La disperata realtà di un chirurgo a Gaza

L’European Hospital di Gaza è invaso da nuovi pazienti che affluiscono al Pronto Soccorso dopo ogni bombardamento. Mohammed Talatene/picture-alliance/dpa/AP

di Tim Goodacre

Financial Times, 26 febbraio 2024. 

Ora capisco perché le famiglie sotto attacco si raggruppano, per poter vivere o morire insieme.

Chi scrive è un consulente chirurgo plastico e ricostruttivo ed ex vicepresidente del Royal College of Surgeons of England che si è recato a Gaza con l’organizzazione benefica IDEALS.

All’inizio di questo mese stavo operando una ragazza di 17 anni rimasta orfana durante un attacco aereo a Gaza. Sotto teli da sala operatoria improvvisati usando camici chirurgici e con una lama di bisturi pericolosamente fissata ad una pinza per mancanza di manici sterilizzati, ho cercato invano di asportare i tessuti crivellati dalle schegge. Sapevo che in queste condizioni l’infezione era molto probabile; qualche giorno dopo le amputammo la gamba.

I quindici giorni trascorsi come chirurgo volontario presso l’Ospedale Europeo di Gaza vicino a Khan Younis, di fatto l’ultima struttura sanitaria funzionante nel sud della Striscia di Gaza, sono stati come mai avevo sperimentato. Ho visitato per la prima volta la Striscia occupata 10 anni fa, durante l’Operazione Protective Edge – il conflitto militare israeliano con Hamas del 2014 – insegnando e formando i colleghi locali alle tecniche di chirurgia ricostruttiva. All’epoca rimasi stupito dalle brutali ferite dei miei pazienti, ma nulla avrebbe potuto prepararmi all’entità del collasso umanitario che si registra oggi a Gaza.

L’ospedale che conoscevo un tempo era irriconoscibile, nascosto dietro un’enorme folla di persone venute a cercare rifugio nel complesso. I corridoi e le scale erano pieni di famiglie di rifugiati; bambini di tutte le età correvano in ambienti poco illuminati. Il Pronto Soccorso era una scena di caos a malapena organizzato che si riempiva di nuovi pazienti dopo ogni bombardamento.

Nonostante gli sforzi dei colleghi locali, l’assistenza chirurgica si è deteriorata in modo devastante. La maggior parte degli aspetti della “tecnica asettica” – il metodo sterile di chirurgia e cura delle ferite descritto per la prima volta da Florence Nightingale durante la guerra di Crimea – era stata abbandonata per mancanza di attrezzature adeguate. Mi stupì il fatto che la spina dorsale della chirurgia sicura, che era stata praticata in ogni conflitto, dalle trincee della Prima Guerra Mondiale all’Afghanistan, si fosse completamente disintegrata.

© Tim Goodacre

Senza un’adeguata sterilizzazione, i pazienti non sopravvivono, indipendentemente dall’abilità del chirurgo. E anche se fosse stato possibile un intervento chirurgico efficace, l’ospedale avrebbe potuto a stento fornire assistenza post-operatoria, date le strutture ridotte al minimo di terapia intensiva e la carenza di medici esperti per gestire il follow-up. Di conseguenza, le infezioni delle ferite sono generalizzate e gravi.

Il numero dei morti a Gaza, attualmente stimato in oltre 29.000, è già abbastanza scioccante. Ma l’entità delle ferite che cambiano la vita, dalle ustioni alle schegge incastrate e agli arti persi, è assolutamente sconcertante. Ho capito perché le famiglie senza rifugio si raggruppano quando sono sotto attacco, per poter vivere o morire insieme. La perdita di personale ospedaliero a causa di morti e feriti ha solo aggravato la crisi sanitaria.

In mezzo alla carneficina e alla miseria, il numero sempre più esiguo di personale rimasto ha imparato strategie di sopravvivenza psicologica. Davanti a una piccola tazza di caffè preparato su una fiamma libera sul pavimento della sala operatoria, un chirurgo mi ha raccontato di come si fosse abituato ad affrontare solo il problema medico che aveva di fronte, prendendo le distanze dalla storia devastante del paziente.

Per molti versi mi sono sentito impotente, ma la presenza di medici stranieri ha almeno rassicurato il personale locale sulla minore probabilità di subire attacchi da parte dell’IDF. Nonostante abbia lavorato in passato in zone di conflitto, non ho mai sperimentato un bombardamento così prolungato. Sono diventato sempre più ansioso e insonne man mano che i miei quindici giorni in ospedale progredivano, ma la gente di Gaza ha sopportato tutto questo per più di quattro mesi.

Da quando sono partito, ho riflettuto a lungo su cosa possiamo fare per contenere questa catastrofe. C’è un disperato bisogno di personale medico e di attrezzature. Le linee di rifornimento esistenti sono tristemente inadeguate e ogni giorno si perdono vite umane per la mancanza di queste risorse. I nostri governi non potrebbero superare la burocrazia che ostacola le forniture salvavita?

In uno dei miei ultimi giorni in ospedale, ho incontrato il mio amico Moe, un giovane medico palestinese con cui ho lavorato per un decennio. Da ottobre è stato sfollato sei volte, ma ha corso il rischio di venirmi a trovare da Rafah. “Mi hanno tolto tutto, dottor Tim, e soprattutto mi hanno tolto la mia dignità”, ha detto mentre ci abbracciavamo. Quando gli ho chiesto come facesse ad andare avanti, a curare i pazienti, mi ha guardato con tristezza. “Dobbiamo vivere”, ha detto. “Dobbiamo andare avanti”.

https://www.ft.com/content/aab2a3a7-c190-4ab6-bdb8-d3a92eb73e31

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

27/2/2024 https://www.assopacepalestina.org/

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