta è il taglio agli investimenti riguardanti le politiche giovanili e l’educazione: giustificati da una scelta politica di spending review i tagli hanno colpito in particolare la generazioni degli young adults nati tra il 1975 e il 1985. Nella ricerca di Marina Mastropierro Che fine ha fatto il futuro? (sottotitolo Giovani, politiche pubbliche generazioni) emerge come in Italia, a differenza del resto dell’Europa, solo poco più della metà dei laureati riesce a trovare un impiego a tre anni dalla laurea e come circa 7 milioni di giovani tra i 15 e i 34 anni non lavorano. Se si considerano i numeri sul lavoro precario il quadro si complica in modo esponenziale (Mastropierro, 2019).

I dati OCSE mostrano invece come l’Italia dal 1995 al 2010 abbia investito molto meno degli altri paesi nei settori che riguardano bambini, ragazzi e giovani: nel 1995 la spesa per l’istruzione rappresentava il 4,85 per cento del PIL, nel 2000 il 4,52 per cento, mentre nel 2014 c’è stata un’ulteriore riduzione al 4 per cento. (Gruppo di lavoro CRC, 2017)

Lo scenario di fondo della società italiana degli ultimi dieci/quindici anni, il periodo durante il quale si è diffuso il fenomeno dei Neet, resta segnato da alcuni elementi: la crisi economica, la mancanza e la progressiva riduzione degli interventi della politica istituzionale, la radicata povertà economica e sociale (già presente prima della crisi del 2008) di un alto numero di nuclei familiari. Al tempo stesso, secondo la ricerca UNICEF Italia i soggetti vulnerabili che hanno più probabilità di rientrare nelle fila dei Neet risultano essere: persone con disabilità; giovani donne (a causa di un più difficile ritorno nel mondo del lavoro dopo la gravidanza); migranti; persone con un basso livello di istruzione; cittadini residenti in aree depresse; persone con situazioni familiari precarie (reddito familiare basso, genitori che sono stati disoccupati o con un basso livello di istruzione, contesti familiari difficili…).

Certo, intorno al concetto di Neet ci sono limiti su cui si dovrebbe ragionare a lungo: il rifiuto della formazione, ad esempio, è anche un grido contro un modo di fare scuola (che si dimostra spesso escludente verso i più deboli, poco capace di stabilire ritmi personali e di favorire coinvolgimento…), così come la non-ricerca di un’occupazione è al tempo stesso il rifiuto di un lavoro sempre più alienante e precario. Alcune ricerche dedicate ai Neet hanno però il grande merito di mettere per una volta al centro il mondo e il punto di vista dei più giovani: qualsiasi idea di trasformazione sociale ha bisogno di uno sguardo diverso sul mondo, a cominciare da quello dei ragazzi e dei giovani.


I testi e i siti cui si fa riferimento in quest’articolo sono:

Levi Primo (1986), I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino.

Benasayag Miguel e Schmit Gérard (2003), L’epoca delle passioni tristi (Feltrinelli, Milano).

Benasayag Miguel (2015), Oltre le passioni tristi, Feltrinelli, Milano.

Istat (2018), BES 2018, il benessere equo sostenibile in Italia, Roma

Mastropierro Marina (2019),Che fine ha fatto il futuro?, Ediesse, Roma.

Gruppo di lavoro CRC, Terzo rapporto Supplementare alle Nazioni Unite sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia (2017).


Annarita Sacco

Sociologa

Questo testo è stato scritto per il Rapporto Diritti Globali 2019 Cambiare il sistema

12/4/2020 https://comune-info.net

Foto di Luis Gesell, tratta da Pixabay

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