La Francia tradita: il calcio e le rivolte delle banlieue del 2005

Zyed, Bouna e Muhittin scappano, con la polizia alle loro calcagna. Scavalcano un muro e si nascondono dentro un trasformatore elettrico, per non farsi trovare. È una pessima idea: vengono fulminati. Zyed e Bouna, che hanno rispettivamente 17 e 15 anni, muoiono sul colpo, mentre Muhittin, 17 anni anche lui, rimane gravemente ferito. La polizia dice che erano responsabili di un furto e li dovevano arrestare, ma ben presto emerge che i tre ragazzi non c’entravano nulla. Sono scappati perché sanno perfettamente cosa succede alle persone di pelle scura quando finiscono nelle mani della polizia. È la sera di giovedì 27 ottobre 2005, e centinaia di persone, molti giovani, scendono nelle strade di Clichy-sous-Bois, sobborgo di 28.000 abitanti a est di Parigi, e iniziano a dar fuoco ad automobili e cassonetti dell’immondizia.

Per capire questa storia, occorre fare un grande passo indietro. La Francia è stata un impero coloniale fino al secondo dopoguerra, nonché un paese di grande immigrazione. Già negli anni Trenta, la nazionale di calcio scendeva in campo con giocatori algerini, italiani, polacchi e africani; una delle stelle della squadra dei Mondiali casalinghi del 1938 era Raoul Diagne, nato in Guyana da genitori senegalesi. Dopo la guerra, numerosi immigrati dall’Africa del Nord e Occidentale arrivarono in Francia per lavorare come operai nella ricostruzione del paese, e per vivere si costruirono delle baracche alle periferie di città come Parigi, Lione e Marsiglia. Con la ripresa economica degli anni Cinquanta e Sessanta, il governo aveva creato numerose habitation à loyer modéré, vale a dire case popolari, dove finirono a vivere gli immigrati. La decolonizzazione portò a una nuova ondata di immigrazione dall’Africa e dai Caraibi. Già dagli anni Settanta iniziarono a diventare sempre più frequenti i calciatori afro-francesi, come il guadalupese Marius Tresor o il maliano Jean Tigana. La ristrutturazione del calcio francese a livello giovanile, alla fine degli anni Ottanta, ha facilitato l’inserimento nei club di molti ragazzi delle periferie, che prima faticavano a emergere a livello sportivo. Nel frattempo, all’inizio degli anni Novanta, i problemi economici nelle banlieue si sono aggravati ed è cresciuto il problema della criminalità. Nuovi gruppi religiosi dell’Islam radicale hanno fatto sempre più proseliti, acuendo le fratture sociali in cui si è inserito il Front National di Jean-Marie Le Pen, che dalla metà degli anni Ottanta è in forte ascesa.

Nella squadra della Francia che esce al primo turno agli Europei del 1992 ci sono quattro giocatori di colore, in quella che quattro anni dopo raggiunge le semifinali ce ne sono otto. “È un po’ artificioso convocare giocatori dall’estero e poi chiamarla squadra francese” commenta in quest’ultima occasione Le Pen. Ma nella selezione di Aimé Jacquet c’è un solo elemento nato all’estero, Marcel Desailly, che proviene dal Ghana ma vive in Francia da cittadino da quando ha 4 anni, dopo che la madre ha sposato il console francese nel paese africano. Altri, come Thuram, Angloma e Karembeu, non sono nati in Europa ma comunque provengono da zone che sono tutt’oggi territorio francese, come la Guadalupa e la Nuova Caledonia. Quello a cui fa riferimento Le Pen, però, è chiaro tutti: quel “giocatori dall’estero” non va inteso in senso letterale, ma come “non di origine francese”, e più precisamente “non bianchi” (perché sicuramente nessuno si fa tanti problemi per la convocazione di Youri Djorkaeff, nato a Lione da genitori calmucchi e armeni). È qui che il calcio inizia a diventare lo specchio di quella frattura sociale: per il Front National, la nazionale francese diviene il simbolo evidente di tutto ciò che non va nel paese, con i neri e i musulmani che tolgono posto ai bianchi cristiani.

Sono queste le due grandi fazioni che si contendono il cuore della Francia: da un lato i fascisti, e dall’altro i calciatori. Se la selezione di Jacquet arriva in semifinale agli Europei del 1996, il Front National raggiunge un impressionante 14,9% alle presidenziali del 1997. Un anno dopo, una squadra con dieci giocatori di colore vince per la prima volta il titolo mondiale, e nel 2000 conquista il secondo Europeo dopo il 1984. “La nostra squadra rende l’idea del miscuglio socioculturale che è la Francia di oggi” rivendica il portiere Bernard Lama, nato a Tours in una famiglia originaria della Guyana. Nell’aprile 2002, alle nuove presidenziali, Le Pen arriva al 16,9% e scavalca i socialisti, e per la prima volta l’estrema destra va al ballottaggio. Jacques Chirac, leader dei conservatori e Presidente della Repubblica in carica cerca e ottiene l’appoggio della nazionale, che ormai più che Bleus è chiamata Black-Blanc-Beur, per sottolineare la sua multiculturalità. “Se l’estrema destra dovesse vincere le elezioni, ci saranno molti giocatori della Francia che si rifiuteranno di prendere parte alla Coppa del Mondo. Una Francia governata dall’estrema destra rende per noi impossibile rappresentare la nazione” dice Robert Pirès, nato a Reims da genitori portoghesi e spagnoli. “È innegabile che il Front National è un partito fascista” aggiunge Desailly, mentre Zinédine Zidane, marsigliese d’origini algerine, rincara la dose: “La gente deve votare, ma soprattutto deve pensare alle conseguenze di un voto per un partito che non rispetta i valori della Francia”.

Black-Blanc-Beur. Da sinistra: Zidane, Desailly e Blanc con la Coppa del Mondo del 1998.

Le Pen non le vince, quelle elezioni, e anzi da quel momento il suo partito entrerà in declino. Ma solo tre anni dopo il voto il paese è in rivolta. Le banlieue sono ghetti d’emarginazione e povertà, il dipartimento Senna-Saint-Denis, in cui si trova Clichy-sous-Bois, è quello con la più alta concentrazione di stranieri di tutta la Francia (30%) e anche con il più alto tasso di disoccupazione del paese (nell’epicentro delle rivolte è del 23%, ma tra gli under-25, che rappresentano circa la metà della popolazione, è del 50%). Il comportamento della polizia, in queste zone, è divenuto via via più aggressivo, con pesanti infiltrazioni dell’estrema destra nelle forze dell’ordine. La situazione è stata acuita dal nuovo governo di Chirac: spaventato dall’ascesa del Front National, il Presidente ha deciso di indebolire Le Pen risolvendo il problema delle periferie con la tolleranza zero, e ha così nominato al Ministero dell’Interno Nicolas Sarkozy. È un uomo che proviene da una ricca famiglia di origini ungheresi, è cresciuto in centro ed è noto per essere stato sindaco, dal 1983 al 2002, di Neuilly-sur-Seine, una ricca cittadina a nord-ovest di Parigi, celebre a sua volta per il suo rifiuto di rispettare il limite minimo di case popolari presenti per legge sul territorio municipale.

A giugno, quando un ragazzo è stato ucciso da una pallottola vagante in uno scontro tra bande a La Courneuve, a 10 chilometri da Clichy-sous-Bois, Sarkozy ha tenuto un comizio in città dichiarando che avrebbe riportato l’ordine e che avrebbe “ripulito la città con gli idranti”. La gente considerata come spazzatura. Ribadisce lo stesso concetto a fine ottobre ad Argenteuil, una delle banlieue in rivolta: “Smettete di chiamarli ‘giovani’. Sono feccia”. Il governo che aveva usato la nazionale di calcio multietnica come simbolo di una Francia sana, da opporre al violento razzismo di Le Pen, ora parla con le parole del Front National. E il calcio non ci sta. “Anche io sono cresciuto in una banlieue e non mi piace sentire gente che parla di ripulire per portare ordine. Può darsi che Sarzoky non abbia pesato bene la parole, ma prendo ciò che ha detto come un’offesa personale” risponde Lilian Thuram, difensore nato nella Guadalupa ma cresciuto da quando aveva 9 anni a Bois-Colombes, sobborgo limitrofo ad Argenteuil e a soli 23 chilometri da Clichy-sous-Bois. Continua Thuram: “La violenza non è mai una soluzione giusta, ma si deve fare uno sforzo e cercare di capire i motivi che hanno spinto così tanta gente a ribellarsi, a dire basta. Prima di parlare di insicurezza bisognerebbe cercare di capire da dove arriva il malessere di tutta questa gente. In periferia non è facile trovare lavoro, penso che prima di tutto sarebbe utile riflettere sulla giustizia sociale”.

“Thuram è un grande campione di calcio che guadagna molto bene. Non si tratta di un rimprovero, ma da molto tempo non abita in simili quartieri” replica Sarkozy. In queste parole, c’è tutta un’idea di Francia che chiaramente non è più quella che Chirac aveva promesso nel 1997. Il Ministro dell’Interno usa la stessa retorica della destra: si pone come garante della volontà popolare di fronte a un miliardario privilegiato che non sa come si viva nelle periferie. Ma è un gioco retorico assolutamente falso, perché Sarkozy e Thuram sono entrambi ricchi, ma il primo lo è fin dalla nascita mentre il secondo quelle periferie le ha vissute e ha ancora amici e parenti che ci abitano. Dopo quattro settimane, alla fine, le proteste si spengono, lasciando un paese spezzato, frustrato, spaventato. Un anno e mezzo dopo si torna a votare, e stavolta l’UMP candida a Presidente proprio Sarkozy, che capitalizza i frutti della sua tolleranza zero e riesce a venire eletto, sottraendo i voti proprio a Le Pen. Meno di dieci anni prima, Alain Peyrefitte scriveva su Le Figaro che quella nazionale di calcio francese era “un modello per il mondo”, rappresentando il successo delle ambizioni culturali del paese di Chirac. I fatti del 2005 hanno segnato invece il tramonto di quel sogno, il tradimento della politica nei confronti della promessa fatta dal calcio.

La Francia di abusi polizia, banlieue, Cesare Piccolo, Clément Lanot, Francia, giornalismo indipendente, Hauts-de-Seine, informazione mainstream, Nanterre, razzismo si scopre invece razzista e paranoica. Se prima questi erano i sentimenti di alcuni sparuti nostalgici neofascisti che gravitavano attorno a Le Pen, ora sono atteggiamenti istituzionalizzati, acuiti dalla nuova crisi economica di fine decennio e dal sempre più massiccio proliferare dello jihadismo, che raccoglie consensi là dove lo Stato ha abdicato al suo ruolo. Nel 2010, Mediapart rivela che la Federcalcio francese sta pensando di introdurre delle quote razziali nei settori giovanili, per limitare la presenza di neri e arabi al 30% del totale. Viene diffuso il contenuto di una riunione in cui a supportare con forza questo piano è addirittura il ct Laurent Blanc, lui che era stato il capitano della Francia campione del mondo nel 1998 e d’Europa nel 2000. Eccolo di nuovo, il sogno della nazionale Black-Blanc-Beur come modello d’integrazione: eccolo sgretolarsi, poco a poco, sotto il peso delle promesse tradite.

Questa foto di Arnau Bach apre un articolo del New Yorker del 2015, firmato da George Packer, che si chiede se i sobborghi di Parigi siano diventati un incumbatore del terrorismo.

Il 2017 è un déjà vu. Vent’anni dopo le prime elenzioni vinte da Chirac e che videro il primo exploit del Front National, c’è di nuovo Le Pen al ballottaggio, stavolta Marine, la figlia di Jean-Marie. C’è di nuovo Zidane che deve prendere la parola e appellarsi all’anima della sua Francia: “Il messaggio è lo stesso del 2002: sono lontano dalle idee del Front National. Bisogna evitare al massimo la loro vittoria”. Ancora una volta il calcio e i suoi simboli, ultimi paladini rimasti a difendere un’idea di Francia in cui ormai non credono più neppure i politici che a lungo l’hanno cavalcata. Ed è normale che sia così, in un paese in cui ormai il calcio, e l’Équipe de France in particolare, è divenuto l’unico vero avversario politico dell’estrema destra, come dimostra il caso di Karim Benzema, il nemico giurato del Front National.

Clichy-sous-Bois, Noisy-le-Sec, Bobigny, Bondy, La Courneuve, Saint-Denis, Bois-Colombes, Argenteuil, Nanterre. C’è tutta una geografia delle banlieue del calcio e delle rivolte che è ancora largamente inesplorata, e che va sotto quel nome generico di Île-de-France, la macroregione che circonda Parigi e che secondo Arsène Wenger è la più grande fabbrica di talento del calcio europeo. Una terra dove tutti giocano a pallone, perché – nel Nuovo Millennio, in uno dei paesi più ricchi al mondo – è l’unico modo per sfuggire alla miseria. “Nei nostri quartieri c’è solo il calcio. A scuola o in cortile, tutti giocano a pallone. E questo aiuta i ragazzi a non stare in giro a far niente, o a fare sciocchezze. Ogni santo giorno c’è il pallone. Niente altro.” racconta Paul Pogba, che è nato e cresciuto a Lagny-sur-Marne, 15 chilometri più a est di Clichy-sous-Bois, e che aveva 12 anni quando sono scoppiate le rivolte del 2005. Nel maggio del 2015, pochi giorni prima che Pogba disputi la sua prima finale di Champions League, i due poliziotti che avevano inseguito senza motivo Zyed Benna, Bouna Traoré e Muhittin Altun dieci anni prima vengono assolti in via definitiva. Erano accusati di omissione di soccorso, dato che in un messaggio alla radio della polizia, che era stato registrato, avevano ammesso di sapere che i tre ragazzi si stavano dirigendo alla centrale elettrica e che erano in pericolo di vita.

Un colpo in testa… è sempre per i soliti che trovarsi nel torto conduce alla morte.Mike Maignan

Allora che fare? I social fanno rumore per un po’. Poi riprendiamo le nostre vite, fino a che un’altra madre, un’altra famiglia si sveglia un mattino e scopre che uno di loro non c’è più. Se avete una ricetta miracolosa, sono pronto ad ascoltarla. Io non ne ho.Aurélien Tchouameni

Zyed, Bouna e Muhittin scappano, con la polizia alle loro calcagna. Scavalcano un muro e si nascondono dentro un trasformatore elettrico, per non farsi trovare. È una pessima idea: vengono fulminati. Zyed e Bouna, che hanno rispettivamente 17 e 15 anni, muoiono sul colpo, mentre Muhittin, 17 anni anche lui, rimane gravemente ferito. La polizia dice che erano responsabili di un furto e li dovevano arrestare, ma ben presto emerge che i tre ragazzi non c’entravano nulla. Sono scappati perché sanno perfettamente cosa succede alle persone di pelle scura quando finiscono nelle mani della polizia. È la sera di giovedì 27 ottobre 2005, e centinaia di persone, molti giovani, scendono nelle strade di Clichy-sous-Bois, sobborgo di 28.000 abitanti a est di Parigi, e iniziano a dar fuoco ad automobili e cassonetti dell’immondizia.

Per capire questa storia, occorre fare un grande passo indietro. La Francia è stata un impero coloniale fino al secondo dopoguerra, nonché un paese di grande immigrazione. Già negli anni Trenta, la nazionale di calcio scendeva in campo con giocatori algerini, italiani, polacchi e africani; una delle stelle della squadra dei Mondiali casalinghi del 1938 era Raoul Diagne, nato in Guyana da genitori senegalesi. Dopo la guerra, numerosi immigrati dall’Africa del Nord e Occidentale arrivarono in Francia per lavorare come operai nella ricostruzione del paese, e per vivere si costruirono delle baracche alle periferie di città come Parigi, Lione e Marsiglia. Con la ripresa economica degli anni Cinquanta e Sessanta, il governo aveva creato numerose habitation à loyer modéré, vale a dire case popolari, dove finirono a vivere gli immigrati. La decolonizzazione portò a una nuova ondata di immigrazione dall’Africa e dai Caraibi. Già dagli anni Settanta iniziarono a diventare sempre più frequenti i calciatori afro-francesi, come il guadalupese Marius Tresor o il maliano Jean Tigana. La ristrutturazione del calcio francese a livello giovanile, alla fine degli anni Ottanta, ha facilitato l’inserimento nei club di molti ragazzi delle periferie, che prima faticavano a emergere a livello sportivo. Nel frattempo, all’inizio degli anni Novanta, i problemi economici nelle banlieue si sono aggravati ed è cresciuto il problema della criminalità. Nuovi gruppi religiosi dell’Islam radicale hanno fatto sempre più proseliti, acuendo le fratture sociali in cui si è inserito il Front National di Jean-Marie Le Pen, che dalla metà degli anni Ottanta è in forte ascesa.

Nella squadra della Francia che esce al primo turno agli Europei del 1992 ci sono quattro giocatori di colore, in quella che quattro anni dopo raggiunge le semifinali ce ne sono otto. “È un po’ artificioso convocare giocatori dall’estero e poi chiamarla squadra francese” commenta in quest’ultima occasione Le Pen. Ma nella selezione di Aimé Jacquet c’è un solo elemento nato all’estero, Marcel Desailly, che proviene dal Ghana ma vive in Francia da cittadino da quando ha 4 anni, dopo che la madre ha sposato il console francese nel paese africano. Altri, come Thuram, Angloma e Karembeu, non sono nati in Europa ma comunque provengono da zone che sono tutt’oggi territorio francese, come la Guadalupa e la Nuova Caledonia. Quello a cui fa riferimento Le Pen, però, è chiaro tutti: quel “giocatori dall’estero” non va inteso in senso letterale, ma come “non di origine francese”, e più precisamente “non bianchi” (perché sicuramente nessuno si fa tanti problemi per la convocazione di Youri Djorkaeff, nato a Lione da genitori calmucchi e armeni). È qui che il calcio inizia a diventare lo specchio di quella frattura sociale: per il Front National, la nazionale francese diviene il simbolo evidente di tutto ciò che non va nel paese, con i neri e i musulmani che tolgono posto ai bianchi cristiani.

Sono queste le due grandi fazioni che si contendono il cuore della Francia: da un lato i fascisti, e dall’altro i calciatori. Se la selezione di Jacquet arriva in semifinale agli Europei del 1996, il Front National raggiunge un impressionante 14,9% alle presidenziali del 1997. Un anno dopo, una squadra con dieci giocatori di colore vince per la prima volta il titolo mondiale, e nel 2000 conquista il secondo Europeo dopo il 1984. “La nostra squadra rende l’idea del miscuglio socioculturale che è la Francia di oggi” rivendica il portiere Bernard Lama, nato a Tours in una famiglia originaria della Guyana. Nell’aprile 2002, alle nuove presidenziali, Le Pen arriva al 16,9% e scavalca i socialisti, e per la prima volta l’estrema destra va al ballottaggio. Jacques Chirac, leader dei conservatori e Presidente della Repubblica in carica cerca e ottiene l’appoggio della nazionale, che ormai più che Bleus è chiamata Black-Blanc-Beur, per sottolineare la sua multiculturalità. “Se l’estrema destra dovesse vincere le elezioni, ci saranno molti giocatori della Francia che si rifiuteranno di prendere parte alla Coppa del Mondo. Una Francia governata dall’estrema destra rende per noi impossibile rappresentare la nazione” dice Robert Pirès, nato a Reims da genitori portoghesi e spagnoli. “È innegabile che il Front National è un partito fascista” aggiunge Desailly, mentre Zinédine Zidane, marsigliese d’origini algerine, rincara la dose: “La gente deve votare, ma soprattutto deve pensare alle conseguenze di un voto per un partito che non rispetta i valori della Francia”.

Black-Blanc-Beur. Da sinistra: Zidane, Desailly e Blanc con la Coppa del Mondo del 1998.

Le Pen non le vince, quelle elezioni, e anzi da quel momento il suo partito entrerà in declino. Ma solo tre anni dopo il voto il paese è in rivolta. Le banlieue sono ghetti d’emarginazione e povertà, il dipartimento Senna-Saint-Denis, in cui si trova Clichy-sous-Bois, è quello con la più alta concentrazione di stranieri di tutta la Francia (30%) e anche con il più alto tasso di disoccupazione del paese (nell’epicentro delle rivolte è del 23%, ma tra gli under-25, che rappresentano circa la metà della popolazione, è del 50%). Il comportamento della polizia, in queste zone, è divenuto via via più aggressivo, con pesanti infiltrazioni dell’estrema destra nelle forze dell’ordine. La situazione è stata acuita dal nuovo governo di Chirac: spaventato dall’ascesa del Front National, il Presidente ha deciso di indebolire Le Pen risolvendo il problema delle periferie con la tolleranza zero, e ha così nominato al Ministero dell’Interno Nicolas Sarkozy. È un uomo che proviene da una ricca famiglia di origini ungheresi, è cresciuto in centro ed è noto per essere stato sindaco, dal 1983 al 2002, di Neuilly-sur-Seine, una ricca cittadina a nord-ovest di Parigi, celebre a sua volta per il suo rifiuto di rispettare il limite minimo di case popolari presenti per legge sul territorio municipale.

A giugno, quando un ragazzo è stato ucciso da una pallottola vagante in uno scontro tra bande a La Courneuve, a 10 chilometri da Clichy-sous-Bois, Sarkozy ha tenuto un comizio in città dichiarando che avrebbe riportato l’ordine e che avrebbe “ripulito la città con gli idranti”. La gente considerata come spazzatura. Ribadisce lo stesso concetto a fine ottobre ad Argenteuil, una delle banlieue in rivolta: “Smettete di chiamarli ‘giovani’. Sono feccia”. Il governo che aveva usato la nazionale di calcio multietnica come simbolo di una Francia sana, da opporre al violento razzismo di Le Pen, ora parla con le parole del Front National. E il calcio non ci sta. “Anche io sono cresciuto in una banlieue e non mi piace sentire gente che parla di ripulire per portare ordine. Può darsi che Sarzoky non abbia pesato bene la parole, ma prendo ciò che ha detto come un’offesa personale” risponde Lilian Thuram, difensore nato nella Guadalupa ma cresciuto da quando aveva 9 anni a Bois-Colombes, sobborgo limitrofo ad Argenteuil e a soli 23 chilometri da Clichy-sous-Bois. Continua Thuram: “La violenza non è mai una soluzione giusta, ma si deve fare uno sforzo e cercare di capire i motivi che hanno spinto così tanta gente a ribellarsi, a dire basta. Prima di parlare di insicurezza bisognerebbe cercare di capire da dove arriva il malessere di tutta questa gente. In periferia non è facile trovare lavoro, penso che prima di tutto sarebbe utile riflettere sulla giustizia sociale”.

“Thuram è un grande campione di calcio che guadagna molto bene. Non si tratta di un rimprovero, ma da molto tempo non abita in simili quartieri” replica Sarkozy. In queste parole, c’è tutta un’idea di Francia che chiaramente non è più quella che Chirac aveva promesso nel 1997. Il Ministro dell’Interno usa la stessa retorica della destra: si pone come garante della volontà popolare di fronte a un miliardario privilegiato che non sa come si viva nelle periferie. Ma è un gioco retorico assolutamente falso, perché Sarkozy e Thuram sono entrambi ricchi, ma il primo lo è fin dalla nascita mentre il secondo quelle periferie le ha vissute e ha ancora amici e parenti che ci abitano. Dopo quattro settimane, alla fine, le proteste si spengono, lasciando un paese spezzato, frustrato, spaventato. Un anno e mezzo dopo si torna a votare, e stavolta l’UMP candida a Presidente proprio Sarkozy, che capitalizza i frutti della sua tolleranza zero e riesce a venire eletto, sottraendo i voti proprio a Le Pen. Meno di dieci anni prima, Alain Peyrefitte scriveva su Le Figaro che quella nazionale di calcio francese era “un modello per il mondo”, rappresentando il successo delle ambizioni culturali del paese di Chirac. I fatti del 2005 hanno segnato invece il tramonto di quel sogno, il tradimento della politica nei confronti della promessa fatta dal calcio.

La Francia di Sarkozy si scopre invece razzista e paranoica. Se prima questi erano i sentimenti di alcuni sparuti nostalgici neofascisti che gravitavano attorno a Le Pen, ora sono atteggiamenti istituzionalizzati, acuiti dalla nuova crisi economica di fine decennio e dal sempre più massiccio proliferare dello jihadismo, che raccoglie consensi là dove lo Stato ha abdicato al suo ruolo. Nel 2010, Mediapart rivela che la Federcalcio francese sta pensando di introdurre delle quote razziali nei settori giovanili, per limitare la presenza di neri e arabi al 30% del totale. Viene diffuso il contenuto di una riunione in cui a supportare con forza questo piano è addirittura il ct Laurent Blanc, lui che era stato il capitano della Francia campione del mondo nel 1998 e d’Europa nel 2000. Eccolo di nuovo, il sogno della nazionale Black-Blanc-Beur come modello d’integrazione: eccolo sgretolarsi, poco a poco, sotto il peso delle promesse tradite.

Questa foto di Arnau Bach apre un articolo del New Yorker del 2015, firmato da George Packer, che si chiede se i sobborghi di Parigi siano diventati un incumbatore del terrorismo.

Il 2017 è un déjà vu. Vent’anni dopo le prime elenzioni vinte da Chirac e che videro il primo exploit del Front National, c’è di nuovo Le Pen al ballottaggio, stavolta Marine, la figlia di Jean-Marie. C’è di nuovo Zidane che deve prendere la parola e appellarsi all’anima della sua Francia: “Il messaggio è lo stesso del 2002: sono lontano dalle idee del Front National. Bisogna evitare al massimo la loro vittoria”. Ancora una volta il calcio e i suoi simboli, ultimi paladini rimasti a difendere un’idea di Francia in cui ormai non credono più neppure i politici che a lungo l’hanno cavalcata. Ed è normale che sia così, in un paese in cui ormai il calcio, e l’Équipe de France in particolare, è divenuto l’unico vero avversario politico dell’estrema destra, come dimostra il caso di Karim Benzema, il nemico giurato del Front National.

Clichy-sous-Bois, Noisy-le-Sec, Bobigny, Bondy, La Courneuve, Saint-Denis, Bois-Colombes, Argenteuil, Nanterre. C’è tutta una geografia delle banlieue del calcio e delle rivolte che è ancora largamente inesplorata, e che va sotto quel nome generico di Île-de-France, la macroregione che circonda Parigi e che secondo Arsène Wenger è la più grande fabbrica di talento del calcio europeo. Una terra dove tutti giocano a pallone, perché – nel Nuovo Millennio, in uno dei paesi più ricchi al mondo – è l’unico modo per sfuggire alla miseria. “Nei nostri quartieri c’è solo il calcio. A scuola o in cortile, tutti giocano a pallone. E questo aiuta i ragazzi a non stare in giro a far niente, o a fare sciocchezze. Ogni santo giorno c’è il pallone. Niente altro.” racconta Paul Pogba, che è nato e cresciuto a Lagny-sur-Marne, 15 chilometri più a est di Clichy-sous-Bois, e che aveva 12 anni quando sono scoppiate le rivolte del 2005. Nel maggio del 2015, pochi giorni prima che Pogba disputi la sua prima finale di Champions League, i due poliziotti che avevano inseguito senza motivo Zyed Benna, Bouna Traoré e Muhittin Altun dieci anni prima vengono assolti in via definitiva. Erano accusati di omissione di soccorso, dato che in un messaggio alla radio della polizia, che era stato registrato, avevano ammesso di sapere che i tre ragazzi si stavano dirigendo alla centrale elettrica e che erano in pericolo di vita.

Un colpo in testa… è sempre per i soliti che trovarsi nel torto conduce alla morte.Mike Maignan

Allora che fare? I social fanno rumore per un po’. Poi riprendiamo le nostre vite, fino a che un’altra madre, un’altra famiglia si sveglia un mattino e scopre che uno di loro non c’è più. Se avete una ricetta miracolosa, sono pronto ad ascoltarla. Io non ne ho.Aurélien Tchouameni

Fonti

LONGHI Lorenzo, Zidane contro Le Pen. La promessa mancata dell’integrazione in Francia, Treccani

MONTEFIORI Stefano, La banlieue riserva di campioni «Qui non c’è altro, il calcio aiuta», La Stampa

Rivolte del 2005 nelle banlieue francesi, Wikipedia

Valerio Moggia

2/7/2023 https://pallonateinfaccia.com/

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