La Germania va a destra, ma la speranza è la Linke
Le elezioni tedesche confermano la svolta a destra con il successo della Cdu, la crescita enorme dell’AfD specie tra gli elettori working class, e il crollo dei socialisti. La sorpresa però è la sinistra della Linke, che spopola soprattutto tra le giovani
Si apre uno dei capitoli più bui della storia della Repubblica federale tedesca. La svolta a destra del paese è infatti confermata dall’altissima affluenza (82,5%), la più alta dalla riunificazione: una maggioranza reale nel paese, quindi, ha votato contro i propri interessi sociali, in favore del riarmo, del ridimensionamento dello Stato sociale e di presunte soluzioni facili a una questione migratoria strumentalmente sovrarappresentata nel dibattito pubblico.
Prima forza politica, confermando le previsioni dei sondaggi, l’Union (il centrodestra di Cdu e Csu) con il 28,5% dei consensi: una chiara vittoria pur certo non paragonabile ai trionfi del partito dell’era Merkel, e comunque ben sotto le aspettative della vigilia del voto. I nazi-populisti di AfD, invece, sono il secondo partito al 20,8%: anche se per la conventio ad excludendum dei cosiddetti partiti democratici resteranno fuori dal governo, sono loro i veri vincitori della tornata elettorale, determinanti nello spostare a destra l’equilibrio dell’intero sistema politico tedesco, dalle politiche sociali alla questione dei migranti. Quello che resta della coalizione Ampel, l’alleanza del «semaforo» che ha messo insieme al governo socialdemocratici, verdi e liberali,si misura invece con due pesanti sconfitte. Da un lato la Spd del Cancelliere uscente Olaf Scholz crolla di quasi 10 punti percentuali, fermandosi al 16,4%; dall’altro i Verdi hanno pagato il conto con i propri elettori della svolta militarista e anti-migranti e del realismo politico governista sulla crisi climatica e sulla transizione ecologica ed energetica, che ha tradito la fiducia anche dei più giovani elettori arrivati al voto nel 2021 sull’onda lunga delle mobilitazioni per il clima: un dato reso evidente dalla migrazione di 700 mila elettori dei Grunen alla Linke, il partito della sinistra. Restano fuori dal Bundestag con il 4,3% i liberali di FdP, il cui segretario Christian Lindner aveva fatto cadere il governo di coalizione lo scorso ottobre. Sotto la soglia di sbarramento del 5 per cento anche il partito personale sovranista e rosso-bruno di Sahra Wagenknecht (Bsw) – fuoriuscita alla fine del 2023 dalla Linke – che, pur conservando in termini assoluti i circa 2,5 milioni di consensi delle europee che con una minore affluenza le garantirono a giugno scorso il 6,2%, adesso si ferma al 4,97% dei consensi a distanza di circa 13.400 voti per superare lo sbarramento. Ha dichiarato però che il suo partito sta valutando la possibilità di contestare i risultati ricorrendo al Bundestag (la cui decisione sarebbe poi impugnabile di fronte ai giudici di Karlsruhe), lamentando in particolare le difficoltà che hanno impedito a molti degli oltre circa 200 mila cittadini residenti all’estero di votare e la presunta marginalizzazione subita da molti media mainstream e dagli istituti di sondaggi: in particolare il riferimento è a un sondaggio di Forsa condotto poco prima delle elezioni, che ha dato al Bsw solo il 3% e di cui si è parlato molto.
La grande sorpresa della serata elettorale è stato il ritorno della sinistra parlamentare incarnata dal partito Die Linke. Con l’8,8% dei voti, un + 3,9% rispetto al 2021 e 6 mandati diretti nei collegi uninominali (nel 2021 erano stati soltanto 3, che le permisero peraltro, grazie alla legge elettorale tedesca, di entrare al Bundestag anche se rimasta con il 4,9 % sotto la soglia di sbarramento) il partito guidato da Ines Schwerdtner e Jan van Aken ha realizzato una remontada impressionante in termini di voti: a inizio anno i sondaggi davano il partito fermo tra il 2% e il 3%, cioè lontano dalla soglia del 5% necessaria per entrare in parlamento. Come cercheremo di illustrare più in avanti in questo testo è stata la mobilitazione popolare durante la campagna elettorale a permettere al partito di risorgere in così poco tempo dalle ceneri sotto cui sembrava soffocare.
L’Est e le fabbriche si tingono di un blu che tende al nero
L’AfD si afferma come il partito più votato tra gli operai, 38%, con un aumento del 17% rispetto al 2021 e in crescita rispetto al 33% delle scorse europee. Questa tendenza era già proseguita nelle elezioni del 2024 in Turingia, Sassonia e Brandeburgo. In Turingia, l’AfD aveva ottenuto nel settembre scorso il 49% dei voti della classe operaia, in Brandeburgo il 46% e in Sassonia il 45%. Un dato che è coerente con la distribuzione geografica del voto, che vede dipingersi di blu, il colore ufficiale del partito guidato da Alice Weidel, tutti i Lander della Germania Est, a segnare un confine non solo geografico, ma di classe, depressione economica e deindustrializzazione avanzata che porta l’elettorato working class ad affidarsi a un partito anti-establishment e con una retorica e un programma – come denunciato anche dalla Dgb, la confederazione dei principali sindacati tedeschi, durante la campagna elettorale – apertamente anti-sindacale. Un fenomeno che non è certo nuovo a molti paesi attraversati dai populismi di destra e che in Germania pone una grande sfida alla sinistra radicale. Se il partito di Sahra Wagenknecht non è riuscito a frenare l’emorragia di voti della classe operaia verso l’AfD, la Linke mantiene saldo un consenso profondamente radicato nei centri urbani, tra i giovani studenti e nella classe media più istruita: stravince infatti a Berlino – dove raccoglie anche 4 dei 6 mandati diretti – che resta un’eccezione tinta di rosso in un Brandeburgo sempre più nero. Un altro dato preoccupante, ma anche questo in linea con tendenze consolidate, da ultimo nelle elezioni statunitensi dello scorso novembre, è il voto dei maschi della Gen Z che si orienta verso l’estrema destra, con AfD primo partito tra i giovani maschi tra 18 e 24 anni con il 26% (contro il 14% delle ragazze) e Linke primo partito tra le giovani ventenni con il 35% (contro il 15% per cento dei maschi): la polarizzazione di genere e la resistenza maschile allo sgretolamento della società patriarcale che si riflettono nelle urne.
Verso la GroKo, ma il fascismo non è dietro l’angolo
«Il centro regge. Potremo anche trovarci di fronte ad anni di ritorno al neoliberismo, a una politica migratoria e di gestione delle frontiere più disumana e a un aumento della repressione da parte della polizia, ma il fascismo non è dietro l’angolo», scrive Loren Balhorn sull’editoriale di Jacobin Germania pubblicato all’indomani del voto. Non si ridimensiona la svolta a destra del paese e non si nasconde il rischio che i prossimi anni saranno caratterizzati dal tentativo in particolare della Cdu di erodere il consenso dell’AfD spostando a destra l’asse politico del proprio programma di governo. Come non è escluso che la pregiudiziale antifascista che era stata messa in discussione dallo stesso Merz il 30 gennaio scorso con il voto al Bundestag su una mozione di inasprimento delle politiche migratorie insieme ad AfD, sia messa di nuovo alla prova con la ricerca di una maggioranza alternativa su singoli provvedimenti con l’ultradestra esclusa dal governo. Gli elementi di convergenza con le posizioni xenofobe e razziste non mancano, al punto che anche la stessa Cdu di questo ciclo politico può essere considerata un partito apertamente razzista. Lo stesso Merz, alla chiusura della campagna elettorale a Monaco, alludendo ai manifestanti davanti al palazzo, ha chiesto dove fossero la sinistra e gli Antifa quando Walter Lübcke è stato ucciso nel 2019 da un estremista di destra neonazista a Kassel. Una domanda che invece avrebbe dovuto porre a sé stesso, dato che all’epoca a mobilitarsi furono proprio antifascisti, sinistra e Verdi e non certo Merz o la sua corrente di destra nella Cdu che è rimasta indifferente, se non ostile, al fatto che un conservatore liberale come Lübcke si sia battuto attivamente per una cultura di accoglienza nei confronti dei rifugiati, diventando così il bersaglio dei militanti nazisti. Quindi ha dichiarato: «La sinistra è finita. Non c’è più una maggioranza di sinistra e non c’è più una politica di sinistra in Germania», aggiungendo che ancora lui e il suo partito avrebbero fatto politica non «per alcuni verdi e matti di sinistra di questo mondo» ma per la maggioranza della popolazione, che ragiona e ha «tutta la sua intelligenza». Con questa «sinistra» però Merz, nonostante abbia dichiarato domenica all’Ard che il suo discorso era rivolto soltanto agli «Antifa», dovrà costruire una coalizione. L’attacco frontale quindi del segretario della Cdu ai futuri alleati di governo costruisce una narrazione perfetta per l’AfD per colpire e indebolire la futura coalizione, imputando proprio a quella «sinistra» che avrebbe dovuto scomparire ogni tentennamento nello spostamento a destra che in ogni caso segnerà il futuro governo: e questa sponda l’ha offerta lo stesso Merz durante l’intera campagna elettorale.
Senza l’ingresso della Bsw in parlamento, Spd e Cdu avranno i seggi sufficienti (328 rispetto a una maggioranza assoluta di 315+1) per riformare la Große Koalition, senza che siano indispensabili gli 85 parlamentari dei Grünen, un allargamento che Merz non esclude – in particolare guardando alla corrente più moderata del partito dei cosiddetti. Realos – ma che è mal visto da buona parte dell’Union, a partire dal segretario della Csu Markus Söder, che non ha mancato di ricordarlo alla chiusura bavarese della campagna elettorale. Con i socialdemocratici il futuro cancelliere ha dichiarato ieri di essere «determinato a tenere colloqui rapidi e costruttivi». Ma Scholz – a parte agevolare il passaggio di consegne e far assumere già in queste settimane a Merz la guida delle questioni più politiche del governo – non vi prenderà parte: dopo aver vinto per un soffio il suo collegio di Potsdam ha già dichiarato che resterà da deputato semplice e non avrà più ruoli dirigenziali nell’Spd e tantomeno in un eventuale esecutivo. Mentre tra i socialdemocratici è il Ministro della Difesa uscente Boris Pistorius che ha probabilmente le migliori possibilità di rimanere in carica. Le sue posizioni sul sostegno all’Ucraina e sul riarmo massiccio sono altamente compatibili con quelle dei partiti dell’Union. Molto prima delle elezioni, Pistorius aveva chiesto alla Germania di aumentare in modo permanente la spesa per la difesa, portandola ad almeno il 3% e da ultimo ha sostenuto un piano speciale da 100 miliardi di euro per la Bundeswehr. Ciononostante è certo che la coalizione non funzionerà facilmente: sono bastate poche ore a Merz per aprire a un invito a Netanyahu (che in Germania manca da prima del 7 ottobre 2023) appena si sia formato il governo. «Gli ho promesso che avremmo trovato modi e mezzi per consentirgli di visitare la Germania e di ripartire senza essere arrestato» – ha dichiarato ieri alla stampa – «penso che sia un’idea completamente assurda che un primo ministro israeliano non possa visitare la Germania». Di fronte a un così grave attacco al diritto e alla giustizia penale internazionale, preludio soltanto di un ancora maggiore sostegno politico, economico e militare a Israele, la stessa Spd, non certo tacciabile di aver assunto posizioni critiche verso il governo di Tel Aviv di fronte al genocidio e ai crimini di guerra a danno del popolo palestinese, difficilmente potrà restare in silenzio.
Die Linke è risorta grazie alla mobilitazione popolare
Trentamila nuovi iscritti da inizio anno, più di quarantamila da quando Sahra Wagenknecht ha lasciato il partito nell’autunno del 2023, numeri mai visti nella storia del partito. Con quasi 100.000 tessere è stato superato il record di iscritti di 78.000 del 2009, cioè poco dopo la sua fondazione. Erano 15 anni che non solo non si registrava una tale dinamica, ma che il partito smettesse di perdere iscritti. Sono tre i fattori che possono spiegare questa inversione di tendenza. In primis l’uscita di Sahra Wagenknecht, che dall’inizio della pandemia non aveva mai smesso di approfondire la spaccatura del partito facendo leva populista su temi come i vaccini, il gas russo e la chiusura delle frontiere. Il secondo aspetto da tenere presente è il ricambio alla guida del partito. L’ex co-fondatrice e caporedattrice di Jacobin Germania Ines Schwerdtner e il biologo Jan van Aken – eletti segretari dal congresso dello scorso ottobre – sono riusciti a restituire un’apparente compattezza alle file interne del partito incentrando la presenza mediatica e il programma su temi come la giustizia sociale, il caro-affitti (con la proposta del calmiere dei canoni, il cosiddetto Mietendeckel), la sanità universale, l’aumento del salario minimo (già a 12,82 euro dal primo gennaio di quest’anno) e l’introduzione di una tassa patrimoniale (su cui lo slogan mediaticamente efficace che connota e spicca sempre sulle t-shirt di van Aken, «tax the rich»). Ciò è stato accompagnato da un uso più moderno dei mezzi di comunicazione di massa come TikTok e Instagram, fatto che gli ha permesso di diventare il partito più votato tra i giovani con età tra i 18 e i 24 anni con il 26% dei voti. Il terzo fattore e sicuramente il più importante è stata la mobilitazione di migliaia di persone su tutto il territorio tedesco per una campagna elettorale porta a porta. Questa strategia di mobilitazione è basata sul metodo Organizing sviluppato dalla sindacalista americana Jane McAlevey. L’idea cardine sia in ambito sindacale che politico è quella di partire dai bisogni concreti delle persone e dalla mobilitazione di molti per sviluppare un Plan to Win, un piano per vincere. Già Nam Duy Nguyen era riuscito a vincere il mandato diretto per accedere al parlamento sassone attraverso una simile campagna di porta a porta coinvolgendo centinaia di cittadini di Lipsia.
Quasi tutti i candidati di Die Linke entrati al Bundestag attraverso il mandato diretto hanno puntato sul porta a porta: da Ines Schwerdtner a Berlino-Lichtenberg, passando per Sören Pellmann a Lipsia fino a Ferat Koçak a Berlino Neukölln. Quest’ultimo è riuscito a mobilitare 1.000 persone nel quartiere popolare nel sud di Berlino in cui è cresciuto. Ferat è di famiglia operaia proveniente dal Kurdistan ed è noto a livello nazionale perché nel 2018 lui e la sua famiglia sono stati vittime di un attentato incendiario di matrice fascista. Dopo essere stato deputato nel Abgeordnetenhaus, il parlamento Berlinese, dal 2021 è riuscito ad assicurarsi il mandato diretto con il 30% dei voti. Il porta a porta gli ha permesso di assicurarsi il consenso di molti astensionisti nel distretto working class di Gropiusstadt. Dichiaratamente antisionista, si tratta di un personaggio scomodo per la guida del partito stesso, che nelle ultime settimane ha sempre cercato di non esprimersi chiaramente sulle questioni di politica estera. Anche Stella Merendino, la candidata a Berlino-Mitte, è riuscita a mobilitare centinaia di attivisti per la sua campagna di porta a porta, anche se per il mandato diretto i numeri non sono bastati ed è entrata in parlamento attraverso la lista della Linke. Di origini italiane e polacche Stella è infermiera di formazione ed è stata una delle protagoniste degli scioperi negli ospedali berlinesi del 2021 contro i ritmi di lavoro legati all’emergenza pandemica. Ferat, Nam Duy e Stella sono le facce della nuova Linke in parlamento: giovane, immigrata e working class.
Di fronte a queste nuove forze, la vecchia guardia riformista, anche se più debole rispetto all’anno scorso, resta presente all’interno del partito. Le dichiarazioni di Bodo Ramelow, ministro in Turingia per piú di dieci anni, rilasciate in un’intervista allo Spiegel all’indomani della serata elettorale, circa la sua disponibilità ad aprire un dialogo con la Union ne sono la dimostrazione. Nonostante queste tendenze la fiducia riposta nella Linke come unica vera alternativa contro l’estrema destra porta gran parte dei nuovi militanti e dei dirigenti più giovani del partito a ritenere che la strada da percorrere sia un’altra: l’unica che possa trasformare questo barlume di speranza – Hoffnungsschimmer, come è stato a più riprese definito fin dagli ultimi sondaggi il successo della serata elettorale – in un’opposizione forte nel paese è quella di evitare alleanze con il centro. Meglio: superare la tentazione della diretta opposizione all’ultradestra gridando al fascismo e tantomeno evitare di ricadere nelle generiche manifestazioni di piazza «contro le destre» e «per la democrazia» e costruire un progetto politico alternativo che faccia leva sulla paura e sulla frustrazione diffusa che l’AfD sta sfruttando e manipolando.
Per evitare che l’ultradestra possa andare al governo nel 2029 la Linke deve piuttosto cercare il conflitto con lo stesso centro che ha permesso all’AfD di diventare secondo partito e ripolarizzare a sinistra, lungo linee di classe, un dibattito pubblico e un sistema politico che si sono già spostati, e lo faranno ulteriormente, verso destra. Non più migranti contro tedeschi, ma padroni e super-ricchi contro tutti gli altri: l’unico Brandmauer che possa resistere.
Lukas Ferrari lavora come organizer sindacale a Lipsia ed è attivista del partito Die Linke.
Giorgio De Girolamo è studente di Giurisprudenza all’Università di Pisa.
25/2/2025 https://jacobinitalia.it/
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