La lotta femminista di cui abbiamo bisogno 

La lotta femminista di cui abbiamo bisogno 

Nella cultura capitalista, il femminismo e la teoria femminista 
stanno diventando rapidamente una merce 
che solo i privilegiati possono permettersi. 
Questo processo di mercificazione viene interrotto e sovvertito 
quando le attiviste femministe affermano il loro impegno 
per un movimento rivoluzionario politicizzato.
bell hooks, Insegnare a trasgredire

Sono nata in una provincia dove non si sono mai occupate nemmeno le scuole. La prima occupazione l’ho co-organizzata a trentun anni ed è stata l’occupazione (o meglio, apertura straordinaria) del consultorio di via San Marco, nel rione popolare di San Giacomo a Trieste: durante il fine settimana della Giornata internazionale contro la violenza maschile sulle donne, quando il consultorio era ancora in funzione e l’Azienda sanitaria locale (Asugi) negava che ci fosse l’intenzione di chiuderlo. Due mesi dopo, sarebbe stato chiuso insieme a quello del rione di San Giovanni, lasciando la città con soli due consultori, anche se, per legge, ne necessiterebbe dieci.

La storia di questa lotta, a qualche mese di distanza, mi pare debba essere raccontata. La difesa della sanità pubblica è una lotta di retroguardia, una resistenza che ci tocca opporre per salvare il salvabile, ma può essere – ed è stata per noi – anche uno spazio dove il femminismo si fa barricata, dove si possono instaurare connessioni interpersonali inaspettate e dove si fa largo l’immaginazione di un mondo possibile. 

Che cos’è un consultorio?

Che cosa è veramente un consultorio familiare l’ho imparato durante questa lotta, a conferma del fatto che la prassi è sempre anche un luogo di costruzione di sapere. Per me, un consultorio era il posto da dove, quando facevo la seconda o la terza media in provincia di Sondrio, erano venute delle operatrici a mettere un preservativo sulla gamba di una sedia ribaltata, nell’ambito di una lezione di educazione sessuale. Un consultorio era anche dove era andata mia mamma per il corso preparto e dove ero andata io per una visita ginecologica di routine (quando avevo poi avuto un problema vero e proprio, ero dovuta andare da una ginecologa privata). Era anche il servizio che, nei miei tre anni di insegnamento nelle scuole secondarie di Trieste dal 2021 a oggi, non si è mai fatto vivo nelle classi.

Che cosa dovrebbe essere un consultorio l’ho imparato in quest’anno di lotta, a fianco di Non una di meno e delle compagne del Comitato di partecipazione per i consultori familiari, alcune delle quali hanno partecipato ai movimenti femministi degli anni Settanta e in seguito hanno lavorato nei consultori, come operatrici, assistenti sociali, ginecologhe, dirigenti. 

I consultori sono servizi di base «a tutela della salute della donna, del bambino e della coppia e famiglia»; hanno introdotto principî straordinariamente innovativi, che secondo lo stesso Istituto superiore di sanità (Iss), «ancora oggi, nel quadro complessivo dell’assistenza sociosanitaria, li rendono un esempio unico di servizio connotato da un forte orientamento alla prevenzione e alla promozione della salute e basato sull’approccio olistico alla salute, la multidisciplinarietà, l’integrazione con gli altri servizi territoriali». Vennero istituiti nel 1975, con la Legge 405, come spazi femministi dove ci si prende cura a partire dalla presa di parola e dove la salute e la malattia sono prese in carico nella loro complessità somato-psichica, socio-economica e relazionale da un’équipe multidisciplinare (ginecologa, ostetrica, psicologa, assistente sociale).

La questione della salute e del corpo è sempre stata centrale nella lotta delle donne e delle soggettività queer. Negli anni Settanta, mentre si lavorava alla riforma del diritto di famiglia e alla proposta di legge di iniziativa popolare in materia di violenza sessuale, mentre nascevano i primi centri antiviolenza e le donne si autodenunciavano per aborto, sono nati i primi consultori autogestiti, dove per la prima volta le donne si sono guardate con lo speculum e hanno organizzato i primi gruppi di autocoscienza e self-help. In quel clima – scrive Tiziana Garlato di Femminismo libertario – «in cui la sessualità, la “maternità libera e cosciente”, la gestione del proprio corpo erano istanze che si affermavano anche oltre l’ambito del Movimento» venne varata nel 1975 la Legge 405 che istituiva i consultori familiari. 

La legge 405/75

La legge 405/75 è una bella legge, scritta con un lessico laico, scevro da moralismi, per quanto firmata da Aldo Moro e Giulio Andreotti. È la legge con la quale si afferma «per la prima volta nel diritto dello Stato la separazione fra riproduzione e sessualità femminile, accogliendo quella tensione culturale e politica verso la liberazione sessuale che era l’anima del movimento delle donne», come scrive la giurista Maria Rosaria Marella. Infatti, se è vero che i consultori portano nel loro nome l’aggettivo familiari, l’istituzione famiglia non è il solo soggetto al quale fa riferimento la legge, che parla anche di coppie e di singoli. Inoltre, se è vero che si parla di procreazione responsabile e maternità e paternità responsabile, a fondamento della legge sta l’autodeterminazione in materia sessuale e riproduttiva (si veda: «rispetto delle convinzioni etiche», «promuovere ovvero a prevenire la gravidanza» e «finalità liberamente scelte dalla coppia e dal singolo»).

Se la legge che istituisce i consultori recepisce le istanze del movimento femminista e dell’opinione pubblica progressista, pochi anni dopo, al contrario, la legge 194/78 – quella che regolamenta l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza – avrà tutt’altro tono. La 194 infatti non presenta l’aborto come una libera scelta ma come una soluzione qualora la gravidanza comportasse «un serio pericolo per la salute fisica o psichica» della gestante; in breve, è una celebrazione moralista della procreazione e, per quanto depenalizzi l’aborto, incorpora al suo interno lo strumento del suo sabotaggio: l’obiezione di coscienza. Lo Stato ti dice: se proprio vuoi abortire, vai in consultorio, ma i consultori nella legge 194/78 sono già diventati i luoghi dove farti cambiare idea (cfr. L. 194/78, art. 2). Il testo della 194 è un compromesso al ribasso, volutamente ambiguo al punto che la richiesta della sua piena applicazione può stare contemporaneamente a pagina cinque del programma elettorale di Fratelli d’Italia e rientrare nelle rivendicazioni di parte del fronte abortista. Un’altra parte ha sempre chiesto «molto più di 194».

Si vede lo strappo solo dove qualcuna lo indica

Per garantire un servizio di prossimità territoriale e a libero accesso, ci vuole un consultorio ogni ventimila abitanti (L. 34/96, confermata dal D.M. 77/22); il Progetto obiettivo materno infantile (Pomi 2000) specifica addirittura che nelle zone rurali sarebbe auspicabile un consultorio ogni diecimila abitanti. Tuttavia, dall’indagine dell’Iss (2018) risulta che sul territorio nazionale sono presenti 1800 consultori (non tutti con équipe completa), cioè in media uno ogni 35mila abitanti. In un’indagine precedente (2009), si registravano 1.911 consultori, già ridotti rispetto ai 2097 del 2007: in dieci anni, in Italia, si sono perse circa 300 sedi consultoriali. Dall’indagine del 2018 sono state chiuse decine di sedi in tutta la penisola: per esempio, a Trieste, a gennaio 2024 si è passati da quattro a due sedi, cioè una ogni 98mila abitanti.

La chiusura è solo l’atto finale di un processo più ampio. Dal 1975 a oggi, i consultori sono stati costantemente sottofinanziati: i fondi per il loro sviluppo sono stati stanziati solo tre volte, nel 1996, nel 2007 e nel 2008. Secondo Michele Grandolfo dell’Iss, i consultori hanno avuto una vita difficile anche perché è mancata una pianificazione nazionale e regionale che rendesse operativi gli obiettivi previsti dalla legge: prevenzione e promozione della salute. Inoltre, scrive Grandolfo, e qui si tocca un punto interessante, «l’orizzonte operativo dei consultori, servizi a bassa soglia di accesso, faceva riferimento a un modello sociale di salute, a un approccio non direttivo ma orizzontale, a una costante attenzione alle differenze di genere» che «andava potenzialmente a confliggere con quella biomedica e direttiva dei servizi tradizionali». 

La situazione dei consultori in Italia è tragica e rientra senza dubbio nel generale processo di disinvestimento nella sanità pubblica e «lenta sostituzione della sanità pubblica con quella privata», a più di quarant’anni dall’istituzione del Servizio sanitario nazionale. Nell’ambito di questo sfacelo regionale e nazionale, una devastazione della sanità pubblica tale per cui ci siamo abituate incredibilmente ad aspettare mesi esami che sono questioni di vita o di morte, nella passata stagione autunno-inverno ha avuto una qualche visibilità mediatica nazionale la chiusura di alcuni consultori in giro per l’Italia. Il faro si è acceso su questa particolare incrinatura di un enorme transatlantico al collasso perché in alcuni territori la chiusura dei consultori ha ricevuto una strenua opposizione cittadina, organizzata da reti femministe: per esempio a Trieste, nella Locride grazie a Riprendiamoci i consultori, a Senigallia, nei quartieri di Garbatella e Quarticciolo a Roma. Queste lotte stanno avendo forme, composizioni ed esiti diversi, ma sono accomunate da due cose: l’essere lotte trasversali e l’impossibilità di un dialogo istituzionale (Comuni, Regioni, Aziende sanitarie) nonostante la grande forza mobilitativa.  

La lotta per i consultori è una lotta femminista, perché mette al centro la questione del corpo e della salute, e si riconnette con le istanze della seconda ondata del femminismo. L’esistenza di un movimento femminista transnazionale come Non una di meno, che da più di otto anni si organizza in Italia, ed è presente capillarmente nelle provincie, ha permesso alla rabbia per la chiusura dei consultori di trovare un terreno dove allignare una capacità organizzativa e di coordinamento nazionale e anche un orizzonte ideologico dove innestarsi. La lotta per i consultori è però anche una lotta popolare, terreno di convergenza di femministe di varie età, di gruppi di madri e di persone dei quartieri. A occupare il consultorio di via San Marco a Trieste c’erano persone dai due ai settant’anni che probabilmente non si sarebbero mai incontrate altrove; tocca però anche notare che non c’era nessuna delle operatrici e che i sindacati, di fronte alla chiusura, si sono limitati a proclamare uno stato di agitazione, anche a causa di un generale clima intimidatorio..

«Nessuna interlocuzione con le istituzioni» (detto da loro)

In tutti questi casi, la chiusura dei consultori è avvenuta secondo uno schema. Le aziende sanitarie hanno proceduto alla cessazione del servizio con ragioni pretestuose e le Regioni non se ne sono mai assunte la responsabilità politica. A Garbatella, a settembre 2023, le utenti hanno trovato un cartello che parlava di lavori in corso, un paio di mesi dopo un altro cartello annunciava che in quella sede si sarebbero fatte solo le vaccinazioni; per il resto, il consultorio era chiuso. La strategia è quella di un iniziale svuotamento dei servizi (interrompendo le assunzioni e non sostituendo di chi va in pensione), a cui si possono aggiungere delle contingenze: a Quarticciolo si parla di barriere architettoniche, presenza di microcriminalità nella zona (un’ottima ragione per scoprirla di un presidio territoriale); a Bivongi (Reggio Calabria) c’è un ritardo nelle sostituzioni; a Trieste si presenta l’abolizione dei due consultori come una conseguenza amministrativa del dimezzamento dei distretti sanitari. In generale, si adduce a motivazione la mancanza di fondi e quindi di personale e si propone la riduzione delle sedi come soluzione razionale e razionalizzante. Il direttore della Asl Roma 2, Giuseppe Gambale, con una capriola retorica, commenta così la chiusura del consultorio di Garbatella: «queste sono le risorse di cui disponiamo, razionalizziamo al meglio i servizi invece di chiuderli». A Trieste, la chiusura di due strutture è stata presentata – con un’altra capriola retorica – come un potenziamento: si dice che è aumentato il numero di sedi (aggiungendo al conteggio quelle dei comuni limitrofi), a libero accesso (anche se questo già accadeva), su un orario più lungo (con il rischio di depotenziare l’attività d’équipe). 

Le ragioni della chiusura dei consultori

L’attacco ai consultori si basa in primo luogo sul fatto che uno spazio di salute che sia uno spazio di prevenzione ed educazione (gratuito!) non è previsto nel modello aziendalistico e prestazionista della sanità. In secondo luogo, la salute territoriale è contraria al modello ospedalocentrico e prontosoccorsista della sanità attuale. Si potrebbe obiettare che la missione 6 del Pnrr è dedicata alla salute e che ben sette dei quasi sedici miliardi riservati alla salute sono dedicati al rafforzamento dell’assistenza sanitaria territoriale: tuttavia, quando il Pnrr parla di assistenza sanitaria territoriale fa riferimento anche a telemedicina e cure domiciliari; inoltre, le Case di comunità previste dal piano – se ancora ci saranno fondi per gestirle una volta che le avremo costruite – potrebbero pericolosamente inglobare i consultori già esistenti e allo stesso tempo il Pnrr non prevede che ogni Casa di comunità svolga attività consultoriali (sono le uniche attività facoltative, secondo il decreto del Ministero della salute 77/22); in altre parole, con il Pnrr non nasceranno nuovi servizi di base ad accesso gratuito a tutela della salute della donna, del bambino e della coppia e famiglia, ma c’è il rischio che quelli che già esistono perdano la loro natura multidisciplinare, sociale, femminista. 

A queste ragioni economiche si aggiunge una ragione ideologica: i Consultori sono spazi per abortire. Con alcune varianti di regione in regione, i consultori sono ovunque coinvolti in una o più fasi dell’interruzione volontaria di gravidanza, cioè la pratica essenziale per l’autodeterminazione di chi può rimanere incinta e delle donne come soggetto politico. La chiusura dei consultori è un atto dell’attacco alla libertà di abortire, che sta avvenendo sia sul piano culturale sia su quello pratico, grazie all’obiezione di coscienza e all’infiltrazione nelle scuole e negli ospedali di gruppi antiabortisti, grazie a finanziamenti pubblici e leggi regionali. Peraltro, ed è notizia di questi ultimi giorni, è stato approvato in Commissione Bilancio alla Camera un emendamento di Fdi che ribadisce il «coinvolgimento [nei servizi consultoriali] di soggetti del Terzo settore che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità»: le associazioni antiabortiste, in verità, sono presenti in alcuni consultori e ospedali da sempre, sotto le spoglie di «idonee formazioni sociali di base e di associazioni   del   volontariato,   che  possono  anche  aiutare  la maternità difficile dopo la nascita» (L. 194/78, art. 2). L’emendamento quindi non interviene sul piano giuridico, ma su quello ideologico ed economico, blindando la presenza di gruppi anti-scelta nei luoghi dove, per legge, si dovrebbe poter scegliere.

«Famiglia, natalità e pari opportunità»

Nella politica istituzionale italiana di questo governo di estrema destra, le donne vengono prese in considerazione in primo luogo come madri. La ministra per la Famiglia, la natalità e le pari opportunità Eugenia Roccella, in occasione degli Stati generali della natalità a maggio 2023, affermava che «Questo Governo ha messo il tema all’ordine del giorno fin dalla denominazione dei ministeri, come dimostra il nome del ministero che ho l’onore di guidare. […] il nostro governo ha considerato i figli come un criterio orientativo, e direi fondante, per la sua azione in ogni ambito». Nel primo punto del programma di Fdi, si dice che la famiglia è «l’elemento fondante della società» e, citando Karol Wojtyła, «ciò che rende una Nazione veramente sovrana e spiritualmente forte». A partire da un’idea di società basata sulla famiglia tradizionale, nella quale i due genitori, di genere diverso, svolgono i ruoli di casalinga e di lavoratore e la donna ha la delega totale al lavoro di cura, si basa un’impostazione di welfare strettamente familista, che legittima il sotto-finanziamento dei servizi dedicati ai bambini, a partire dagli asili-nido, e lo sfruttamento del lavoro gratuito delle donne, parzialmente lenito da incentivi spot come il bonus mamme, rivolto solo a lavoratrici a tempo indeterminato con almeno due figli.

Il consultorio, che è uno spazio di autodeterminazione dove si può scegliere di essere o non essere madri e dove lo Stato per legge dovrebbe fornire gli strumenti per supportare questa libera scelta, non rientra in questa logica. Non importa quindi che il modello di salute che rappresenta (preventivo, olistico, multidisciplinare, di prossimità) sia quello che teoricamente va di moda oggi (suggerito da Oms, Ue e dallo stesso Pnrr), il consultorio è anche uno spazio dell’accesso all’aborto e l’aborto non s’ha da fare

Che ce ne facciamo di tutta questa rabbia?

Nel dibattito pubblico di oggi, tutti e tutte sono a favore delle pari opportunità: l’uguaglianza di genere è l’obiettivo numero cinque dell’Agenda 2030, cioè di quel dispositivo ideologico moralistico che supervisiona la spartizione dei fondi europei e detta argomenti di educazione civica nelle scuole. Le aziende – dalle multinazionali alle Pmi – organizzano campagne pubblicitarie contro gli stereotipi di genere; addirittura l’Arabia Saudita promuove il turismo con un’inserzione dove una calciatrice bambina abbatte un muro «girls can’t» sotto lo sguardo commosso di Leo Messi. Lo stesso attacco dei governi di destra alle donne, che sono l’unica minoranza non numericamente minoritaria, tende a camuffarsi e a non acquisire i tratti, pericolosi in termini di consenso, della guerra aperta, come scrivevo con Veronica Saba ai tempi del Ddl Pillon. 

Da un po’ di tempo, il capitalismo sta sussumendo tutte le lotte delle donne e delle persone Lgbt+; siamo passate, come scrive Ingrid Guardiola, «dalla libertà di consumo alla libertà di espressione, facendo di essa, un tempo elemento rivoluzionario e di trasformazione sociale, una strategia di rendimento capitalista». Di fronte al furto delle nostre parole da parte di chi produce oppressione, non possiamo limitarci a strutturare la nostra lotta sul piano del simbolico. Una lotta culturale che non sia accompagnata dalla prassi, e cioè dal tentativo di trasformazione dei rapporti economici, non può che essere ri-inglobata dal capitalismo. 

La rabbia (nonviolenta!) dopo un femminicidio è oggi lo spazio molto specifico che viene concesso ai movimenti femministi nel dibattito pubblico italiano, come ha dimostrato lo scorso 25 novembre, quando per una serie di ragioni il femminicidio di Giulia Cecchettin ha portato in piazza centinaia di migliaia di persone. Tuttavia, è evidente che quei numeri in sé non bastano e bisogna farsene qualcosa. Lo sciopero del Lotto marzo, da anni, prova esattamente a inserirsi come un cuneo nel sistema produttivo e riproduttivo, dimostrando come il lavoro sottopagato e non pagato delle donne è il motore del sistema produttivo e della vita stessa dell’umanità: forse, perché questo sia più chiaro, dovremmo avere il coraggio di incrociare le braccia dopo ogni femminicidio, come gli operai dei porti di Trieste e Monfalcone quando i loro compagni muoiono di lavoro.

Anche la lotta per i consultori può essere una strada da percorrere che va nella stessa direzione: nel sistema capitalista e patriarcale nel quale viviamo, svolgiamo quotidianamente un lavoro riproduttivo, cioè di riproduzione della forza-lavoro, domestico, di cura di altri esseri umani: i consultori sono quindi un luogo di sicurezza sul lavoro, oltre a un luogo che ci permette letteralmente di sopravvivere e non morire. Come si leggeva sui muri di Buenos Aires prima negli anni della lotta per legalizzare l’aborto: «sobrevivir a un aborto es privilegio de clase». Se con lo sciopero, sostiene Verónica Gago, il movimento femminista politicizza le sfere riproduttive anche oltre il domestico, espandendo così quella che è generalmente considerata l’economia, con la lotta per i consultori, mi pare, si cerca di realizzare la dimensione utopica nel presente, «senza attendere l’apparizione di soggetti pienamente liberati o condizioni ideali per le lotte, né senza fidarsi di un unico spazio che assecondi la trasformazione sociale»: consapevoli dei limiti e delle contraddizioni, si difende uno spazio di autodeterminazione e, proprio difendendolo, se ne riafferma la natura femminista.

Quando ho cominciato a scrivere questo articolo, la chiusura di due dei quattro consultori triestini, nonostante un anno di lotta, mi aveva provata. Oggi che lo finisco, torno da Padova, dove Non una di meno ha liberato un ex consultorio chiuso dal 2019, in uno stabile dell’Azienda territoriale per l’edilizia residenziale (Ater) e lo sta tenendo aperto da qualche settimana, provando a organizzare una Consultoria autogestita. L’occupazione è forse la presa d’atto di una sconfitta: si sceglie di ripartire a fare, dal basso, gratuitamente, quello che dovrebbe essere garantito dalla sanità pubblica grazie alle conquiste delle lotte del secolo scorso; ma l’occupazione è anche un punto di ripartenza, per riaffermare che la natura dei consultori è quella di spazi femministi, un aspetto che si era perso in decenni di istituzionalizzazione. 

Che prenda la forma dell’apertura di nuove consultorie o della resistenza contro la chiusura delle sedi esistenti, la lotta per i consultori è uno spazio che non possiamo abbandonare.

Michela Pusterla insegna Lettere in un istituto professionale di Trieste; ha scritto di femminismi e istituzioni totali.

La foto è di Martina Serra.

19/4/2024 https://jacobinitalia.it/

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